Viaggio nelle nuove #foibe, 3b | Ritorno dal Bus de la Lum in compagnia della Xª Mas

Un paraponzi mortifero: spartito dell'Inno della Xª Mas.

Un paraponzi mortifero: spartito dell’Inno della Xª Mas.

[Dopo il viaggio d’andata al Bus de la Lum, quello di ritorno conclude la nostra miniserie di tre puntate sulle “nuove foibe” e i falsi storici, le allucinazioni e le mitomanie che si ammassano intorno a esse. In questo post chiudiamo il cerchio: mostriamo come tutto il discorso “foibologico” abbia una matrice – attenzione: in senso stretto – nazista, spieghiamo l’importante ruolo di Junio Valerio Borghese e della Xª Mas nel framing della questione foibe, infine raccontiamo come si è arrivati al progetto che abbiamo chiamato «una foiba in ogni comune», e dunque ai recenti, deliranti “avvistamenti”. Buona lettura.]

di Lorenzo Filipaz
in collaborazione con Nicoletta Bourbaki *

6. Un tentativo di golpe storiografico
7. Foiba Revival: come funziona una foiba
8. Foibe ovunque!
9. Le foibe “pro loco” tra negazionismo e Blut und Boden
10. La foibologia “moderata”
11. Epilogo

6. Un tentativo di golpe storiografico

X MasLa Xª flottiglia MAS (sic) fu un corpo speciale di sabotatori della Regia Marina le cui imprese su motosiluranti e «maiali» (siluri “cavalcati”) erano state molto propagandate, sia nella prima che nella seconda guerra mondiale. La beffa di Buccari nel 1918, con la partecipazione diretta di D’Annunzio, e l’affondamento della nave ammiraglia austriaca Viribus Unitis a Pola il 1° novembre 1918 (mentre sulla nave i marinai stavano festeggiando la fine della guerra: più di 300 morti) associarono indelebilmente il nome del corpo al confine orientale e all’ideologia irredentista della grande guerra.

Dopo l’8 settembre del ’43 una parte della flottiglia si unì all’Esercito del Sud, passando dalla parte degli Alleati con il nome di Mariassalto. Al nord, invece, il comandante Borghese pensò di sfruttare il blasone patriottico e prestigioso della “Decima” per attrarre giovani al di fuori del fascismo, al suo nadir nell’indice di gradimento nazionale, per creare qualcosa di completamente diverso dal corpo originario: una divisione di fanteria su base volontaria specializzata in lotta antipartigiana. Per ferocia divenne in pratica la controparte fascista delle SS. Per farsi un quadro cercare “X Mas” nell’Atlante storico delle stragi nazifasciste, purtroppo mancano i dati della «provincia di Lubiana». La Decima fu uno dei pochi reparti della RSI a cui i tedeschi concessero una relativa autonomia operativa nei territori italiani da loro annessi, l’Alpenvorland (OZAV) e soprattutto l’Adriatisches Küstenland, (OZAK), dove si intendeva sfruttare i retaggi irredentistici del suo nome per reclutare i “patrioti” italiani alla paradossale collaborazione con gli invasori tedeschi.

Su questa base i reduci della Decima si autocelebrarono ex-post come sentinelle dell’italianità contro l’espansionismo “slavocomunista” ma anche come oppositori dei tedeschi in grado di contrastare dall’interno la germanizzazione della Venezia Giulia. In realtà il loro contributo militare fu limitato, eccelsero davvero solo nelle atrocità contro prigionieri inermi e nella propaganda antipartigiana, ma nel dopoguerra confusero i fatti architettando una narrazione secondo la quale loro non avevano mai perseguitato alcun partigiano – solo banditi comuni che non c’entravano nulla con la Resistenza (d’altronde nelle comunicazioni nazifasciste i resistenti venivano chiamati banditen). Per documentare il loro alquanto dubbio apporto nella “difesa dell’italianità” al confine orientale arrivarono al punto di inventarsi di sana pianta una battaglia epica contro gli “slavocomunisti” – la presunta “Battaglia di Tarnova” – non riconosciuta da nessun altro – mentre le proteste contro i comandi tedeschi per le scarse forniture di armi si tramutarono in prove incontestabili di opposizione al nazismo.

Il fine ultimo di questi autodossieraggi falsi, nell’immediato dopoguerra, era presentare i combattenti del reparto come “resistenti legali” all’invasore tedesco, in collegamento sotto copertura con gli Alleati. Una mistificazione piena di depistaggi e falsi alibi che potrebbe apparire risibile, al limite della mitomania, se non avesse avuto il pieno appoggio dello stato maggiore della Marina, interessato a ridare una verginità ai membri della Decima in funzione anticomunista (come testimoniano questi rapporti conservati dallo storico Giuseppe Casarrubea), oltre a dover giustificare internamente il fatto che effettivamente alcuni contatti con l’Esercito del Sud c’erano stati.

La Decima Mas aveva elaborato una propria struttura segreta, mantenuta intatta al termine della guerra, che poteva tornare molto utile ai servizi segreti occidentali. Gli associati al corpo furono prosciolti da ogni accusa per crimini di guerra e liberati. Lo stesso Borghese, per interessamento della CIA, fu dispensato dal rendere conto dei propri misfatti. A Trieste l’espressione “resistenti legali” fu usata per motivare le clamorose assoluzioni del prefetto e del podestà (nominati dai nazisti), per via del loro tentativo di collegare il CLN anticomunista cittadino con la Decima Mas in funzione anti-jugoslava. Il collegamento pare non essere riuscito prima del 30 aprile 1945 – e con le divisioni Osoppo, in Friuli, saltò per il diniego della Decima, ma questa è un’altra storia – ma divenne effettivo nell’immediato dopoguerra, quando gli ex-associati della Xª Mas svolsero un ruolo attivo nella strategia della tensione in Istria e Venezia Giulia (come nel caso di Maria Pasquinelli), parallelamente al sedicente CLN Istria.

Ma se i militi di Decima Mas e Brigate Nere sfuggirono in gran parte alla giustizia ufficiale del dopoguerra, non sempre riuscirono a evitare quella popolare che faceva più fatica a dimenticare torture, delazioni e assassinî. Proprio sulle esecuzioni sommarie che colpirono alcuni loro camerati al termine delle ostilità essi imbastirono da subito una controstoria nella quale ribaltavano il loro ruolo di carnefici spacciandosi per vittime. La legge del contrappasso che spesso regolava queste rese dei conti – per la quale i fascisti morivano dove avevano ucciso i partigiani e talvolta soffrivano le stesse sevizie inflitte come carnefici (l’esempio più celebre è piazzale Loreto)permetteva loro di usare il sangue dei propri colleghi per “coprire”, a livello di memoria, il sangue che essi stessi avevano fatto versare in precedenza nei medesimi luoghi.

