di Wolf Bukowski *
[La second puntata è qui.]
[Pueden leerlo traducido en castellano aquí.]
Parto da me
Il partire da sé è di certo il paradigma imperante nella narrazione del lockdown che stiamo vivendo. Non mi sottraggo, anche se, in seguito, criticherò questo approccio, diventato ormai una neoplasia dell’ego nel centro di un’epidemia virale. Ma dunque: anche io, come tanti, come quasi chiunque in questi giorni che mai ci saremmo aspettati di vivere, ho cambiato più volte opinione, modificato posizionamenti; mi sono, insomma, incessantemente interrogato. Le persone con cui ho scambiato messaggi e telefonate lo sanno, non ne ho fatto mistero.
La domanda fondamentale che mi sono posto, come tanti e tante, è quella articolata attorno al tema della «responsabilità», ovvero la possibilità di diventare veicolo di contagio verso persone più fragili. La questione non è certo inedita, neppure autobiograficamente: è la stessa che, più o meno, mi ha ispirato cautele nella trasmissione di virus «banali». Ho scoperto, per esempio, di avere già una piccola scorta di mascherine in casa, usate per condividere spazi ristretti quando ero costantemente colpito dalle influenze che portava a casa mia figlia dalle scuole elementari. E quindi: non sono immune da tali preoccupazioni, come non lo sono dai virus.
D’altra parte però mi colpiva e mi interrogava anche la continuità delle strategie del «contenimento del contagio», per come si manifestavano nei provvedimenti delle istituzioni, con le loro ormai classiche esigenze di, diciamo così, contenimento del degrado, e quindi con il securitarismo.
Preso dal gorgo tra Scilla e Cariddi, seppur fermo nella mia clausura appenninica, un punto di equilibrio possibile mi erano sembrate le parole di Pietro Saitta su Napoli Monitor. Nell’articolo la dichiarazione di intimismo prelude a un riflessione in realtà politicizzata e storicizzata, che riconosce la propria iniziale repulsione per il dispositivo retorico utilizzato nell’emergenza contingente, perché sovrapponibile alla «menzogna» securitaria «che per decenni ha accompagnato le politiche in materia di criminalità o immigrazione». Nello sviluppo della riflessione, Saitta dichiara di assumere su di sé la scelta della «responsabilità», smettendo quindi di condurre la vita ordinaria e di frequentare un luogo affollato – nonostante il securitarismo dei provvedimenti governativi. Ecco, mi sono detto, un punto di equilibrio possibile, un frammento di legno con cui affrontare il naufragio.
Ma anch’esso era provvisorio. Poco dopo – si era ormai all’11 marzo – la pressione degli eventi mi ha costretto a spostare di nuovo centro della mia attenzione. Illustro qui tre fatti per me determinanti:
1) lo stato ha dispiegato in modo ancor più vistoso la propria forza militare, ed esteso il confusivo apparato di legislazione d’urgenza, per imporre un azzeramento della vita sociale senza neppure cercare un punto di equilibrio tra la riduzione delle libertà individuali e le esigenze di contenimento del contagio – con la plateale eccezione di lavoratori costretti a uscire per lavoro, cosa che acuiva l’indifferenza a quel «punto di equilibrio».
Questo sviluppo, che emerge con tratti trasparentemente autoritari, avrebbe dovuto aprire uno spazio di riflessione proprio sul suo punto eminentemente politico: ovvero su dove sia corretto porre il «punto di equilibrio» di cui sopra. E invece accade l’opposto, e cioè che
2) dalla «responsabilità» verso la collettività, assunta nel senso morale e politico indicato da Saitta, le prese di posizioni di tanti soggetti (anche critici del neoliberismo) viravano e direi precipitavano verso l’adesione totalmente depoliticizzata e acritica alle forme, ai modi, persino ai vezzi del discorso governativo. Il sacrosanto «non bisogna mettere in discussione la realtà dell’epidemia» scivola, ops, in un attimo, nel «non bisogna mettere in discussione il modo in cui il governo affronta l’epidemia»; e anzi: bisogna aderirvi fino alle più intime fibre. Ovviamente ciò non è sempre esplicito, e anzi qualcuno avverte che la propria non è «servile apologia» delle misure governative, ma si tratta semplicemente di excusatio non petita, e dunque accusatio manifesta. Di fatto, si è accettato che lo spazio politico della lotta – compresa quella indispensabile delle idee – fosse azzerato. Azzerato, ma indossando gli occhiali rosa, e cioè:
3) la differenza tra i posizionamenti dei critici del neoliberismo rispetto a «tutti gli altri» viene posta in un altrove, in un al-di-là, ovvero al dopo il coronavirus. La politica diventa così teleologia; nulla differisce dalle istituzioni nel modo in cui si affronta il presente ma, ecco la fantasia consolatoria, «domani sconfiggeremo il neoliberismo».
Quello che così viene nascosto è il fatto che, avendo rinunciato a politicizzare e sottoporre a critica le scelte di cui al punto 1, nonché gli automatismi emotivi del punto 2, è assai probabile che il «dopo il coronavirus» non arrivi mai, esattamente come non siamo mai usciti dalla crisi dei subprime del 2007-2008.
Oltretutto, come spiegato qui e qui (ma ci tornerò sopra), questo potrebbe essere vero, per un lungo periodo di tempo, anche dal punto di vista strettamente sanitario.
Ripoliticizzare (il «decoro» e le misure di contenimento)
Lo sforzo – una fatica da salmoni, con esaltati ai lati del torrente a gettar sassi – fatto su queste pagine è stato da subito quello di ripoliticizzare il totalmente depoliticizzato, tecnicizzato e sanitarizzato. Ovvero: la risposta dei poteri pubblici all’epidemia. Già in questo abbiamo un’abbagliante similitudine con il decoro. Mettere in questione il «decoro», da anni a questa parte, ha significato essere additati come «rompicoglioni», «spocchiosi e marginali», da destra e da (con ancora più acredine) manca: «siete voi che fate vincere la destra». Perché il «degrado», si sa, è impolitico, lo si vede coi propri occhi, è «questione di buonsenso».
«Voi vivete nei quartieri bene, figli di papà, come vi permettete di dire che il decoro e la sicurezza sono una roba di destra? Venite qui»: questo è stato ripetuto ad nauseam e contro ogni evidenza a chi ne scriveva, ma anche ai movimenti, ai centri sociali, ai singoli e singole che si opponevano alla retorica (razzista e classista) del degrado. «Venite qui a vedere»: testimonianza diretta totalmente emotiva, in cui i «fatti» sono rappresentati in modo così semplicistico da diventare una caricatura dei fatti. E come se lo scegliere, decodificare, selezionare e commentare un fatto piuttosto che un altro non fosse un’operazione di arbitrio, anche nel senso nobile del termine. Come se non fosse, precisamente, lo spazio della lotta politica, l’affermare un fatto tra i mille e renderlo importante.
Si è visto in opera questo meccanismo nel collasso della storia sulla memoria. «Mio nonno conosceva uno ammazzato dai partigiani, e dice che era una bravissima persona» diventa il fatto storico davanti al quale è imprescindibile prendere posizione, non il rivolo di un processo complessivo; e, quel che è peggio, prendere posizione su quel tragico dettaglio diventa il pretesto inattaccabile per non prendere posizione sulla tragedia nel suo complesso, o per prendere una posizione ma-anchista e veltroniana. Questa stessa primazia del testimone la si vede in opera oggi nel – cito a memoria dai social – «qui si muore, che cazzo me ne frega se multano la gente in giro e di cosa dicono i Wu Ming sull’epidemia».
Il «che cazzo me ne frega» è evidentemente la negazione dello spazio della politica, della riflessione pubblica. Ma lo è anche, in modo più sottile, il «qui si muore»; quando invece, se si provi a riflettere e quindi ad affrontare i problemi, è necessario sapere come sia costituito quel qui (cioè, per dire, in quale sistema sanitario, con quale storia, quali scelte a monte e valle) e anche quel muore (come si muore, in quale serie storica di morti, in che rapporto con altre morti, con quali caratteristiche individuali, eccetera).
Questo approccio è esattamente lo stesso che abbiamo visto mille volte in opera nelle campagne contro il degrado. «Qui si combatte il degrado, non si fa politica»; e anche: «se non vivi qui non puoi capire». Dove quel qui, di nuovo, è una parola agitata per affermare il diritto esclusivo del testimone (ma poi spesso: del sedicente tale) a trarre conclusioni generali, azzerando lo spazio della riflessione pubblica. Riflessione pubblica che non è un vezzo da fighetti, come viene suggerito implicitamente, ma è il solo modo in cui in cui si possono affontare ed eventualmente risolvere problemi sistemici (come è un’epidemia, come lo sono il disagio sociale e la criminalità).
Nella politica del decoro i politici – i primi a seminare e raccogliere depoliticizzazione, in solo apparente paradosso – fanno cherry picking di richieste che arrivano dai cittadini e, da quelle più congrue rispetto alle loro intenzioni, traggono e plasmano il mito dell’ascolto: «Io do retta ai cittadini, Tizio e Caio mi hanno scritto chiedendo che quel centro sociale fosse sgomberato perché produce degrado, spaccio e rumore». Ovviamente si tratta di un mito, e come ogni mito si alimenta di una selezione accurata (ma occulta) di materiale. Per esempio: migliaia di cittadini e cittadine bolognesi hanno scritto e manifestato per chiedere che XM24 fosse lasciato nella sua sede «storica», e sono restati totalmente inascoltati. Sono, al contrario, i pochi che hanno firmato la squallida petizione pro-sgombero delle sezioni zombie del Pd in quartiere a diventare i cittadini a cui viene «prestato ascolto».
Populismo virale
Lo stesso sindaco bolognese, Virginio Merola, ripete l’operazione il 13 marzo quando, per giustificare la chiusura dei parchi – che aggrava le condizioni di vita delle persone costrette al lockdown domestico – rilancia il supposto messaggio di una cittadina, ma di una cittadina che, in base alla categoria professionale, diventa portatrice di una verità indiscutibile, quindi di nuovo di una verità depoliticizzata e priva di sfaccettature:
«Bisogna capire che la vita normale non si può continuare. Ieri ho ricevuto numerose segnalazioni di cittadini allarmati, tra queste quella che mi ha colpito di più me l’ha inviata una coordinatrice infermieristica che, tornando a casa dal lavoro, ha visto il parco affollato e ha provato un forte senso di frustrazione rispetto al suo lavoro quotidiano. […] Da oggi chiusi 32 parchi e giardini pubblici, chiusi anche gli orti comunali.»
Ovviamente l’impressione dell’infermiera (anzi: «coordinatrice infermieristica», si noti il dettaglio squallidamente gerarchico) non ha alcun fondamento scientifico; è, appunto, un’impressione da social, che però produce effetti un quanto validata due volte: e come cittadina ascoltata dall’autorità, e come «persona competente». La testimonianza non veicola situazione precise: solo il «parco affollato», che potrebbe peraltro essere stato affollato ma a distanza di sicurezza. Siamo così, con il rilancio meroliano, nei pieno del populismo penale, all’interno del quale
«[s]i parla, si ragiona e si rilasciano le dichiarazioni sulla base dei luoghi comuni sociali e delle convinzioni diffuse, quasi sempre per assecondarle, difficilmente per contraddirle […]. In una logica di destatisticalizzazione la percezione del rischio e la sua amplificabilità in un contesto di dibattito pubblico diventa più importante, al punto di oscurarlo, del quadro reale dei fenomeni. (Manuel Anselmi in Populismo penale: una prospettiva italiana, 2015).»
Nasce così – ma il merito non va a Merola, non sopravvalutiamo neppure nel male questo piccolo sindaco – il populismo virale.
Un genitore e un figlio che camminano nel parco o giocano a palla – e abitano assieme – che diavolo di contagio possono produrre?
Un genitore, e magari l’altro genitore, e il figlio e la sorella, che vivono in una casa piccola, che livello di sofferenza psicologica possono sviluppare, se neppure al parco possono più andare?
Oppure, per porre a un piano superiore la domanda: esiste uno spazio, nell’interstizio tra i saperi specialistici, per la politica?
E ancora: esiste uno spazio per i saperi specialistici che siano non solo quelli del virologo ma anche quelli della salute pubblica complessiva, dello psicologo, forse anche del cardiologo (che conseguenza avrà la riduzione dell’attività motoria sugli anziani a cui è stata messa addosso la paura persino della passeggiata solitaria, considerando anche che l’anziano faticherà a riprendere l’abitudine perduta?). No, la risposta è no.
E, cambiando il punto di vista e assumendo – con disagio – quella che Filo Sottile in uno straordinario apologo chiama mentalità guardiacaccesca, esiste la possibilità che si ottenga un intervento mirato a disperdere i casi di reale assembramento nei parchi? Reali, e non quindi quattro persone che a distanza di legge tirano a un canestro?
No, non esiste, nonostante la mobilitazione delle forze dell’ordine e dell’esercito. Lo spazio della politica quindi non esiste; ma non esiste neppure lo spazio di un’esecuzione puntuale delle leggi: disperdere quell’assembramento, multare quei soggetti determinati… Esiste solo l’azzeramento dello spazio pubblico.
Così, proprio come si faceva (come si fa) per il decoro togliendo le panchine, via i cesti da basket! Ecco la sindaca di San Lazzaro di Savena, l’iperrenziana Isabella Conti:
«Pensate che a me non dispiaccia dovere togliere i canestri? Pensate che non mi pianga il cuore dovervi dire che non potete giocare? In questi anni abbiamo lavorato come matti per rendere i nostri parchi luoghi perfetti per stare insieme, ma adesso non si può».
Dopo aver imposto il decoro sui parchi, insomma, non restava che renderli perfetti – ovvero eliminare quel residuo di degrado che ancora li attraversava: gli esseri umani.
Ma sui parchi tornerò anche nella seconda parte.
[Fine della prima puntata]
* Wolf Bukowski scrive su Giap, Jacobin Italia e Internazionale. È autore per Alegre di La danza delle mozzarelle: Slow Food, Eataly Coop e la loro narrazione (2015), La santa crociata del porco (2017) e La buona educazione degli oppressi: piccola storia del decoro (2019).
Condivido in pieno la riflessione in particolare per quanto riguarda le istanze politiche provenienti dalla Rete e tradotte in scelte populiste penali/virali.
Sarebbe molto interessante fare una ricostruzione storica e dettagliata in materia di Sanità Italiana:
– passaggio dalla sanità pubblica ad Aziende Sanitarie Locali e private, in cui il profitto è alla base della Sanità pubblica e privato in pieno stile americano.
– Il mancato rispetto alla qualità ed erogazione dei cosiddetti livelli essenziali da parte delle Regioni
– Differenze tra Nord e Sud
– ecc…
Sarebbe un ottimo spunto di riflessione.
Bellissima analisi che, unita alla rivisitazione di Cappuccetto Rosso fatta da Filo Sottile, lascia in sospeso il finale. Se mai se ne può immaginare uno, come potremo fare con la favola, in un collettivo sforzo di proiettare le nostre ” soluzioni ” nel futuro.
A proposito della questione epistemologica toccata qui sopra da Wolf – Cos’è un fatto? Come lo si seleziona? – mi segnalano che Roberto Burioni, su Twitter, ha postato due foto di assembramenti evidentemente datate, una sulla sponda del Tevere a Roma, l’altra sul lungomare di Catania. Burioni le ha poi rimosse, senza scusarsi, e invitando comunque le persone a stare a casa. Burioni è uno dei cinque firmatari del comunicato sul coronavirus diramato dal Patto Trasversale per la Scienza, che abbiamo segnalato anche nella terza puntata del nostro Diario virale. Il comunicato si conclude sostenendo che: “è importante ribadire che non c’è nessun disaccordo tra scienziati, in quanto le nostre valutazioni ed i nostri obiettivi sono comuni. D’altronde non potrebbe essere altrimenti tra persone che sanno dove iniziano i fatti e dove finiscono le opinioni.”. Buono a sapersi.
“Sanno dove iniziano i fatti e dove finiscono le opinioni” è l’espressione che rivela la cultura entro cui Burioni e quasi tutti gli altri tecnici che si sono pubblicamente espressi, sono cresciuti, che è la cultura del riduzionismo scientifico. Se non che, anche i più strenui nemici del riduzionismo, pur nelle loro differenze, salvo rari casi, accettano inconsciamente di far dirigere la propria esistenza dalla sola voce del virologo, che naturalmente vedrà con estrema lucidità il movimento del virus, ma non potrà mai vedere l’intera situazione sociale, per lui ridotta solo al campo di possibile contagio. La situazione generale viene già assunta all’interno della riduzione che il virologo impone, e pertanto risulta naturale porre in atto comportamenti conseguenti a quanto assunto, senza avvedersi che si sta sottovalutando il senso dell’emergenza in cui siamo stati gettati. Come avete ben mostrato voi Wu Ming, siamo in una situazione molto delicata: o si sottovaluta lo stato di emergenza (sopravalutando il virus) o si sottovaluta il virus (sopravalutando l’emergenza, che in questo caso significa contrastarla).
Rispondo solo per specificare che i virologi sono esperti nella struttura dei virus, e sul loro funzionamento e sulla loro cura (già quando si parla di comportamento del virus all’interno del corpo le variabili diventano talmente tante che difficilmente ci si può considerare esperti anche in quel campo). Ma i virologi NON hanno nessuna competenza per quanto riguarda le modalità con cui si muovono i virus, sulle modalità e soprattutto sui flussi dei contagi. Queste competenze sono più da epidemiologi e statistici. Ne possiamo dedurre che quando il Burioni di turno parla di strategie di contenimento è abbondantemente al di fuori della sua zona di competenza, e non sa “dove iniziano i fatti e finiscono le opinioni”.
Resta valido il discorso che né virologi, né epidemiologi, sono in grado di valutare l’effetto politico e sociale delle misure suggerite o adottate.
I Fatti! Dal nicciano “non esistono fatti ma solo interpretazioni”, mi sembra di un frammento postumo, siamo passati all’ineludibilità dei datum fattuale, tale che se non lo vedi o lo vedi diversamente dal “buon senso” (anch’esso, eterno e metafisico) sei fesso. Da qui secondo me si potrebbe pure tentare una critica alla filosofia analitica secondo cui A è A e non può essere B, che riduce “la realtà” alla sola dimensione presente, e così facendo, eliminando la dialettica (le possibilità storiche) secondo cui, A+b==> C. Naturalmente ciò che si spaccia per analitica del reale è solo una ideologia.
Siamo al punto in cui ci vendono una ideologica come verità fattuale ed ineludibile. Il pensiero si ferma, la critica si ferma.
Ogni forma di dialettica negativa è ridicolizzata.
Quindi, secondo me è giustissimo, sacrosanto, l’accento posto sul “fatto” come elemento incontrovertibile. E sul chiarimento che politica è proprio messa in discussione di un determinato fatto, sia in sincronia sia in diacronia. O NO ?
Ehm, non è chiarissimo…
Voglio dire che, mi pare, viga una religione del fatto, del datum. Di ciò che è e non può essere in altro modo, in quanto non sarebbe.
Si maschera la ideologia dominante come unico vero modo di pensare.
Nell’articolo si sottolinea che si parla di fatti come di cose che parlano da sé; mentre invece io ritengo che i fatti non parlano mai di per sé, siamo noi ad interpretarli secondo una precisa visione politica delle cose.