Nel resto d’Italia la Decima Mas divenne il timone della riorganizzazione neofascista. La riscrittura apocrifa della propria stessa storia dopo l’8 settembre del ’43 dimostrava fin da subito l’attitudine alla “storiografia alternativa”. In quella operazione si delineava già il modus operandi che occorreva adottare in futuro: nascondersi. Occultare il fascismo in attesa di tempi migliori e nel frattempo screditare la resistenza da una posizione apparentemente legalitaria.

Giorgio Pisanò (1924 -1997)

Giorgio Pisanò (1924 -1997)

L’ex milite della Decima Giorgio Pisanò sistematizzò questa controstoria a partire dagli anni ’60, presentandola in sintesi al famigerato convegno dell’Istituto Pollio presso l’Hotel Parco dei Principi di Roma nel 1965. Scopo di quella relazione era presentare una rilettura della guerra di Liberazione in cui a risaltare era la barbarie comunista, di cui proprio le rese dei conti dopo il 25 aprile del ’45 dovevano rappresentare la prova tangibile. Uno scenario che avrebbe dovuto far apparire un eventuale colpo di stato militare, magari a guida fascista, come una necessaria e auspicabile reazione a una coalizione di governo di centrosinistra. Un golpe, ad esempio, come quello del Fronte Nazionale di Junio Valerio Borghese, preparato, avviato e abortito nel dicembre del 1970.

7. Foiba Revival: come funziona una foiba

Marco Pirina in quegli anni era a Roma, a capo del Fronte Delta, con il quale – stando ai piani di Borghese – avrebbe dovuto prendere il controllo dell’Università La Sapienza. Per i suoi contatti con il Fronte Nazionale Pirina fu anche arrestato nell’estate del ’75 e poi prosciolto da ogni accusa. I tempi non erano maturi, non solo per il colpo di stato militare, ma neppure per quello storiografico. Soltanto con il disarmo della generazione golpista, alla fine degli anni ’80, le figure prima di secondo piano poterono riaffermare i vecchi precetti – ora in abiti laici – sfruttando le stesse leggi di mercato.

Per Pirina il successo mediatico addirittura nazionale della vicenda del Bus de la Lum aveva rappresentato il definitivo «Si può fare!», il via libera per ritornare a parlare alla nazione di foibe. A partire dal 1993 il Centro studi Silentes Loquimur diede alle stampe una collana chiamata «Adria Storia», volta da principio a sistematizzare la tesi del Genocidio Nazionale come causa delle foibe giuliane e istriane. Si trattò di un revival filologico, di suo Pirina aggiunse poco, si limitò perlopiù a rimettere in circolo le campagne giornalistiche d’antan. Riciclò persino il titolo e la copertina del pamphlet nazista del ’43: Ecco il conto!

«Ecco il conto!», l'opuscolo sulle foibe istriane diffuso dalle SS dopo l'occupazione dell'Istria. Da quelle pagine parte la narrazione-matrice (sottaciuta, per ovvi motivi) di tutto il discorso sulle foibe.

In una sua pubblicazione, Marco Pirina riprende esplicitamente titolo e copertina di Ecco il conto!, opuscolo sulle foibe diffuso dalle SS dopo l’occupazione dell’Istria. In quelle pagine del 1943 si ritrova la matrice – oggi, com’è ovvio, sottaciuta – di tutta la narrazione decontestualizzata e vittimistica sulle foibe. Narrazione che Pirina, partendo proprio dal Bus de la Lum, attualizzò e rese più appetibile per i media di fine XX secolo.

Non appena ebbero ripreso il controllo dell’Istria nell’ottobre del ’43, le SS impiegarono il personale della Decima Mas nella campagna mediatica imbastita in Istria attorno alle “foibe” della cui lettura come “genocidio nazionale” furono i più accaniti corifei. Il pamphlet Ecco il conto! ne rappresentò la summa. Erano stati istruiti in questo senso dai nazisti, i quali miravano ad esasperare le conflittualità etnico-nazionali dei territori occupati al fine di celare il loro sanguinario dominio dietro il ruolo apparentemente neutro di semplici arbitri in mezzo a presunte faide etniche secolari: un vecchio trucco coloniale.

Le foibe si prestano per loro natura a peculiari “estensioni dell’immaginario”: sono cavità e pozzi più o meno naturali contenenti salme e resti sui quali quasi mai furono svolti accertamenti scientifici accurati poiché il loro utilizzo fu da subito appaltato alla propaganda politica. Se le spoglie mortali erano tangibili, le ricostruzioni circa gli esecutori, i mandanti, i moventi, le modalità del delitto, la cronologia esatta, furono delegate perlopiù a congetture, voci popolari, leggende metropolitane, testimonianze per procura, fantasie personali del giornalista o propagandista di turno…

…che diventavano incontrollabili nei rari casi in cui erano coinvolte donne. Il revanscismo mira a reinventare un’identità collettiva e forse per questo si alimenta di un serbatoio di dicerie che vertono ossessivamente sulla sessualità e la filiazione. Si è già visto il caso di Nella de’ Pieri, diventata incinta post mortem, ma ancor più celebre fu quello di Norma Cossetto (una delle poche donne rinvenute in una “foiba”), il cui corpo nella prima relazione fu giudicato perfettamente conservato, salvo poi diventare – in un crescendo di dettagli pruriginoso-orrorifici da cannibal movie – stuprata ripetutamente, impalata, mutilata, trafitta ai seni.

Delitti, vendette, omicidi ascrivibili ad atti di delinquenza comune, sepolture sbrigative di morti in combattimento di uno o dell’altro schieramento riemergevano come “infoibati” ossia corpi precipitati vivi nelle viscere della terra mediante rituali sadici, che sconfinavano nel vudù (la leggenda del cane nero gettato nella foiba per perseguitare le anime delle vittime), nelle storie di pirati (la leggenda del tolòn, vedi prima parte) e in reminescenze di via crucis (gli “infoibandi” che marciano legati tra loro con filo spinato, quasi a santificarli con torture simili a quelle patite da Gesù).

Le foibe servirono ai nazifascisti per instillare terrore dei partigiani nelle masse, soprattutto urbane, al fine di occultare dietro il recupero spettacolare di circa 200 corpi semi-decomposti, l’orrore e l’allarme per le rappresaglie naziste le quali, fino alla vigilia delle esumazioni, avevano prodotto in Istria quasi 5.000 morti.

Il 1° maggio del ’45 i partigiani jugoslavi spazzarono via i nazisti da tutto il litorale, i membri della Decima fuggirono a nord-ovest, per ritornare poi nella Venezia Giulia al seguito dell’amministrazione angloamericana. Furono i protagonisti occulti dell’intensa campagna di ricerca di salme nei pozzi carsici a cavallo tra gli anni ’40 e ’50, in molti casi nel ruolo di mandanti o finanziatori. I loro fiduciari erano gli speleologi del GEST – Gruppo Escursionisti e Speleologi Triestini – associato all’MSI, ma alle esplorazioni presero parte molti altri sodalizi di grottisti sorti improvvisamente proprio in quegli anni, anche senza una precisa connotazione politica, ai quali Junio Valerio Borghese in persona forniva attrezzatura.

Per i recuperi del Bus de la Lum procedette il GTS (Gruppo Triestino Speleologi) ma fu Borghese ad occuparsi poi della tumulazione delle spoglie recuperate nel cimitero di Caneva (PN). Per il pozzo minerario di Basovizza (diventato poi “la foiba” per antonomasia) erano stati invece gli stessi angloamericani a calarsi: come per il Bus de la Lum anche lì non si rinvennero che alcuni corpi di soldati tedeschi morti in combattimento. Il pozzo rimase aperto e vi si calarono anche diverse volte gli stessi speleologi finanziati da Borghese ma senza trovarvi altro. Poco male – per qualunque ricerca andata a vuoto, o inferiore alle aspettative, si usò la formula del «brillamento di mine»: i partigiani avevano sicuramente fatto saltare il fondo, per questo non si trovavano le migliaia di cadaveri!

Meglio ancora se eventuali recuperi o accertamenti si dimostravano impraticabili a causa di difficoltà tecniche (provvidenziali “bombe inesplose”, come nel Bus de la Lum, o anche solo per l’impossibilità di posizionare una benna sull’imboccatura), allora la presenza di centinaia di cadaveri era data per “quasi certa”. Si trattava di un ulteriore utilizzo del “dispositivo foiba” a cui i tedeschi non avevano pensato: mentre essi avevano spettacolarizzato il ritrovamento di corpi, nel dopoguerra se ne spettacolarizzò il mancato ritrovamento.

Pirina dunque rimise in circolo negli anni ’90 quelle campagne giornalistiche che aveva avuto la Decima Mas tra gli spin-doctor, sia prima che dopo la Liberazione. Il suo maggior contributo lo diede nella battaglia dei numeri: per tentare di annacquare la memoria della quantità di morti prodotti dai massacri e dalle deportazioni nazifasciste si era reso infatti necessario alzare oltremodo l’asticella dei caduti per mano partigiana, travasando con disinvoltura le vittime dei primi nel conteggio delle vittime dei “banditi”. Per il Bus de la Lum si era arrivati già nel ’49 al migliaio di cadaveri, per la foiba di Basovizza (TS) – che di tutta la vicenda del Bus costituì il vero e proprio modello – si arrivò a sparare la stima di tremila corpi.

Operazione FoibeIl problema sorge quando devi dare un nome alla massa anonima di migliaia di vittime. Pirina individuò 1458 nominativi per la provincia di Trieste. Claudia Cernigoi in Operazione Foibe, incrociando i dati scoprì che il 65% di essi erano falsi, poiché la lista includeva partigiani caduti, morti del tutto estranee alla guerra, nomi duplicati e persino persone ancora in vita, sopravvissute alla deportazione o che addirittura avevano abbandonato la Venezia Giulia prima della fine della guerra.

8. Foibe ovunque!

In ogni caso Pirina era riuscito ad anticipare a livello nazionale il “Foiba Revival” nei primi anni ’90 ma ben presto ne perse i diritti sul franchise. Dopo l’incontro tra Violante e Fini nel ’98 anche autori ritenuti “di sinistra” come Gianni Oliva e Frediano Sessi si buttarono a capofitto sul tema. Pirina divenne un foibologo scomodo la cui agenda politica era troppo plateale e antistorica – a tutt’oggi sono in pochi a riconoscergli la primogenitura tra gli ideologi del “Ricordo” – forse per questo ritornò a concentrarsi sulle foibe “di casa sua”, tra Friuli e Veneto.

Nei suoi progetti le foibe dovevano diffondersi in tutta l’Alta Italia. Se il metodo aveva funzionato per il Bus de la Lum allora poteva funzionare ovunque: in provincia di Udine, Treviso, Belluno, Vicenza, La Spezia. Bastava seguire la pista dei titoli di giornale scandalistici degli anni ’40 che Pirina ritagliava e conservava feticisticamente (il Centro Studi Silentes Loquimur è dotato di un’emeroteca apposita). Proprio mettendo insieme quei ritagli ricavò l’opera in due volumi 1945-1947 Guerra Civile. La Rivoluzione Rossa (2004) il cui fine era stordire il lettore con una messe di titoli di ieri e di oggi che traboccavano di cadaveri e torture per mano partigiana. Nulla di verificato ovviamente: i titoli bastavano, la loro mole era di per sé autoevidente per Pirina, ma evidente di cosa?

Se guardata con occhio critico e conoscenza dei fatti, la pubblicazione risulta persino illuminante: l’enorme mole di ritagli mette in luce la continuità tematica tra i giornali “repubblichini” e repubblicani fino al revival attuale de Il Giornale e di alcuni quotidiani locali del Nordest. Un filone lungo un cinquantennio con poche variazioni stilistiche: le stragi nazifasciste scompaiono, così come i rastrellamenti, le rappresaglie, il clima di terrore dell’occupazione nazista, per far emergere invece un’ecatombe violenta e immotivata per mano comunista; spariscono anche le responsabilità delle vittime e i moventi dei partigiani, i quali diventano sanguinari e sadici per loro intrinseca malvagità, folli serial killer ipnotizzati da un’ideologia demoniaca alla stregua dei thug della dea Kalì (nella propaganda coloniale).

immagine 03

Che fosse il ’43, il ’47 o il 2003, una parola rimbalzava ossessivamente dagli articoli: foibe, foibe ovunque. Dal confine orientale si erano diffuse in tutta Italia, per sineddoche. Lo stesso termine “foiba” è d’altronde una sineddoche popolare: un tempo era solamente il nome della grande voragine di Pisino (in Istria) in cui s’inabissa il torrente chiamato per l’appunto “Foiba”. L’uso del termine per ogni inghiottitoio carsico contenente dei cadaveri divenne ufficiale sotto l’amministrazione nazista, così come entrò nel lessico il neologismo “infoibato”: un’altra ardita sineddoche per la quale una minoranza di scomparsi ritrovati negli abissi era buona a indicare qualsiasi persona scomparsa senza notizie, anche se morta per deperimento in un campo di prigionia ( Cfr. R. Pupo & R. Spazzali, Foibe).