E mi sembra che una parte della filosofia contemporanea come quella sussumubile al new realism si ponga in questi termini: si pone il dato reale come fatto parlante di per sé, mascherando invece l’ideologia dominante. Se non è possibile, mi pare, una antitesi alla tesi, in quanto qualsiasi antitesi è solo una visione distorta della realtà, allora non è possibile nessuna dialettica.
ottime osservazioni
in piena sintonia con “l’uomo ad un dimensione”, metà anni sessanta.
il pensiero negativo-critico è sottomesso alla logica pervasiva del dato di fatto
corrige:
il pensiero negativo-critico è sottomesso dalla logica pervasiva del dato di fatto
Burioni conferma la teoria secondo cui scienziati e tecnici, in generale, non hanno bisogno di dimostrare ciò che affermano. Per esigenze di amministrazione del potere gli è stata conferita una patente di oggettività, a patto che siano subalterni al potere. Come può affermare che la comunità scientifica è unita? Solo una lettura politica può interpretare la realtà, separando i fatti dalle opinioni. Chiedendo pezze d’appoggio giustificative. Remando contro corrente per insinuare dubbi, almeno. Sforzandosi continuamente per fare emergere le contraddizioni.
Tutto ciò che Wolf sottolineava facendo emergere come si possano trasformare le opinioni in fatti, per ottenere consenso e servile obbedienza. È una operazione che prima veniva fatta solo dall’alto: l’ autorità dall’alto della sua posizione poteva accreditare la fonte per fini strumentali ( come Merola con l’ infermiera) ora, grazie ai social, è una pratica più diffusa e ” praticata”. Ci si auto accreditare da soli, grazie al mezzo.
Da scienziato che tenta di non essere subalterno vi propongo un fatto che – come tutti i fatti – si apre a interpretazioni interessanti.
Nel periodo in cui noi siamo passati da 2k a 20k infetti, la Corea è passata da 5k a 10k infetti, senza lockdown totale.
Questo dimostra che non solo in metodo italiano non è l’unico ma che non è neanche il migliore dal punto di vista epidemiologico.
Da quel che ho capito il metodo Coreano rimpiazza il controllo fisico sulle strade con un controllo capillare elettronico – si tratta di una forma di controllo più avanzato, volendo.
Ma il confronto con la Corea è politicamente fertile comunque perchè squarcia un po’ il velo dell’Italia faro della lotta al COVID, il solito There Is No Alternative e la retorica del “tutti dovrebbero fare come noi”.
Uno dei commentatori qui che mi sembra abbastanza ferrato di Corea e coronavirus è RoccoSan.
Ripeto qui la domanda che ho fatto sotto un post precedente:
«Se ho ben capito, in Corea del Sud contano tra i morti di Covid-19 solo quelli che non avevano già patologie gravi. Chiedo conferma a chi ne sa perché questa cosa l’ho sentita ma non trovo fonti. Se fosse vero, sarebbe un criterio sensato. Mi hanno anche detto che in Germania quando comunicano un decesso collegato al covid-19, specificano chiaramente di quale altra patologia soffrisse la deceduta o il deceduto. Chiedo conferma anche di questo.»
Detto ciò, domando anche:
se si facesse il tampone, se non a tutte e tutti gli italiani (impossibile), almeno a campione seguendo criteri e protocolli sensati e solidi, non è altamente probabile che si scopra una letalità del Covid-19 molto più bassa di quel 7% che stanno brandendo come una clava?
E non è altamente probabile che si disattivi il frame retorico positivi al tampone = appestati, con spostamento dell’accento su altre equivalenze, ad esempio – la butto lì – già guariti = immuni?
Non si toglierebbe così un’arma ai media, cioè – lo ribadisco – agli unici veri untori di tutta questa storia?
Non si aprirebbero squarci per uscire da questa gestione dell’emergenza e trovare altre strategie?
Credo che, con le tue domande, ribadisci un punto fondamentale.
I tamponi, finora, sono stati effettuati prevalentemente a chi mostra i sintomi più gravi o a coloro che sono entrati in contatto con i malati. Questo determina il denominatore del tasso di letalità.
Al numeratore c’è un maggioranza di casi con gravi patologie pregresse, non i soli casi che presentano patologie respiratorie direttamente ricollegabili all’infezione da SARS-coV-2.
A mio parere, i dati, soprattutto nel campo dell’epidemiologia, non sono mai oggettivi, soprattutto in un ristretto intervallo di tempo. Sono dati che hanno una fortissima connotazione politica.
Molti epidemiologi, anche i più allineati alla narrazione ufficiale, stanno ripetendo da tempo che un controllo su un campione statisticamente rappresentativo è l’unico modo per stabilire con un certo grado di accuratezza il tasso di letalità di un virus.
Questo, insieme al tasso di riproduzione di base, l’ R0, che misura la potenziale trasmissibilità di una malattia infettiva, rappresenta un parametro fondamentale per definire le caratteristiche di un epidemia (questo ultimo concetto è preso integralmente dal sito dell’ISS), e per definire le conseguenti politiche sanitarie da adottare.
Viene da chiedere perché il WHO non ha imposto (l’OMS è un organismo internazionale poderoso, ma si continua a considerarlo uno zio premuroso che “raccomanda” garbatamente) dei test a campione nelle fasi iniziali dell’epidemia.
Lo stesso WHO che ha di fatto preteso, l’11 marzo, che tutti i paesi si allineassero alla politica sanitaria e di controllo che aveva “raccomandato” all’Italia. Politica che, come ha detto neuro, non è le unica possibile. E non è necessariamente la migliore.
Secondo me, concentrarsi sulle domande poste da Wu Ming 1 è essenziale, non solo per destrutturare la narrazione predominante che giustifica la gestione dell’emergenza, ma anche per riconquistare spazi fisici di incontro, discussione e confronto.
Può essere utile (per farsi altre domande) la mappa che pubblica il sole24 ore, https://lab24.ilsole24ore.com/coronavirus/
Verso la fine elenca i deceduti per singolo stato e si vede chiaramente che i tedeschi conteggiano in maniera differente dagli italiani.
E’ interessante. Secondo questi dati, della Johns Hopkins Center for System Science and Engineering:
-Il tasso di letalità del virus in Italia è del 7,7%.
-Il tasso di letalità dello stesso virus in Germania è dello 0,26%.
E parliamo di un paese che ha registrato i primi casi di contagio a gennaio e non ha messo in atto complessi meccanismi di controllo elettronico.
Senza entrare nel paragone con le epidemie di influenza, i cui dati vengono raccolti in modo del tutto diverso e senza effettuare tamponi, è evidente che cambia la percezione del rischio.
Però è anche evidente che non ha senso e che dipende dal denominatore, come dici nel tuo primo commento. O meglio: il senso è un altro, quello di giustificare un provvedimento invece di un altro.
Quanto scritto da Wolf è molto interessante, anzi è vitale. Non solo per il contenuto ma anche per il percorso che compie per arrivare alle conclusioni.
Mi permetto di sottolineare quello che per me è “il” punto, o almeno uno di quelli centrali su cui riflettere:
“Quello che così viene nascosto è il fatto che, avendo rinunciato a politicizzare e sottoporre a critica le scelte di cui al punto 1, nonché gli automatismi emotivi del punto 2, è assai probabile che il «dopo il coronavirus» non arrivi mai, esattamente come non siamo mai usciti dalla crisi dei subprime del 2007-2008”.
Se noi collettivamente non riusciamo a forzare il ragionamento su quanto sta accadendo da un punto di vista critico e conflittuale rischiamo di essere schiacciati per sempre dagli “automatismi emotivi” di cui sopra. Quanto sta accadendo su Giap, e – anche se marginalmente – con altri contributi, è centrale. Mentre si parla molto del vaccino per il virus che colpisce il corpo, in pochi si stanno occupando del vaccino per il virus che sta colpendo le idee e la capacità di analisi. Bisogna lavorare in tal senso, altrimenti ora come allora “non c’è nessun dopoguerra”.
Riesco, purtroppo, a immaginare benissimo un “new normal” post-COVID-19 fatto di continue zone rosse e lockdown. Se “funziona” stavolta, sarà il canovaccio della gestione di tutte le future emergenze
Il passaggio fondamentale da fare nel ragionamento collettivo è quello di separare, a colpi di mazzate sulle sinapsi, il virus dall’emergenza (cosa che viene fatta nella terza puntata del Diario virale:
“C’era chi per «emergenza» intendeva il pericolo da cui l’emergenza prendeva le mosse, cioè l’epidemia. Invece, noi e pochi altri […] chiamavamo «emergenza» quel che veniva costruito sul pericolo: il clima che si instaurava, la legislazione speciale, le deroghe a diritti altrimenti ritenuti intoccabili, la riconfigurazione dei poteri…”).
Questo ci consentirebbe di sviscerare l’emergenza trovando punti di contatto (se non vere e proprie sovrapposizioni) con altre situazioni del passato (anche recente). E
1) avremo più strumenti a disposizione,
2) questi ci consentono di prevedere l’andamento degli interventi emergenziali, non dico realizzando dei grafici come per il covid-19 ma almeno potendo studiare degli “itinerari” possibili. Perché le risposte del sistema ai problemi seguono sempre lo stesso processo, si parla di più o meno soldi, più o meno personale mobilitato, più o meno restrizioni, ma non si esce mai dalle regole del gioco. Anzi, più è grave il problema più l’emergenza tende ad amplificare le regole cardine del gioco stesso. In questo senso il “new normal” è/sarà potenzialmente devastante.
L’assessore alla Sanità dell’Emilia Romagna – ad acta, perché il titolare è ancora in quarantena – nel dare i numeri del contagio di questo lunedì, ha tuonato contro chi va a correre, a passeggiare, “a cazzeggiare”. Si è detto stupito – almeno da quanto riportano i quotidiani – nel vedere che tanta gente va in giro senza mascherina. E ha minacciato, se l’andazzo continua, una nuova ordinanza regionale che vieti qualunque uscita non connessa a esigenze di salute, spesa, lavoro. Basta corsette, basta ora d’aria.
Chiedo:
a) Per caso si è scoperto che il virus rimane in sospensione nell’atmosfera, come le polveri sottili? Finora, tutti gli esperti ci hanno spiegato che si trasmette da una persona all’altra, con le goccioline di saliva, gli starnuti, il respiro. Inoltre, ci hanno detto che rimane sulle superfici per un certo periodo e quindi bisogna lavarsi bene le mani più volte al giorno. Se il quadro è cambiato, ce lo dicano, con chiarezza. Se invece è rimasto quello che conosciamo, allora che senso ha vietare una corsa, una passeggiata solitaria o in compagnia di un convivente? Ho la bruttissima impressione che si cominci a confondere quel che si vuole ottenere per limitare il contagio e quel che si vuole ottenere per puntiglio, per il gusto di dare un comando, di essere obbediti, di punire il “cazzeggio” in quanto tale – a prescindere dai suoi effetti sull’epidemia.
b) Sull’uso delle mascherine ci hanno detto e ripetuto che servono al personale sanitario, agli infetti conclamati, ai soggetti a rischio per età o professione (mia moglie è farmacista e la deve indossare 8 ore al giorno). Hanno preso per il culo chi si è precipitato ad acquistarla fin dai primi giorni di emergenza. Non serve a niente! Adesso invece, l’assessore ad acta vuole vederci tutte quanti in casa oppure fuori con la mascherina. Perché? E’ cambiato qualcosa? Ce lo dicano. Oppure indossare la mascherina è solo un modo per dimostrarsi responsabili e impauriti? Un modo per dire: esco, ma ho paura. Esco, ma non cazzeggio: ho la mascherina.
Quello di Venturi è paternalismo autoritario, e in generale ormai si ragiona in termini di comando prima ancora che di profilassi, e questo a tutti i livelli, dai vertici dello stato giù giù fino alla guardia che incontri per strada: tu fai come ti ho detto io. Lo fai senza discutere. Anche se non ha una logica, non serve, c’entra poco o niente col rischio di contagio, è incongruo, è dettato da pura stizza, tu fai come ti ho detto io.
Mi chiedo quanto tempo passerebbe, se venisse a mancare l’accesso alla rete, per passare dalla strofa iniziale di quel pezzo che faceva:
“And now you do what they told ya…and now you do what they told ya…”
…a quella finale:
“Fuck you, I won’t do what you tell me! Fuck you, I won’t do what you tell me! Motherfucker!”
Perche` l’importante e` lavarsi le mani! https://www.nme.com/news/music/rage-against-the-coronavirus-people-are-sharing-this-killing-in-the-name-hand-washing-tutorial-2622954
Un nodo parecchio grosso verrebbe al pettine se cominciasse a singhiozzare la logistica. Se chi oggi romanticizza e “tricoloreggia” la quarantena rimanesse senza e-commerce, senza consegne, senza spesa a domicilio… Per tagliar corto: se scioperasse Amazon. A Castel San Giovanni c’è un po’ di subbuglio… Plausibilissimo che lo stato precetti quei lavoratori con la forza. Perché #iorestoacasa ma tu devi lavorare per me, rischiare di ammalarti per me. Tranquillo, batterò le mani dal balcone dicendo che sei un eroe.
Anche i rider sono incazzati neri, qui a Bologna con l’assessore alla sicurezza Aitini.
Ma nei fatti, come possiamo combattere questo paternalismo? Da quello che ho capito ormai in sempre più città “l’ora d’aria” non è più possibile, spostarsi per fare attività fisica all’aperto da soli (anche se sarebbe consentito) è diventato infattibile per la paura di prendere la denuncia. Che fare? Fare come vogliono loro, mai. Dobbiamo arrenderci a dover inventare scuse sempre più fantasiose per poter fare cose che sarebbero lecite?
Visto che questa fase potenzialmente non ha una fine, e non si possono tenere milioni di persone agli arresti domiciliari indefinitamente, l’insofferenza di massa almeno per i provvedimenti più incongrui, irrazionali, vessatori, umilianti è destinata a crescere. Non basterà la singola tattica di resistenza individuale, ci vorrà per forza l’azione collettiva.
Solo che, a parte quel che si sta muovendo nel mondo sindacale (dove ci sono ancora posti dove si è insieme, non a caso), i soggetti collettivi latitano, sfollati senza nemmeno aver dovuto usare lo sfollagente, sotto shock. Ma si resta sotto shock, se si resta ciascun* a casa propria non si combina nulla.
[Per inciso, i «flash mob» alla finestra non sono flash mob, quell’espressione inglese vuol dire, parafrasando, «folla che appare all’improvviso».]
Noi qui abbiamo tutti le nostre pratiche di resistenza individuale, ma bisognerà per forza andare oltre. Che questo debba dirlo un romanziere (WM è un romanziere a tre teste), che le discussioni sul da farsi abbiano luogo sul blog di quel romanziere, al netto del nostro esser fieri di avere questo spazio e di avere intorno questa comunità, segnala comunque che qualcosa non va.
La cosa agghiacciante è che c’è una quantità consistente di persone che al netto della paura è *contenta* del coprifuoco. Ci sono milioni di Rose e Olindi che ricorderanno questo periodo (se e quando finirà) come il più bello della loro vita. C’è ordine, tutto è pulito, tutti stanno a casa e sono obbligati a vivere come loro hanno sempre vissuto. Passerà il virus, prima o poi, in un modo o nell’altro, ma quella gente là e i loro angeli in divisa non molleranno facilmente il potere che il virus gli ha dato.
Qualcuno che faccia questo lavoro ci vuole, caro WM, evidentemente hai captato alcuni di quelli a cui il pensiero critico non dà ancora fastidio. Personalmente penso che già chiudere i parchi, togliere i canestri ecc. siano misure oltre l’accettabile. Ma più che felicitarmi di vedere qui scritte le stesse sensazioni che ho io, non vedo come si possa passare dall’azione individuale (vana) a quella collettiva (potenzialmente non vana). Grazie comunque di questo spazio.
Ieri sera ho provato a estendere il ragionamento qui.
Bellissima riflessione Roberto sulla gestione e dei risvolti negativi in corso e post emergenza. Non nego che anche io incomincio ad avere dei comportamenti strani, non essendo abituato a stare cosi tanti giorni in casa forzatamente.
Una domanda mi attanaglia, come risolvere il problema?
Rileggendo La peste di Albert Camus, l’unico provvedimento per contenere il contagio era la quarantena e chiusura della città, quello messo in atto dal Governo Conte, con delle eccezioni assurde da parte dei governatori locali.
Ma quale altra misura sarebbe da attuare?
La nostra percezione è che, al tempo stesso, il lavoro che stiamo facendo stia trasformando in nostri detrattori – forse solo momentanei, ma chi può dirlo? – anche gente che prima ci apprezzava. Parliamo di persone e gruppi coi quali abbiamo condiviso pezzi di strada a volte anche lunghi, o di persone che non conosciamo ma che scrivono: «che delusione, che irresponsabilità, non comprerò più un loro libro» ecc. Non fingo di fottermene, è chiaro che mi dispiace: per il guastarsi di relazioni, e per il potenziale guastarsi del mio/nostro reddito, finora decente ma d’ora in avanti chissà. Stiamo prendendo posizioni – almeno per ora – ultraminoritarie e impopolarissime, in un quadro nel quale l’editoria italiana, come tutta l’industria culturale, è a fortissimo rischio di patatrac. Insomma, stiamo aggiungendoci del nostro a una situazione che già da sola mette a forte rischio la prosecuzione della nostra attività (e i pagamenti dei nostri mutui ecc.) Scusate la parentesi autocentrata, so che è un “lusso” parlare di questo mentre c’è chi sta molto, molto peggio e sta già – non in prospettiva: già adesso – pagando carissima quest’emergenza.
guarda WM, magari è così all’inizio, immediatamente, ma poi mi è capitato di sentire dire già altre volte: eh ma i wu ming avevano visto bene…quindi poi ritornano.
E poi forse vale anche il contrario: chi non vi stimava ora vi stima, chissà..
Non so quanto questo mio commento possa essere pertinente o utile, ma rispetto a quanto evidenziato da WM1 (diventano detrattori anche persone che prima vi apprezzavano) ho notato una cosa:
dal mio personale punto di osservazione mi sembra che “il virus nel virus” quello cioè del panico oltre il dovuto rispetto delle misure adottate, si sia diffuso in modo “politicamente trasversale”.
Cioè, voglio dire che anche le persone più attente e normalmente più critiche su altre questioni (ambiente, lavoro, etc.) NON SONO immuni dalla paura del contagio e dagli aspetti di questa più profondi e ancestrali (e questo oltre ad essere umanamente comprensibile potrebbe anche in definitiva essere un riflesso istintivo utile e funzionale al controllo di qualsiasi epidemia).
È proprio da persone con cui normalmente avevo un dialogo su temi “progressisti” che ho ricevuto i feedback più allarmati e securitari circa le misure di contenimento, il non uscire neanche da soli a prendere un po’ d’aria o fare sport e il “lavorare da casa”. Ed è da queste che è arrivato il biasimo incondizionato non già per chi non rispetta le regole, ma anche per chi pur rispettandole, semplicemnte si chiede se siano del tutto sensate o correttamente applicate.
Tutto questo per dire che non mi stupisce che anche e forse soprattuto fra i normali vostri lettori e sostenitori ci sia una bella fetta di persone che ora si trova “contro” gli ultimi post e ragionamenti.