Se l’escamotage retorico aveva funzionato sul confine orientale allora poteva essere replicato in tutta Italia, era questo d’altronde il progetto originario di controstoria istantanea di Junio Valerio Borghese! A ispirare questa proliferazione era stato pure padre Flaminio Rocchi, il “padre dell’esodo e delle foibe” nonché figura di riferimento dell’ANVGD, il quale sosteneva che qualsiasi cavità carsica inesplorata contenesse i corpi dei martiri italiani, suggerendo tra le righe la ricerca di infinite future nuove foibe (invito messo in atto dall’Unione degli Istriani, un’associazione di esuli che nei primi anni duemila organizzò improvvisati pellegrinaggi presso alcune “nuove foibe” oltre confine, dando luogo a un paio di accese contestazioni da parte della popolazione locale).

Rocchi (nato Socolich) era un frate francescano con importanti trascorsi militari e che nell’esercito continuava evidentemente a mantenere agganci, poiché fu lui a riuscire a ottenere l’intervento del Commissariato Onoranze Caduti del Ministero della Difesa (il già menzionato OnorCaduti) per la monumentalizzazione della foiba di Basovizza nel 1959, rispetto alla quale l’ente militare si era dimostrato prudente negli anni precedenti, a causa della carenza di riscontri ma anche per cautela politica, dato che la “foiba” era diventata fin dall’immediato dopoguerra un vero e proprio santuario per i reduci della Decima Mas.

Bruno VespaL’opera di Pirina di per sé sarebbe passata inosservata se Bruno Vespa non ne avesse travasato i contenuti (pieni di diffamazioni gratuite) nel suo bestseller Vincitori e vinti. Ma per reimpiantare le foibe nelle coscienze la carta stampata non bastava, occorreva anche la carta bollata dei tribunali, convincente indipendentemente dal valore del suo contenuto. Pirina ripartì di nuovo dal Bus de la Lum e dagli altri presunti eccidi del Veneto: se nel ’92 alla Procura di Pordenone aveva rimediato un buco nell’acqua, dieci anni dopo decise di rivolgersi alla giustizia militare. Qualcuno doveva avergli detto che in quei tribunali non avevano un granché da fare. Lo stesso PM che si occupò delle denunce di Pirina, Sergio Dini, qualche tempo dopo innescò uno scandalo ammettendo che nella giustizia militare si accettavano cause-farsa pur di giustificare il proprio stipendio, tipo spintoni durante partite di calcetto e brioches smangiucchiate a tradimento nella mensa ufficiali. Attenzione però a constatare l’irrilevanza delle cause aperte da Pirina: per Il Giornale è un gesto di ostruzionismo politico!

La tecnica era quella dello sfinimento: alla procura militare di La Spezia Pirina fece aprire innumerevoli fascicoli su presunti massacri a Modena, Cesena, Reggio Emilia, Savona, Alessandria, Genova, Torino… E in alcuni casi procedette a recuperi, spettacolarizzati sempre da Il Giornale, come quello delle ossa nella “foiba” di Campastrino, comune di Riccò del Golfo, provincia di La Spezia. A quanto pare si trattava dei resti di 3-4 corpi di tedeschi e fanti della Decima Mas (sempre loro), ma per Pirina gli infoibati diventarono subito 33! L’iter era quello consolidato al Bus de la Lum: la creazione di un comitato onoranze funebri ad hoc, con tanto di prete pronto a benedire qualunque osso, e il martellamento su OnorCaduti per il conferimento dello status di monumento nazionale.

Ma dove voleva andare a parare l’ex capo del fronte Delta? Claudia Cernigoi in Operazione Foibe analizzò un’intervista in cui Pirina ammetteva che

«la chiave di lettura che in questi ultimi anni si è data delle Foibe è stata molto falsata perché è stato accentuato un principio di lettura etnico: si è detto che sono stati gli slavi». Mentre invece «i partigiani comunisti italiani» erano andati «fisicamente a prelevare coloro che erano nemici del progetto rivoluzionario […] «perché ciò che accadde in Istria, in Venezia Giulia, in Friuli, corrispondeva esattamente a quanto successe in Emilia Romagna, in Piemonte, in Lombardia».

Ciò che Pirina voleva dimostrare con la sua campagna mediatica era il filo rosso che univa l’azione dei partigiani comunisti con l’attività terroristica delle BR. Un concetto espresso anche da Ugo Fabbri («il mito fasullo della Resistenza è stato il motore direzionale che ha guidato il partito armato delle Brigate Rosse»), un altro personaggio dai contatti giovanili con Junio Valerio Borghese.

9. Le foibe “pro loco” tra negazionismo e Blut und Boden

Fabbri è noto a Trieste come negazionista della Risiera, l’unico lager nazista attivo in Italia. C’è d’altronde contiguità fra mentalità negazionista e “foibologia”: la strategia perseguita da entrambe è negare o ridimensionare i crimini nazifascisti, spacciati per un’esagerazione propagandistica atta a nascondere i crimini comunisti; comune è infatti pure la visione complottistica della storiografia: la pretesa congiura del silenzio sulle foibe si accorda idealmente alla congiura giudaica del presunto mito della Shoah – per Ugo Fabbri la Risiera fu tutta una montatura pensata per occultare i massacri delle foibe. La sua è più che altro una voce dal sen fuggita nel composito panorama foibologico, ma ne illustra la matrice nascosta. Il negazionismo tende infatti a celarsi sotto le spoglie di una più accettabile equiparazione degli opposti estremismi, un paradigma secondo il quale,  come scrive Pier Paolo Poggio

«il fascismo europeo non è altro che una reazione al marxismo; d’altro canto, l’antisemitismo è ridotto a sua volta ad antibolscevismo e lo sterminio di razza a quello di classe»,

ovverosia gli esiti a cui giunse Ernst Nolte negli anni ’80 quando le sue provocazioni diedero vita alla famigerata Historikerstreit. Per Nolte la seconda guerra mondiale non fu altro che il culmine di una grande guerra civile europea, un’idea che utilizza l’equidistanza dal nazismo e dal comunismo come presupposto per la mera riabilitazione del primo come argine del secondo. Una tesi che riscosse diverse simpatie nel mondo cosiddetto “moderato”, almeno fin quando non emerse il subdolo antisemitismo di Nolte (per lui la persecuzione degli ebrei fu una forma di legittima difesa della Germania contro il pericolo rosso).