Un’ultima chiosa: più in generale notavo con amici che gente che fino a ieri era fortemente critica sul Governo, adesso ha opinioni opposte ed estremamente fiduciose nello stesso e nelle decisioni che vengono prese.
ehm, non è proprio così. c’è chi continua ad organizzarsi in modi più o meno visibili da fuori e più o meno clandestini, anche utilizzando gli strumenti tecnologici che la comunità smanettona mette a disposizione. le liste e le chat degli/delle hackerz e delle femministe fremono. si stanno già dando strumenti collettivi di resistenza e risposta. inoltre ancora abbiamo le radio di movimento che trasmettono in FM che sono mezzi di comunicazione di massa come dicevano gli antichi che stanno facendo assemblee radiofoniche con i microfoni aperti ogni giorno (oggi a Roma su Radio Onda Rossa, ascoltabile anche in streaming ne andrà in onda un’altra). Ne approfitto anche per segnalare questo momento di lotta non in presenza: oggi ci sarà un mailbombing per sostenere la salute delle persone detenute al carcere di Rieti e i loro famigliari dopo le rivolte e i presidi solidali dei giorni scorsi. Insomma, ci si attrezza in vari modi. Qui più info sul mailbombing di oggi per chi volesse contribuire
https://www.ondarossa.info/newsredazione/2020/03/coronavirus-mailbombing-17-marzo-salute
Giustissimo farlo notare, però non mi riferivo alla sfera della comunicazione e alla dimensione «non in presenza»: mi riferivo, al contrario, alla presenza, quella fisica, sul territorio; mi riferivo alle cause di forza maggiore che hanno «sfollato» lo spazio pubblico non virtuale. Da qui l’esempio dell’azione collettiva sindacale, ancora possibile perché parte da luoghi dove, loro malgrado e per incoerenza e profondo classismo delle norme di questi giorni, i lavoratori sono ancora insieme (e corrono pericoli ancora insieme).
E per «shock» intendevo l’emergenza, la peer pressure, il clima di delazione e riprovazione, il martellamento mediatico. Tutto questo, per ora, inibisce una resistenza nello spazio fisico che non sia l’adozione non coordinata di tattiche individuali.
Purtroppo credo che molti continueranno a incolpare il vicino “disubbidiente” per le misure sempre più coercitive. Ma vedremo. Tra l’altro ho appena letto che secondo l’OMS la quarantena, per quanto rigida, è quasi inutile se non si fanno molti più test e non si isolano i positivi. In pratica, come si poteva immaginare benissimo, i contagi continuano ad aumentare perchè stanno lasciando i positivi non gravi, o asintomatici, barricati in casa con i familiari che quindi vengono contagiati. E così via. Come hai scritto in un altro commento, bisogna trovare il modo di disintossicare l’informazione.
Sul paternalismo autoritario, segnalo uno striscione che risponde a chi sta spacciando questi arresti domiciliari per una pacchia o una specie di vacanza:
https://nitter.net/perifericah/status/1239286993630224385
(immagino sia in Spagna ma non so proprio dove e non riesco a trovare informazioni)
L’attivista dei diritti umani e lavorativi de* sex worker Georgina Orellano ribadisce, sviluppa e declina il tema, parlando di quella che sarà una delle categorie di lavoratori più colpite e meno tutelate:
Hoy se profundizó aún más mi odio hacia lxs chetxs panza llena q desde sus privilegios nos dan consejos de q hacer frente al COVID-19:quedarnos en casa,llenar la heladera,mirar series en Netflix,leer libros,mostrarnos fotos de los escritorios que se armaron para seguir trabajando desde sus casas.
Que suerte reynas que cuenten con derechos,trabajo registrado y tarjeta de crédito.
Pero fuera de su realidad hay laburantes que vivimos al día,que la única tarjeta que tenemos es la Sube,que el trabajo que realizamos no está registrado, que comemos con lo que ganamos el día a día y que quedarnos en nuestras casas literalmente es cagarnos de hambre y después no tener ni para pagar el alquiler y quedarnos en la calle.
Lxs odio por ni siquiera tener una sensibilidad social con los que menos tienen,por pensar que todes somos iguales que ustedes,sigan mirando Netflix que acá otrxs estamos pensando como mierda sobrevivir.
Dejen de darnos esos consejos nefastos,chetxs del orto!!!
(https://nitter.net/GeorOrellano/status/1239301578781331456)
(non traduco perché il mio spagnolo è maccheronico e farei un macello, ma non dovrebbe essere difficile capire il senso)
Non sono misure di carattere sanitario, ma morale. L’idea è che per sconfiggere il virus bisogna flagellarsi cantando l’inno nazionale.
Credo che Tuco abbia afferrato un punto importantissimo, per questo rispondo al suo commento anche se le osservazioni che vorrei fare riguardano anche molti altri interventi di questa discussione. Vorrei soffermarmi sul doppio frame del “moralismo del senso di colpa” da una parte, e dell'”abbraccio nazionalista del siamo tutti sulla stessa barca” dall’altro.
Mi pare evidente la centralità dell’aspetto morale, ovvia e scontata deriva dell’individualizzazione della gestione del problema. Tutta la retorica sulla “responsabilità” ne è la prova, così come lo stigma sociale prima verso i giovani che fanno la movida, e ora verso chi passeggia, chi va in bici, chi va a correre o chi va al parco, in una spirale di “caccia all’untore” che sembra non toccare mai il fondo.
Del resto l’imperativo non è: «Non uscire per il tuo bene» ma «Non uscire perché puoi contagiare», e quindi il sottotesto è: «Tu uccidi». Ovvio che in un clima generale di morti numerose e appelli alla responsabilità molti di coloro che si sentono accusati di uccidere non si sentano di rispondere tranquillamente: «Ma che cazzo dici?!?» ma si sentano in colpa, sentimento artatamente e coscientemente instillato nei più.
Il senso di colpa, come il moralismo, è qualcosa che io attribuisco alla sfera del cristianesimo e, senza offesa per i credenti, nel mio ragionare politico vorrei che queste categorie (senso di colpa, e moralismo) non intervengano.
Anche le accuse a chi prova a esercitare pensiero critico sono intrise di moralizzazione e individualizzazione, cosa che dimostra quanto ormai questo frame sia stato interiorizzata anche dagli e dalle “insospettabili”.
C’è una continua sottotraccia giudicante a fare da bordone a tutto il discorso. Un giudizio calato dall’alto che non si sa più se provenga da dio o dalla nazione.
La seconda faccia della medaglia, speculare ma opposta al “moralismo del senso di colpa” è l'”abbraccio nazionalista del siamo tutti sulla stessa barca”, ragionamento che tende ad azzerare ogni differenza di classe per descrivere la società attraverso altre fratture: dentro/fuori, noi/loro. Su Giap si è parlato molto anche di questo frame, quindi non mi dilungo, ma è riconoscibile sin dall’inizio di tutta questa storia.
Prima con i “noi” italiani contagiati da “loro” cinesi (o stranieri in generale), poi con la proposta di chiudere le frontiere separando un dentro e un fuori, fino a quando quel “dentro” contro il “fuori” non è diventato il dentro dello spazio domestico contro il fuori della vita sociale e comunitaria.
Ora, tra le sfaccettature del frame, prevale quella del “siamo tutti sulla stessa barca”, da qui le raccapriccianti retoriche sul cantare l’inno, esporre il tricolore e stringerci in un abbraccia italiota.
Se la precedente faccia della medaglia è cristiano-cattolica, questa è nazionalista-patriottica.
In vari post e commenti su queste pagine già altri hanno parlato degli aspetti lavorativi ed economici della gestione italiana al pericolo del Covid-19. In più, le retoriche che hanno sostanziato gli specifici aspetti sociale, culturale e politico stanno portando alle estreme conseguenze alcune delle peggiori tossine della storia (non solo italiana): dio e patria. Manca la famiglia, ma con gli appelli a stare chiusi in casa forse è implicita.
Un importante corollario del discorso sul moralismo è quello che colpisce il corpo e i corpi: la nostra società in questi giorni sta sviluppando una tale paura del corpo dell’altro, un sospetto verso i corpi e il contatto, per non parlare dello scambio di fluidi, che temo che quando ne usciremo ormai avremo già fatto mille passi indietro nelle conquiste su sessualità e liberazione dei corpi. Mi piacerebbe ragionarne insieme alle femministe e alle persone con identità di genere fluide e non binarie, e orientamenti sessuali non conformi.
La domanda a) [fatta da Wu Ming 2, N.d.R.] è secondo me fondamentale. Nell’incertezza e nel panico che sta montando, la gente, specie quella più spaventata, sta scegliendo automaticamente e autonomamente l’ipotesi più prudenziale.
E questo spiega in parte anche le “delazioni”, la “viralità del decoro”: la gente ha una paura ormai completamente slegata dal dato scientifico e reagisce di conseguenza.
Trovo che questo sia sbagliato e anche dannoso, sarebbe bene che ci fossero direttive molto chiare in merito e basate su dati precisi.
Veramente imbarazzante il suo discorso. Sembra andare a cercare capri espiatori piuttosto che focalizzarsi sui veri problemi della sanità.
Ho notato che infettivologi ed esperti (anche a radio 3 scienza) stanno consigliando tutto ed il contrario di tutto sull’uso delle mascherine, guanti, asfalti ecc.
Io qualche giorno fa, sono capitato in una farmacia che vendeva mascherine ma mi sono vergognato a comprarle, dovrebbero servire al personale della sanità.
Aggiungo oltre ai saluti: a me pare che il capitalismo stia lasciando qualche varco aperto, qualche crepa mai vista prima, vabbè che vive di crisi ma diobono!!!!
Per quanto sembri marginale, questa storia della possibilità di correre mi sembra essere abbastanza emblematica del rapporto morboso tra decreti, divieti e opinione pubblica. In un primo momento sembrava fosse abbastanza chiaro che l’attività sportiva all’aperto, senza assembramenti, fosse possibile. Poi qualcuno ha cominciato a renderla meno agevole chiudendo alcuni spazi pubblici. Poi qualche governatore l’ha espressamente vietata (De Luca in Campania). Infine arrivano gli appelli più o meno ridicoli di sindaci che dicono fondamentalmente:”non avete mai fatto un cazzo, proprio ora dovete cominciare a correre?”… Ed ecco che da almeno due giorni discuto con persone che si sono convinte che chi esca a correre sia un untore incosciente. Il corto circuito è servito.
No vabbe’, De Luca:
https://lostrillone.tv/coronavirus-de-luca-resistere-fino-a-met-aprile-presto-il-picco-di-contagi/21951.html
“Abbiamo avuto comunicazioni confuse anche dal Governo Nazionale. Chi non si adegua, cioè chi è in giro senza motivo, è passivo di 3 mesi di carcere e di un’ammenda fino a 200 euro. Queste misure ancora non vengono messe in atto dalle forze di polizia e dalla municipale. Anzi da Roma abbiamo avuto comunicazioni sbagliate. Non si può camminare per strada, nemmeno a un metro di distanza”.
Il governo è confuso. No, anzi, il governo si sbaglia, quindi decido io. Confuso un cazzo, volutamente vago per lasciare ampi poteri a tutti i De Luca d’Italia
“Allora noi cercheremo di prendere qualche misura in più. Sto preparando un’ordinanza, che ribadisce che non solo è vietato camminare per strada senza motivo di urgenza. Costringeremo tutte le persone individuate a fare una quarantena di 15 giorni. Poi se saranno beccati fuori casa sono passibili di sanzioni penali. C’è un 10% di responsabili che vanno neutralizzati e messi in condizione di non nuocere”.
Scusate il linguaggio, ma come cazzo fa a essere legale una cosa del genere? La quarantena come cavillo legale per la detenzione. Che schifo indicibile, che caduta in basso. Questa roba è indifendibile sotto qualsiasi punto di vista
Ça va sans dire, De Luca è del PD. Potevo pure non controllare
esiste una pena più cruda dell’avere un sindaco renziano??
Eddài, su…
Passiamo oltre.
Segnalo questa evoluzione raccapricciante
https://corrieredibologna.corriere.it/bologna/cronaca/20_marzo_16/coronavirus-emilia-romagna-forli-droni-individuare-chi-esce-casa-a4b74cc2-67b4-11ea-b58a-1d5170becbeb_preview.shtml
Sono fuori controllo.
Loro, non il virus.
In questo momento ci sono due epidemie, una delle quali – l’epidemia dell’autoritarismo, del securitarismo, del controllo ossessivo – si estende col pretesto di affrontare l’altra.
Sembra che tutti i mostri allevati in seno alla società neoliberale negli ultimi tre decenni abbiano colto la palla al balzo per scatenarsi.
Se non ci sarà azione collettiva su questo, se non si estenderanno lotte contro questa gestione dell’emergenza, sarà davvero, davvero difficile opporsi “dopo”.
Quella dei droni non è una novità, gira da giorni questo video, che mi continuo a ripromettere di condividervi:
https://nitter.net/ConflictsW/status/1238177596510265352
Qualcuno riconosce la città?
Da me, coi megafoni, sono passati soltanto oggi e hanno fatto un solo passaggio, molto rapido (zona rurale, il distanziamento sociale qui è il default. Il virus se vuole arrivare deve prendere la macchina). Il messaggio è stato sbrigativo: “restate-a-casa”, pronunciato proprio così, scandito, atono, meccanico. Mi ha fatto pensare a un’occupazione militare o un’invasione aliena
La banalità della “vita che continua come prima ma con dei sacrifici”, il senso di oppressione, la rassegnazione mi hanno fatto venire in mente Vuoto a rendere, un corto di Alex Infascelli, episodio del film De Generazione:
https://invidio.us/watch?v=zX15e1puAWE
(anche se in Vuoto a rendere il conflitto è un altro e forse, come sempre, ho detto una cosa che non c’entra niente. Almeno se non lo conoscevate, ora lo conoscete)
Primo commento su Giap, per dire:
1) Nel macello dell’epidemia E dell’emergenza securitaria descritta, è un piacere vedere che, vuoi perché c’è più gente a casa, vuoi per il “de-googling”, state dimostrando che un’alternativa alle piattaforme di “discussione” social è possibile.
2) Sarebbe quindi il caso di sfruttare l’occasione per macinare idee su quello che, per me, in aggiunta a quanto detto da Wolf e altri nei commenti, è un chiaro segnale di fallimento del neoliberismo verso la nostra specie. Cioè, la Storia e la Natura con le maiuscole ci stanno dicendo che lasciare indietro i deboli non funziona. Anzi, c’è andata di culo che finora quest’epidemia non pare avere le caratteristiche per colpire paesi demograficamente giovani come in Africa…
3) Come mettere tutte queste idee in una maggiore “pratica” volta alla creazione di una maggiore coscienza politica – che appunto, si è fatto di tutto per anestetizzare? Capisco bene che ci vorrà del tempo per arrivare a una maggiore completezza rispetto alle conoscenze più tecniche del virus. Ci vorrà quindi anche più tempo per trarre conclusioni di tipo politico, probabilmente. Io tuttavia non vedo l’ora che, qui o altrove, qualcuno con più capacita di me riesca a formulare dei “prontuari su come sputtanare le cazzate securitarie sul virus (e non)” di facile fruizione per tutti.
4) Ah, e vista la mole di commenti, posso suggerire di pensare, magari in futuro, a un diverso sistema per catalogarli? Forse con etichette per tema o meno, ma non so se questo sia possibile.
Continuate l’ottimo lavoro, grazie mille!
Francesco
Meglio non catalogarli, secondo me: è una discussione, non stiamo mica scrivendo un’enciclopedia. Che resti sotto forma di discussione, l’enciclopedia si può scrivere dopo, più ponderata
Sul 4 punto spero che pensiate a breve alla creazione di un Forum dove poter esprimere in maniera più esaustiva e chiara possibile tutte le idee che grazie a voi WM e ai lettori emergono.
Purtroppo non ce la facciamo a moltiplicare gli ambiti in cui pubblichiamo e discutiamo, già gestire Giap in questi giorni è improbo…
Il Direttore Generale dell’Ufficio Scolastico Regionale dell’Emilia-Romagna oggi ha mandato una lettera a studenti e studentesse. Si intitola «Cigni neri» al tempo del coronavirus – un messaggio ai giovani che fanno scuola ma non a scuola.
Nel testo, paragona “i giovani” alle prese con la didattica on line, a “cigni neri”, cioè individui che cambiano le convinzioni precedenti, come quando si scoprì che non c’erano solo cigni bianchi.
Perché “cigni neri”? Perché “il coronavirus ci sta chiedendo di essere persone diverse, non soltanto fino a quando l’infezione passerà. Questa realtà sta rapidamente cambiando il nostro essere. Stiamo diventando diversi da ciò che eravamo. E quando l’identità cambia non si può più tornare quelli di prima.”. E quindi “voi studenti […] imparerete a fare un tipo diverso di scuola”.
Tutto questo, tre cartelle di lettera, senza spendere una parola sulle enormi difficoltà che le lezioni a distanza stanno creando a insegnanti, famiglie, ragazzi e ragazze. A sette, dieci, tredici anni seguire una lezione sul telefono o sullo schermo del PC significa recepire forse un decimo dei contenuti che si riescono a trasmettere in una classe normale. Chi già fatica dal vivo, con la modalità a distanza è tagliato fuori. Alle superiori le cose vanno meglio, ma le ore di lezione sono due, massimo tre al giorno. Alcune materie sono scomparse, ci sono solo compiti a casa e pagine da studiare. La situazione è quella che è, gli insegnanti stanno facendo il possibile, ma chiamare questo schifo “fare scuola ma non a scuola” è un autoinganno inaccettabile. Se poi addirittura si pensa che questa “scuola senza scuola” possa essere l’inizio di una mutazione positiva, di un “tipo diverso di scuola”, allora il sospetto è che l’ottimismo a tutti i costi nasconda una buona dose di malafede. Il peggio che ci potrà capitare è che soluzioni nate dall’arte d’arrangiarsi diventino un modello – ripetendoci come sotto ipnosi che tutta Europa ci vuole imitare, che tutti vorrebbero essere come noi.
Ci sono nel mio rione famiglie con tre, quattro bambini alle elementari/medie, e un un solo dispositivo con cui accedere alla rete, spesso un semplice smartphone. Non esiste niente di più classista della scuola-non-a-scuola.
*Senza contare che un bambino con genitori immigrati se non è immerso in un ambiente italofono non imparerà mai la lingua.
Nelle scuole elementari è ben difficile fare didattica online. I bambini stranieri della prima elementare frequentata da mio figlio minore, che avevano appena iniziato l’alfabetizzazione in italiano, regrediranno inevitabilmente, dato che i genitori non possono aiutarli con i compiti a casa e le maestre possono assegnarli ma non correggerli. Rischiano seriamente di perdere l’anno e ritrovarsi in seconda… al palo.
Per fortuna possono e possiamo usufruire tutti delle promozioni sottocosto disponibili sulla pagina AGID del marketing digital-solidale! Valutiamo insieme l’impatto sociale generato, il livello di innovazione sociale raggiunto e non dimentichiamo di richiedere la tessera elettronica da riempire con tanti bollini SDG’s.
Quasi due settimane fa, il Direttore Generale delle nove sedi Centri di Formazione Provinciale di Brescia, nel decimo (dalla chiusura della scuola) bollettino di aggiornamento sulla situazione in corso, così si rivolgeva ai dipendenti e in particolare ai “formatori” (io sono tra questi):
“Poiché la situazione potrebbe portarsi a lungo, stiamo valutando di attivare una formazione a distanza, per i docenti, sulle classi di googlesuite for education, in modo da supportare Spaggiari se questo dovesse risultare sovraccarico. Non mi stancherò mai di ripetere quanto sia importante quest’attività. Ho visto delle soluzioni innovative utilizzando sia le classe di google, sia wa, sia Instagram per coinvolgere i ragazzi.”
Più sotto proseguiva con:
“Vi invitiamo comunque a tener traccia delle attività degli studenti perché utili per una valutazione complessiva.
Vi chiediamo anche di tenere traccia di tutte le attività che avete svolto, poiché saranno oggetto di mappatura.”
Dulcis in fundo:
“Credo che dobbiamo utilizzare questo momento per sperimentare metodologie che serviranno per supportare la didattica, anche in momenti diversi da questo.”
Beh, ci è voluta un’epidemia per rendersi conto che una parte enorme delle attività di ogni giorno (lavoro e studio in primis) le potremmo tranquillamente svolgere a distanza. Speriamo almeno si impari qualche lezione.
Come hanno già fatto notare in molti, la didattica a distanza – persino in una sua versione ideale e senza le complicazioni tecniche e logistiche che tutti stanno riferendo – non somiglia nemmeno alla lontana a una pallida imitazione di quel che avviene apprendendo insieme, coi corpi presenti in uno stesso spazio fisico e col rapporto diretto e corporeo docente-discente.