La “foibologia”, dato il suo contesto, permette di separare la visione complottistica/negazionista della storia dal suo impianto antisemita, primo passo per essere accettata nel discorso politico nazionale. Le vecchie come le nuove “foibe” seguono questo progetto, andando a incunearsi in zone storicamente ad elevata densità di crimini nazifascisti al fine di avvelenarne la memoria: in queste tre puntate abbiamo visto la funzione dell’immaginaria “foiba di Roccastrada” per la Maremma, così come la “foiba mobile” di Rosazzo rincorsa da Luca Urizio per il Friuli Orientale ed il Bus de la Lum per il Cansiglio. L’esempio istriano ha fatto scuola: a tutt’oggi, in Italia, dire «Istria ’43» significa dire foibe titine, e non rappresaglia nazista che fu come minimo dieci volte più sanguinaria.

Un altro “neofoibologo” della generazione di Pirina, Antonio Serena, mirò a ottenere lo stesso risultato per il Veneto. Nel 1990 pubblicò I giorni di Caino, un’opera che monetizzava la campagna di Pirina per il Bus de la Lum, inserendola in un quadro di innumerevoli “busi” disseminati in tutto il Cansiglio, ma anche in tutto il Veneto, tutti traboccanti di vittime della furia partigiana. Una realtà alternativa pensata per nascondere l’estensione delle stragi nazifasciste: 703 in tutto il Veneto.

Antonio Serena

Antonio Serena

Se Pirina era l’uomo con un’idea, Antonio Serena ne era il narratore, colui che poteva fissare le scorrerie giudiziarie e mediatiche di Silentes Loquimur in un racconto da ancorare sul territorio aldilà delle cronache mondane. All’opera di Pisanò, a cui si ispirava, Serena aggiungeva una personale intuizione: la controstoria non doveva solo ricalibrare la politica del presente, doveva ridisegnare l’identità del territorio, secondo il vecchio schema del blut und boden, camuffato nel generale risorgimento delle radici regionali degli anni ’90.

Da Pisanò Serena riprendeva la storia surreale dei militi della Decima Mas quali veri difensori del territorio, a cui affiancava la storia altrettanto fantasiosa dei partigiani autoctoni “buoni”, attendisti o persino “neutralisti”, traviati o addirittura ammazzati da un manipolo di assatanati partigiani estranei al territorio, provenienti perlopiù da Bologna. Questa sarebbe stata la storia della medaglia d’oro Toni Adami, che a detta di Serena fu ammazzato da partigiani rossi travestiti da tedeschi (una tesi priva di fondamento, basata sul fatto che per alcune fonti fu ammazzato da nazisti e per altre da fascisti, un’incongruenza che per Serena sarebbe la prova irrefutabile di una montatura, alla maniera di Faurisson), perché mirava «a stabilire un accordo di convivenza tra partigiani e nazisti», una diffamazione nei confronti di Adami ma anche nei confronti dell’intelligenza dei lettori. Per Serena infatti, i partigiani locali salivano in montagna in primavera-estate per poi scendere in pianura in autunno-inverno a lavorare per la Todt, scortati dai tedeschi. Un quadretto idilliaco del partigianato locale squarciato dai sanguinari comunisti emiliani che avrebbero rotto l’armonia con i tedeschi, severi ma pur sempre tutori dell’ordine. 

Per Serena tutti i caduti partigiani erano riconducibili a faide interne al movimento di liberazione di cui l’eccidio di Fontanelle di Conco non era che la punta dell’iceberg. Insomma, un mix di vecchia propaganda democristiana dei tempi di Gavino Sabadin, di propaganda antipartigiana stile achtung banditen d’epoca nazifascista e di moderno localismo culturalista da Liga Veneta.

Vauro su PansaCome Pirina fu sdoganato da Vespa, Serena ottenne una sovraesposizione nazionale grazie a Giampaolo Pansa, allorché usò il suo I giorni di Caino come base per la sua personale riscrittura della storia della Resistenza. Aldilà della ripulita che un autore ritenuto “di sinistra” poteva dare alla narrazione di Serena, il maggior apporto di Pansa fu l’inquadramento di quella controstoria nella “retorica dei vinti”, una costruzione ideologica per la quale i fascisti giustiziati vengono infilati di soppiatto nella stessa categoria mentale dei “vinti della storia”, accanto alle plebi calpestate narrate da Verga fino a Nuto Revelli, come se riabilitare i militi della RSI fosse addirittura una cosa “di sinistra”.

Pansa aggiungeva un tocco umanitario di pietà cristiana, passando con un balzo felino dal diritto di piangere i morti di qualunque parte politica alla mera denigrazione della resistenza, indulgendo nelle biografie dei fascisti uccisi, piene di dettagli opportunamente staccati dalle responsabilità individuali e collettive. Un trucco retorico da cui lo stesso Serena trarrà insegnamento. Se infatti la prima edizione del 1990 de I giorni di Caino puzzava ancora troppo di orbace come i libri di Pisanò, nella successiva edizione gli spigoli “neri” furono smussati in favore di un tono generale più “pietoso” e meno revanscista, guadagnandosi il plauso di Massimo Fini – profetà del né-né (né di destra né di sinistra) – che della seconda edizione scriverà l’entusiastica prefazione.

Un esempio delle ricadute politiche di questa operazione si ebbe quando Elena Donazzan (sì, proprio lei) partecipò alle contro-celebrazioni neofasciste in occasione del 25 aprile presso il Bus della Spaluga, in provincia di Vicenza – una delle nuove foibe di Serena, priva di riscontri come tutte le altre. Donazzan rivendicava il diritto di memoria sia dei partigiani che dei repubblichini, equiparando coloro che «in buona fede combatterono per la libertà» con «coloro che lo fecero per l’Onore d’Italia», una mera denigrazione della resistenza spacciata per pacificazione nazionale.

Ma chi è Antonio Serena? È un cittadino veneto attento ai valori tradizionali della famiglia e alla difesa degli anziani, specie se ex-nazisti criminali di guerra. Dopo aver militato in gioventù nell’MSI fu eletto in Senato per la Lega Nord, ma poi si congiunse agli eredi del suo partito d’origine. A causa del suo attivismo pro Erich Priebke, Fini chiese la sua espulsione da AN. Probabilmente si sarebbe comunque dimesso da solo per la sua contrarietà al viaggo di Fini in Israele. Successivamente difese il negazionista Amaudruz condannato a un anno per le sue tesi in Svizzera.