Da genitore di una studentessa e da marito di un’insegnante, ti dico che la didattica a distanza può disgregare, separare, generare solitudine nelle ragazze e ragazzi che la seguono, al contempo facendo imparare ben poco.
Riguardo al lavorare: quanti lavori possono essere davvero svolti a distanza? È davvero »una parte enorme delle attività di ogni giorno», come dici, quella che si potrebbe convertire al telelavoro? Io non lo so e non ne sono così sicuro. Sospetto che molti lavori, senza il confronto anche corporeo con colleghe e colleghi, sarebbero svolti molto peggio.
[Ci sarebbe poi il livello ulteriore di critica: quanti lavori servono davvero a qualcosa? cos’è il lavoro oggi?]
Un conto è criticare il tran tran, l’alienazione procurata da un pendolarismo che spegne la vita, l’obbligo di sperperare ore della propria giornata in detestabili luoghi di lavoro anche quando la tua mansione potresti svolgerla ovunque… D’accordissimo.
Altro paio di maniche, invece, sarebbe fare l’apologia dell’atomizzazione sociale in “telepresenza”.
quanti lavori servono davvero a qualcosa?
Questo, direi, è un punto davvero fondamentale. Ma temo si andrebbe decisamente OT :)
Parlo dal punto di osservazione di uno che insegna all’università. I giornalisti e i nerd quando si discute di didattica a distanza hanno in mente le lezioni in streaming di Terence Tao a Princeton. Che però parla davanti a un’aula gremita di studenti veri, scrivendo su una lavagna di 2metri per sei, ripreso da un cineoperatore e da un tecnico del suono professionisti. La realtà del coronavirus consiste in lezioni fatte dalla camera da letto, con un pc da 295 euro comprato alla coop, i figli adolescenti che ascoltano a loro volta lezioni online oppure litigano selvaggiamente, il/la partner che fa il suo telelavoro in soggiorno, il wifi che va e viene, il porcodio sempre sulla punta della lingua.
Tuco, ho sperimentato giusto stamattina. La connessione domestica non regge due teleconferenze contemporaneamente. Per fare lezione con gli studenti dell’università, ho dovuto far perdere le lezioni di oggi a mio figlio maggiore. Per fortuna era one shot. Ma è chiaro che gli insegnanti con prole in età scolare hanno il problema sistematicamente.
A dir la verità si impara esattamente il contrario, cioè che non si può fare a meno del contatto umano diretto e questo anche in mestieri come il mio, che si adatterebbero benissimo al home office (e che, en passant, non servono a una mazza nell’economia del mondo). A Parigi ne abbiamo avuto la prova durante i 45 (quarantacinque) giorni di sciopero dei trasporti pubblici, in cui siamo stati tutti dotati dei mezzi per lavorare da casa, eppure in tanti, io pure, appena si poteva si andava uguale, in una situazione surreale di marce collettive tipo esodo biblico nel gelo di dicembre (in tutto ciò, la maggior parte della gente è sempre rimasta solidale con chi scioperava, che è abbastanza commovente, ma questo è un altro discorso). E guarda che non si tratta di senso del dovere o di essere ligi o altre cazzate, è che in un lavoro di squadra che ti appassiona un minimo puoi avere tutti i mezzi informatici del mondo ma mancherà sempre il fattore umano, manca di sapere se è il momento giusto di rompere la palle a un collega perché non vedi il suo umore, mancano i contatti con quelli che non sono i tuoi stretti collaboratori ma che possono darti una mano se vai a trovarli nel loro ufficio, mancano tutti gli imprevisti & probabilità delle pause caffè e sigaretta. A sto giro siamo più preparati e meglio organizzati, ma lo stesso la comunicazione è molto meno spontanea, fare una domanda al tuo vicino di scrivania non è stessa cosa che contattarlo su skype, e infatti si comincia sempre con “ti disturbo?” e spesso si evita proprio. D’altronde si è rivelata un’evidenza che non si può esternalizzare del tutto il lavoro intellettuale, ci hanno provato ovviamente, ma che il risparmio iniziale generava a lungo termine maggiori costi
Da questa parte dello stagno le cose stanno precipitando rapidamente. I numeri delle persone contagiate sono ancora relativamente bassi per la semplice ragione che la gente non viene testata, solo adesso cominciano a farlo negli aeroporti, ma dire che i buoi, anzi i bisonti, stanno ormai vagando per le praterie coast to coast è un tragico eufemismo. Decine di migliaia di scuole sono chiuse e continuano a chiudere, un paio d’ore fa il governatore dell’Oklahoma (che tre giorni orsono si è fatto un selfie con figli al ristorante e poi in fretta e furia tra le polemiche l’ha cancellato) ha ordinato di chiudere ogni ordine di scuola fino ai primi di aprile. Come han fatto molti suoi pari. L’università in cui lavoro ha per ora ‘trasferito’ le lezioni online per le prossime due settimane, in quattro e quattr’otto chiedendoci di trasformarci in qualcosa di diverso da chi, come educatori/educatrici, siamo stati/e fin qui. Come spiega Rebecca Barrett-Fox qui, è una terribile idea per mille ragioni. Servono idee migliori di quelle che ci chiedono di applicare.
Aspetto la seconda puntata per provare a mettere insieme un commento più complessivo sulla securitizzazione del decoro e del senso civico. Come dici giustamente il nodo sono i ribaltamenti delle nozioni di responsabilità e come ad esempio “l’atto del camminare” sia diventato non solo perseguibile legalmente ma anche sorgente di insulti e denigrazioni. Di qui le implicazioni su tutto ciò che è “pubblico” sono molteplici.
Volevo ora aggiungere due notazioni:
1. Il “parto da me” non dovrebbe diventare o venire inteso come un’operazione narcisistica ma come un momento metodologico di un’indagine qualitativa necessario per identificare alcune catene significanti a cui si assoggetta la prospettiva. Può allora descriversi fenomenologicamente una giornata di quarantena a patto che serva per definire i campi di forze con cui si entra in relazione e le modalità di tale relazione. In questo modo si può abbozzare un primo diagramma dentro cui certamente si trovano anche l’Io e il narcisismo ma che è anche uno strumento utile a riordinare, le storie, i piani di analisi e le interpretazioni disponibili.
2. Tutto ciò mi sembra particolarmente rilevante se l’intenzione è “studiare i processi” che dal senso comune si fanno populismo virale poichè l’auto-arresto e la sospensione di una certa quotidianità isolano si l’Io, ma costruiscono simultaneamente un soggetto iper-connesso come mai accaduto in precedenza. I campi emozionali sono quindi particolarmente potenti e in gran parte ancora sconosciuti vista la loro dimensione. In parte però se l’impressione si fa “fatto storico” e “non il rivolo di un processo complessivo”, allora il politico si riduce alla potenza di racconto, mentre il canestro viene “asportato” dal parco come successo con la Brexit o con i vari interventi di Cambridge Analytica in giro per il mondo. Credo che qui risieda una componente importante di questa eccezionalità “biologica”.
Nel frattempo la regione Veneto approfitta della situazione per tirare la volata che gli consentirà di dichiarare di avere adottato la strategia migliore, di ottenere maggiori consensi e di mostrare all’ Italia intera come si gestisce e si governa l’ ” emergenza “, di proporsi come modello di efficientismo autoritario/ securitario. E invece di dire che faranno tamponi a tappeto per rintracciare chi ha già sviluppato anticorpi ed adottare una differente politica di gestione dell’isolamento, dichiara che si faranno i tamponi per rintracciare tutti i potenziali untori, positivi e asintomatici.
Il fatto è la scelta di fare tamponi a tappeto dichiarata dalla regione Veneto, solo una lettura politica può collocare il fatto però.
Non lasciamoci isolare – di Serge Quadruppani (in francese)
“Ordinanza, pugno di ferro del sindaco a Verona: «Vietate ciclabili, alzaie e panchine»
„sarà vietato fino al 25 marzo a Verona anche «sedersi sulle panchine», mentre per quel che riguarda le aree cani l’uso è consentito «per soli 5 minuti, uno per volta»“
https://www.veronasera.it/cronaca/divieti-verona-coronavirus-panchine-cani-sport-sboarina-coronavirus-16-marzo-2020.html
Il prossimo passo sarà la soppressione di tutti i cani, per non dare alle persone un pretesto per uscire di casa.
Perdonatemi se sforo un pochino: con tutto questo tempo a disposizione i ragionamenti si fanno sempre piu` astratti e al momento il mio si e` focalizzato sui “valori” che questa emergenza sta mettendo in gioco, in primis la liberta`. Premetto che personalmente tendo a vedere gli accadimenti di questi giorni come un “riorganizzarsi” sistemico; per sistema pero` non intendo soltanto quello delle relazioni umane e delle strutture ed istituzioni politiche ed economiche che queste relazioni amministarno (sistema in evidenza) ma anche e sopratutto il sistema di aquisizione, appunto, di valori da parte di una nuova entita` (sistema non-in-evidenza). A questo punto pero` prego astenersi dall’istinto di attribuire qualita`a questa entita` e considerare la possibilita` che con i nostri valori essa appunto stia giocando a scopo “didattico”, per imparare, in quanto al momento (al contrario del virus) e` in divenire (tecnologicamente e biologicamente in costruzione), deve apprendere. Infatti, anche se gia` ampiamente presente nelle vite di tutt* , dominatrice di (quasi) tutte le interazioni umane, non ha valori. Parlo dell’ intelligenza Artificiale; qui` pero` mi fermo perche` il discorso andrebbe off-topic e si complica. Concludo solo dicendo che l’emergenza sicuramente c’e`, sia per quanto riguarda la salute umana che la “crisi” di valori (sempre umani), pero` e` speculare, indagatoria.