Pirina condivise lo stesso percorso politico di Serena, anche lui era passato alla Lega Nord ottenendo un seggio nel consiglio comunale di Pordenone. Fu stroncato da un infarto nel 2011. A tutt’oggi l’associazione “Orgoglio Veneto” si reca al Bus de la Lum per celebrarlo quale profeta del venetismo. E qui si spalancano nuovi abissi (o nuove foibe, visto che siamo in tema). Scavando e scavando, scopriamo che nel 1995, nel corso di una delle sue mille scorribande giudiziarie, Pirina si fece assistere dall’avvocato Edoardo Longo, anch’egli pordenonese. La querelle riguardava il “mancato finanziamento” delle “ricerche storiche” di Silentes Loquimur da parte della Regione Friuli-Venezia Giulia. Due anni prima, nel 1993, lo stesso Longo aveva recensito entusiasticamente il libro di Pirina Adriatisches Kustenland 1943/45. La recensione si concludeva con queste ispirate parole:

«Forse è ancora presto per cogliere tutte le valenze di questo convulso periodo storico, ma, certo, questo libro […] può dar spunti di riflessione ad un ricercatore attento. Allora si potrà intuire la grandiosità – tragica e disperata nel contempo – del progetto della Nuova Europa a base etnica che il più eroico e sfortunato nazionalsocialismo volle progettare nelle fosche e corrusche pagine conclusive della propria tragica epopea.»

Vent’anni più tardi, nel 2013, ritroviamo Edoardo Longo nella veste di “avvocato guerriero” al servizio del Movimento Trieste Libera, creatura Frankenstein neoindipendentista comparsa a Trieste nel 2010, fenomeno politico interessantissimo da studiare per chi si occupi di rossobrunismo.

Uno degli exploit di Edoardo Longo

Uno dei tanti exploit dell’avvocato Edoardo Longo. Clicca sull’immagine per scoprirne altri.

Nell’indipendentismo triestino del ventunesimo secolo per un paio di anni si sono ritrovati, sotto la stessa bandiera rossoalabardata, indipendentisti storici, ex fascisti italianissimi alla ricerca di una nuova identità, jugonostalgici, austriacanti, e – last but not least – allucinati nostalgici dell’Adriatisches Kustenland. Tutti accomunati dall’ammirazione per lo zar Putin. Il cerchio si chiude. Zurück zu 1943, quando gli amici/nemici, gli italianissimi della Xª Mas e gli ariani delle SS, crearono insieme il culto pagano della foibologia, per disarticolare la resistenza comunista e restaurare l’ordine veramente antico.

10. La foibologia “moderata”

Pirina e Serena concepivano le “nuove foibe” come baionette da assalto frontale all’ANPI. Un approccio da guerra di posizione su trincee contrapposte mediante il quale Silentes Loquimur riuscì a sopravanzare l’ANPI nell’accaparramento di finanziamenti regionali in Friuli Venezia Giulia. Un approccio però ora superato dagli eventi. Dal momento in cui la foibologia è ritornata ad essere liturgia nazionale con l’istituzione del Giorno del Ricordo e dal momento in cui l’ANPI organizza ambigui convegni sul confine orientale la sua voce – perlomeno a livello locale – si è resa spesso flebile, sulla difensiva.

Per tutto il dopoguerra l’ANPI è stata incapace di ammettere che la guerra di liberazione abbia avuto anche carattere di guerra civile, temendo l’equiparazione morale fra partigiani e collaborazionisti, un tabù che però ha di fatto materializzato proprio quella paura, perché ha così lasciato il tema in balia dei revisionisti alla Nolte, sostenitori dell’assurda tesi secondo cui la lotta di liberazione fu solo una guerra civile in cui i nazifascisti non facevano altro che difendersi da partigiani invasati e sanguinari.

Causa e al contempo conseguenza di quel tabù è stata la concezione della Resistenza come guerra patriottica nazionale contro l’invasore, un paradigma che mostra tutta la sua fragilità soprattutto sul confine orientale, dove combatterono due movimenti di liberazione di ispirazione nazionale diversa e dove venne meno la volontà politica di collaborazione militare fra partigiani di diverso orientamento politico (i CLN anticomunisti e antislavi come le divisioni Osoppo uscirono dal CLN Alta Italia e i suoi reduci nel dopoguerra non aderirono all’ANPI). Il confine orientale rimaneva così idealmente una porta aperta a possibili infiltrazioni tossiche.

Roberto Spazzali e Raoul Pupo

Roberto Spazzali e Raoul Pupo

Negli stessi anni in cui Silentes Loquimur portava avanti la sua agenda, Roberto Spazzali era impegnato nella stesura di Foibe: un dibattito ancora aperto: tesi politica e storiografica giuliana tra scontro e confronto, pubblicato dalla Lega Nazionale nel 1990, una ponderosa opera di oltre 600 pagine con la quale il professore triestino smontava proprio la storiografia di estrema destra sulle foibe. In realtà nel saggio l’argomento foibe, più che smontato, veniva “scippato” all’estrema destra, non per consegnarlo alla ricerca storiografica quanto ad un’altra agenda politica.

Spazzali intendeva infatti recuperare il punto di vista del CLN nazionalista e antislavo triestino. Per portare a termine tale disegno era necessario sottrarre la tematizzazione delle foibe alla sua matrice originaria, storiograficamente eversiva e antiresistenziale, per poterla adoperare esclusivamente in senso “nazionale” contro i partigiani jugoslavi e garibaldini, colpevoli di aver tradito la patria collaborando con il nemico titino. Un discorso che a livello nazionale era stato prudentemente accantonato veniva così rivalutato localmente, isolando la storia del confine orientale – sottratto dunque anche a pericolosi confronti col resto del territorio nazionale. Cionondimeno, nella presentazione del volume di Spazzali, il presidente della Lega Nazionale Paolo Sardos Albertini non poté fare a meno di citare proprio Nolte, sottolineando la necessità di far partire proprio dalle foibe del confine orientale una revisione di tutta la seconda guerra mondiale secondo la visione di guerra civile europea proposta dal filosofo tedesco.

Qualche anno dopo Giampaolo Valdevit scrisse Foibe: l’eredità della sconfitta (1997) in cui si rivedeva il famoso giudizio di Giovanni Miccoli (ex-presidente dell’IRSML-FVG) per il quale il confronto tra Foibe e Risiera era aberrante. Per Valdevit i due fenomeni storici erano invece “commensurabili” alla luce della categoria di violenza di stato, trasformando in assioma storiografico nazionale ciò che già il prof. Fulvio Salimbeni aveva auspicato nella prefazione al libro di Spazzali. Nel grande contenitore della violenza “statale”, Shoah, assassinio e deportazione di famiglie slovene e croate sono equiparabili alle epurazioni partigiane. Allora perché non includere le uccisioni di Carlo Giuliani, Stefano Cucchi e Federico Aldrovandi?
Eppure l’assunto di Valdevit costituì la base ideologica del famigerato incontro tenutosi a Trieste fra Luciano Violante e Gianfranco Fini il 14 marzo 1998, pietra miliare della nuova memoria nazionale condivisa.

Violante e Fini

Delle memorie conflittuali non resta che pulviscolo, forfora su un cappotto da spazzar via.

Gli autoproclamati “nuovi storici” del confine orientale – Pupo, Spazzali, Valdevit – hanno mantenuto dunque il contenitore “Foibe”, forgiato dalla propaganda antislava, revanscista e neofascista, svuotandolo dei vecchi contenuti per riempirlo di nuovi, tenendovi in ostaggio problemi storici eterogenei: rese dei conti locali, attriti postbellici tra Italia e Jugoslavia e geopolitici tra blocco occidentale e blocco sovietico, la questione di Trieste, il problema dei prigionieri di guerra, il problema degli spostamenti di popolazione in seguito ai nuovi assetti geografici e politici, nonché problemi di politica interna del nuovo stato jugoslavo. Si convinsero di poterlo manovrare a proprio piacimento per i propri obiettivi politici come una specie di mostro di Frankenstein, ma la bestia ritorna sempre a casa, trascinandovi anche chi pretende di mettergli il guinzaglio.

Un numero di «Storia in rete». Il suo redattore più in vista, Emanuele Mastrangelo, è stato espulso a vita da Wikipedia per «uso disinvolto e fuorviante delle fonti». È lo stesso Mastrangelo a cui Raoul Pupo ha concesso la lunga intervista di cui ci occupiamo qui a fianco. Per saperne di più sull'espulsione da Wikipedia, clicca sull'immagine.

Un numero di «Storia in rete». Il suo redattore più in vista, Emanuele Mastrangelo, è stato espulso a vita da Wikipedia per «uso disinvolto e fuorviante delle fonti». È lo stesso Mastrangelo a cui Raoul Pupo ha concesso la lunga intervista di cui ci occupiamo qui a fianco. Per saperne di più sull’espulsione da Wikipedia, clicca sull’immagine.

Accade quando Emanuele Mastrangelo intervista Raoul Pupo sulla rivista “Storia in rete” (Gennaio-Febbraio 2016, p. 14), dove lo storico triestino ribadisce la controversa categoria di “violenza di stato” formulata da Valdevit come contenitore in cui violenze partigiane e nazifasciste si equivalgono, affermando che lo stesso discorso non è valido per il resto d’Italia semplicemente perchè i comunisti non presero il potere: un crinale ripido a un passo da Pirina, Serena e Pisanò, tanto più pericoloso quando l’interlocutore è Storia in Rete, una rivista apertamente e notoriamente revisionista. Mastrangelo infatti confeziona l’intervista inserendola in una cornice storica per la quale le violenze del confine orientale sono il frutto di faide etniche secolari, una tesi cara all’asse nazifascista.

La posizione di Pupo si fa sempre più arrischiata quando convalida le tesi dell’intervistatore, per le quali l’esodo istriano sarebbe un frutto della fratellanza italo-slava e le violenze nell’area balcanica il frutto di una presunta virulenza intrinseca del comprensorio, dove le responsabilità italiane sfumano. Il concetto si completa nell’articolo successivo all’intervista di Pupo, a firma di Maria Teresa Giusti, dove si sostiene che «a trasformare il soldato italiano e a spingerlo alle crudeltà commesse in Iugoslavia fu l’inaudita ferocia dei partigiani». Il classico dispositivo negazionista nella sua variante italiana, in cui si può facilmente evitare lo scomodo antisemitismo rivendicando apertamente l’antislavismo, negando o banalizzando la tragedia dei campi di internamento fascisti.

I “nuovi storici” si sono adoperati per contenere la loro chiave di lettura unicamente sul confine orientale al riparo dalle grinfie neofasciste ma la loro quarantena è debole, l’argomento “foibe” nella sua chiave nazionale istituzionalizzata dal Giorno del Ricordo minaccia la stessa credibilità dell’accademia italiana, poco propensa ad approfondire l’argomento, basta un qualunque ricercatore in cerca di appoggi per far sfuggire una foiba in giro per il Friuli. Le “foibe” sono ovunque, pronte ad attivarsi al minimo tornaconto elettorale o identitario. L’argomento minaccia di infettare chiunque lo maneggi a scatola chiusa, senza analizzarlo con gli adeguati anticorpi, che sia il presidente della Repubblica o l’ANPI.

Come risultato abbiamo il paradosso per cui ogni 10 febbraio, nell’anniversario del trattato di pace, il presidente PD della regione FVG Debora Serracchiani si reca alla foiba di Basovizza accanto ai labari della Xª MAS, davanti ad un monumento la cui attendibilità storiografica è controversa, mentre il 2 aprile, anniversario della strage del Poligono di Opicina (a pochi chilometri da Basovizza), dove i nazifascisti massacrarono per rappresaglia 71 persone, nessuna autorità politica o istituzionale si fa viva.

11.Epilogo

Lapide che diffamava la divisione partigiana Nino Nannetti

Bus de la Lum. La lapide che con numeri e circostanze false calunniava la divisione partigiana Nino «Nannetti».

L’ultima notizia data dai quotidiani locali sul Bus de la Lum è la distruzione di una lapide da parte di ignoti vandali. Ma chi ha posto quella lapide, con quale autorizzazione e su quali basi storiche? L’iscrizione sulla targa dice che è stata posta nel 2015, 70° anniversario della Liberazione, dai familiari delle 3.463 presunte vittime militari e civili della Divisione Nannetti.

Pare che a metterla sia stata CasaPound. La cifra è desunta dal libro I fantasmi del Cansiglio di Antonio Serena, in cui così si conteggiavano i morti del territorio controllato dalla Divisione Nannetti: 1054 repubblichini, 2294 tedeschi e 115 “spie”. Per i geniacci di Fiamma Tricolore peraltro si tratta di 3000 e passa individui fatti tutti sfracellare nel Bus de la Lum.

Da notare che i giornali locali inseriscono la vicenda in un quadro di opposti vandalismi, mettendolo in prospettiva con la contemporanea distruzione del monumento alla Resistenza nel Cansiglio. Per tutta risposta l’ANPI non ha mancato di prendere le distanze dall’atto vandalico. Eppure viene da chiedersi quale sia la vera incuria: la distruzione di una targa o la messa a dimora in una scritta falsa, denigratoria, priva di alcun vago riscontro storiografico?

Nel tempo il Bus de la Lum è uscito dal recinto localistico per approdare sulla versione italiana di Wikipedia, dapprima come semplice sezione della voce «Cansiglio».
L’edit che dà l’avvio alla vicenda è dell’utente VEItalico, un contributore attivo tra il 2009 e il 2013 (debuttò su it.wiki intervenendo nella pagina di discussione di Emanuele Mastrangelo a proposito della Decima Mas. Fra le sue creazioni la voce inerente al “Battaglione Barbarigo”, il «Primo tra i reparti di Fanteria di Marina della Xª Flottiglia MAS ad essere costituito»).
VEITalico riportava la solita balla delle centinaia di vittime infoibate, usando come fonte 101 cose da fare a Venezia almeno una volta nella vita, Newton Compton Editore.
Un anno dopo al Bus de la Lum un altro utente dedica una voce a sé stante, creata più che altro per menzionare il presunto eccidio (si ricorda che non esiste traccia storiografica acclarata di nessun eccidio specifico al Bus).
Nel tempo si sedimentarono tra le fonti i quotidiani locali e i libri di Serena.

Purtroppo l’enciclopedia libera non è il solo sito a riportare questa vulgata, anche un sito istituzionale curato dalla Regione Friuli Venezia Giulia e dell’Università di Trieste, parla espressamente di foiba. La minacciosa croce nera del Bus de la Lum sembra rivendicare una realtà incontrovertibile. Non è un monumento ai caduti della seconda guerra mondiale, è l’altare sacrale di una nuova religione nata proprio lì: la foibologia.

Bibliografia selezionata

  • Blog dello storico Giuseppe Casarrubea
    [Casarrubea è morto il 7 giugno 2015, speriamo che qualcuno si stia adoperando per salvare e mantenere disponibili on line questi materiali.]
  • Gino Candreva, La storiografia à la carte di Giampaolo Pansa, Zapruder n.39, pp. 126-135
  • Claudia Cernigoi, Operazione “Foibe” tra storia e mito, Kappa Vu, 2005
  • Gaetano Dato. Foiba of Basovizza: the Pit, the Monument, the Memory, and the Unknown Victim. 1945 -1965
  • Giovanni De Luna, Il corpo del nemico ucciso, Einaudi, 2006
  • Nicola Gallerano, Le verità della storia. Scritti sull’uso pubblico del passato, Manifestolibri, 1999
  • Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Bollati Boringhieri, 1991
  • Jože Pirjevec, Foibe: una storia d’Italia, Einaudi, 2009
  • Valentina Pisanty, Abusi di memoria, Bruno Mondadori, 2012
  • Pier Paolo Poggio, Nazismo e revisionismo storico, Manifestolibri 1997

* Nicoletta Bourbaki è il nome usato da un gruppo di inchiesta su Wikipedia e le manipolazioni storiche in rete, formatosi nel 2012 durante una discussione su Giap. Con questa scelta, il gruppo omaggia Nicolas Bourbaki, collettivo di matematici attivo in Francia dal 1935 al 1983.

I commenti a questo post aperti 72 ore dopo la pubblicazione, per consentire una lettura non frettolosa e una discussione meditata e – soprattutto – pertinente.
Ricordiamo le puntate precedenti del Viaggio nelle nuove foibe:

1. Chi sogna una foiba in Maremma? Il caso Roccastrada – di Alberto Prunetti

2. La foiba volante del Friuli orientale – di Nicoletta Bourbaki

3a. Le nuove #foibe, 3a puntata | Viaggio d’andata al Bus de la Lum – di Lorenzo Filipaz e Nicoletta Bourbaki

Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)Scarica questo articolo in formato ebook (ePub o Kindle)

9 commenti su “Viaggio nelle nuove #foibe, 3b | Ritorno dal Bus de la Lum in compagnia della Xª Mas

  1. […] esistono numerosi esempi simili, come la già citata magica foiba volante, il ponte pirata del Bus de la Lum, la foiba della Maremma e la leggenda del cane nero mangia anime gettato nelle cavità […]

  2. […] 3b. Le nuove foibe, 3a puntata | Ritorno dal Bus de la Lum in compagnia della Xa Mas […]

  3. […] qui su Giap, Nicoletta Bourbaki e Lorenzo Filipaz hanno ricostruito (in due puntate: 1 – 2) la genesi di uno dei falsi storici più assurdi in tema di «violenze partigiane», quello […]

  4. […] Su Giap, Filipaz ha scritto: “Per documentare il loro alquanto dubbio apporto alla difesa dell’italianità al confine orientale i reduci arrivarono al punto di inventarsi di sana pianta una battaglia epica contro gli ‘slavocomunisti’ – la presunta battaglia di Tarnova – non riconosciuta da nessun altro, mentre le proteste contro i comandi tedeschi per le scarse forniture di armi si tramutarono in prove incontestabili di opposizione al nazismo”. […]

  5. […] Su Giap, Filipaz ha scritto: “Per documentare il loro alquanto dubbio apporto alla difesa dell’italianità al confine orientale i reduci arrivarono al punto di inventarsi di sana pianta una battaglia epica contro gli ‘slavocomunisti’ – la presunta battaglia di Tarnova – non riconosciuta da nessun altro, mentre le proteste contro i comandi tedeschi per le scarse forniture di armi si tramutarono in prove incontestabili di opposizione al nazismo”. […]

  6. […] proprio la stessa logica di quelle che abbiamo definito «Foibe pro loco»: foibe “costruite” ex post, appositamente per avvelenare la memoria di territori […]

  7. […] peculiare ambiente politico veneto in cui incocciammo all’epoca dell’inchiesta sulle «nuove foibe», l’habitat di Elena Donazzan  –  famosa per il tentativo di rimuovere dalle […]

  8. […] La strategia consisteva nel trasbordare nel mainstream e – forti dello «sdoganamento» politico del vecchio MSI – nell’ufficialità istituzionale un insieme di narrazioni squinternate e odiose, ricostruzioni storiche infondate e vere e proprie leggende metropolitane che fino a quel momento erano rimaste confinate nelle cerchie di estrema destra. Una sorta di sottogenere letterario, la «foibologia», di cui su Giap abbiamo ricostruito le origini. […]