Una amica medico mi ha spiegato che la presenza di anticorpi non si puo rilevare tramite tampone ma attraverso esami sierologici, quindi il Veneto spinge l’acceleratore sulle misure di controllo. Mi ha anche detto che la comunità scientifica non è d’ accordo neanche sul fatto che il contagio fornisca una reale immunità. La permanenza di questo dubbio potrebbe alimentare indefinitamente la convinzione che l’ isolamento sia l’unica soluzione.
Le preoccupazioni esposte da WM1, e relative alla loro esposizione pubblica come collettivo di scrittori, mi fanno pensare che gli attuali detrattori non fossero buoni “sostenitori”. Lo scopo di alcune dichiarazioni non aveva l’ intento di incentivare comportamenti irresponsabili, semmai maggiormente consapevoli. Se non è passato il messaggio che è il filo conduttore del blog, cioè quello di decostruire, smontare, analizzare pezzo per pezzo, la narrazione dominante significa che minare alcune sicurezze/ certezze è più facile in alcuni contesti che in altri. Sino a quando il discorso non va a toccare convinzioni radicate nella propria personale/ intima sicurezza si riesce ad ottenere risposte più razionali. È su questo che si sta giocando la partita del controllo.
Secondo me invece il “che cazzo me ne frega” è giustificato non soltanto da un punto di vista emotivo, quotidiano, ma anche teorico:
1) Le vostre analisi hanno come condizione materiale di possibilità la distanza siderale tra voi e il virus. La totale mancanza di empatia che si respira in questi esercizi critici – il loro essere appunto “esercizi”, e cioè messa alla prova quasi-automatica di formule trite e ritrite per dimostrare che ce l’avete più intellettuale degli altri – dimostra soltanto che il distacco critico è un privilegio di chi non ha parenti o amici intubati. Lamentarsi della chiusura dei parchi quando nella Bergamasca non sanno più dove mettere i cadaveri è come lamentarsi del freddo della canna quando ti stanno puntando una pistola alla tempia.
2) Se tutto è informato da un’ideologia, è perché siamo esseri finiti. Se fossimo immortali, non avremmo un punto di vista parziale sulle cose. Il problema delle vostre analisi è che confondete la premessa (si muore) con la conclusione (come si muore), dimenticando che se c’è un “come” è solo perché c’è un assoluto che lo fonda. “Che cazzo me ne frega” è infinitamente più critico di qualunque lettura foucaultiana dell’ultimo decreto perché riconosce questo assoluto, lo tocca con mano, sospende ogni distacco. Davanti al “che cazzo me ne frega” non c’è alcuna differenza tra i vostri esercizi critici e i goffi esercizi di contenimento da parte del governo. Che cazzo me ne frega di come siamo arrivati qui, che cazzo me ne frega di cosa si può e cosa non si può fare? Come fate a non arrivarci?
In un altro post si parlava di parresia. Trovo significativo che si specificasse che il rischio implicito nel parlar franco non fosse quello – reale – di andare a intervistare gli operai fuori dalle fabbriche (rischio del contagio, rischio di arresto per violazione dei decreti), ma il rischio di “attacchi e impopolarità”.
Come volevasi dimostrare. Questo commento contiene pressoché tutti i tic e le posture moralmente ricattatorie e interdittive che abbiamo già criticato.
Una notazione solo sull’ultimo capoverso, livoroso come gli altri ma particolarmente inaccettabile:
sono settimane che parliamo con lavoratrici e lavoratori di vari settori, ne abbiamo raccolto e riportato le testimonianze e continueremo a farlo.
La moglie di uno di noi è sindacalista, mobilitata a tempo pieno dall’inizio di quest’emergenza. Anche “accontentandoci” di questo, saremmo a un solo grado di separazione da centinaia di lavoratori che stanno subendo l’emergenza, scioperano, raccontano. E non ci accontentiamo.
La moglie di un altro è dipendente di una farmacia, mobilitata a tempo pieno idem.
Il fratello di uno di noi è operaio metalmeccanico.
Quando c’è stato da andare fisicamente dove c’era il conflitto, lo abbiamo fatto, in spregio di posti di blocco e quant’altro, non solo in occasione della rivolta alla Dozza, come già raccontato.
Continuiamo a girare nel nostro territorio, a esplorare e documentare, ma non credo sia il caso di riportare qui nei dettagli quali e quante volte abbiamo violato cosa, per ovvie ragioni.
Il fatto che tu abbia dato per scontato che non lo stiamo facendo significa che
1) parti da preconcetti su chi siamo e in quali reti sociali siamo immersi;
2) non stai leggendo quel che scriviamo.
Aggiungo, giusto perché l’accusa di “mancare d’empatia” mi pare particolarmente odiosa, che anche noi abbiamo genitori anziani, io in particolare una madre che vive sola, a 82 anni, con le difese immunitarie abbassate dall’assunzione di un medicinale necessario per curare altre patologie. In pratica, l’identikit perfetto della vittima-tipo di questo virus. Per quanto sia autosufficiente, è chiaro che in questi giorni io e mia sorella dobbiamo darle una mano, portarle la spesa, assisterla in svariate situazioni, con il tarlo costante di poterla infettare in quanto portatori sani – mia moglie è farmacista, lavora a contatto col pubblico, non è affatto escluso che si porti a casa il virus. Quindi, per favore, continuiamo a ragionare senza inquinare le riflessioni con attacchi ad personam, quando delle persone non sappiamo un cazzo di niente.
Ma se a commenti così togli l’«ad personam», non rimane assolutamente niente…
Notare che vi viene rinfacciata una “distanza siderale tra voi e il virus” e contemporaneamente vi si accusa di essere untori che se ne fregano di contagiare gli altri.
Il fulcro del commento era «Che cazzo me ne frega di come siamo arrivati qui, che cazzo me ne frega di cosa si può e cosa non si può fare?», e tu pretendi pure la logica?
Soprattutto non si capisce perché Rosa perda tempo a scrivere lunghi commenti su Giap quando “là fuori” c’è l’apocalisse, moriremo tutti e nulla ha più importanza.
Come, con quale sicumera, puoi affermare che la presunta ( da parte tua) superficialità di alcune riflessioni sia il frutto del fatto di non avere parenti intubati o malati? Io non ne ho ma forse non ne hai neppure tu che parli con tanta foga. E questo svelerebbe subito la tua disonestà.
” Che cazzo me ne frega” è la più irrazionale espressione di cieca arroganza individualista. E non ha niente a che fare con l’empatia, di cui ti fregi.
Anche la confusione su ” come si muore” la fai sempre tu: si muore senza posti a sufficienza in terapia intensiva. Anche se questa influenza continua ad essere meno letale di quella del 2017/ 18. Come mai? Che cazzo te ne frega…
Qui non ci si è lamentati della chiusura dei parchi ma di misure sproporzionate e forse anche inadeguate per il contenimento del contagio. Misure che limitano la libertà personale di tutti allo scopo di sconfiggere il virus, salvo poi mandare a lavorare una infinita quantità di categorie differenti di lavoratori: rider, operai, fattorini, ecc. Nota che il postino non consegna raccomandate ma Amazon può consegnare pacchi, pacchetti, pacchettini.
Sono convinta sia più empatico e giusto verso i bergamaschi continuare a ragionare criticamente e lucidamente, invece che mettersi a urlare “che cazzo me ne frega di come ci siamo arrivati” e farsi mettere il cervello in lockdown dalla paura. L’unica cosa che possiamo fare per aiutare chi è in prima linea è sì contribuire a contenere il contagio (in maniera sensata), ma anche e soprattutto contribuire a capire cosa ci ha portati fin qui, e come potremo uscirne.
È appena uscita una testimonianza dalla «prima linea» dove ho trovato quasi le tue stesse parole, Glo:
«Un’analisi di come siamo arrivati a questo punto è doverosa, se non altro in segno di rispetto a quell’infinita fila di bare in una tenda della protezione civile appena fuori dall’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo ed ai familiari che non potranno nemmeno dare a quei corpi l’ultimo saluto.»
Se andrà tutto bene sarà sulla nostra pelle
Riflessioni di un professionista sanitario durante la pandemia di Covid-19
“distanza siderale dal virus”? interessante – come si fa che mi interessa? ci si trasferisce su un altro pianeta? ci si muove all’interno di una sfera trasparente come i cricetini? uno che scrive forse è puro pensiero, non ha corpo?
Se la distanza siderale è intesa in senso psicologico, meno male che c’è qualcuno che la mantiene, perché il pensiero unico non è mai una bella cosa
NOTA BENE: ci dicono che c’è gente che sta discutendo «con noi» su Twitter: rispondono ad alcuni dei commenti qui, pongono domande ecc.
Noi non siamo più su Twitter dal settembre 2019.
Quel profilo è solo un bot, come scritto nella bio e nel tweet fissato in cima. Là arrivano solo notifiche automatiche di nuovi post e commenti.
Il luogo dove discutiamo è questo.
Mi chiedevo quando sarebbe arrivato qui qualcun@ a dirci: ma voi non siete coinvolti direttamente, non potete parlare.
Non ci sono dubbi che la realtà del virus percepita da Bologna e quella percepita dal bergamasco sia differente. Ma se chi si trova nell’occhio del ciclone non riesce, per ovvie ragioni, a guardare ciò che accade con occhio sufficientemente critico, sarà auspicabile che almeno chi si trova appena un poco più in là, nella seconda regione per numero di ricoverati, provi a farlo.
L’empatia non è contrapponibile all’utilizzo dell’intelletto e del pensiero critico. Questa separazione è precisamente ciò a cui tende a indurci la comunicazione imperante. Empatizzare, non ragionare.
Noi invece vogliamo empatizzare *e* ragionare.
Ma bisogna intendersi anche sull’empatia.
Gli ammalati e gli intubati lombardi, ahimè, della mia empatia se ne fanno assai poco. Hanno bisogno di ventilatori, macchinari, personale medico riposato. Hanno bisogno di una sanità pubblica diversa, anziché quella massacrata dai tagli nei trent’anni che abbiamo alle spalle (e pensare che certi intellettuali anafettivi quei tagli non hanno mai smesso di criticarli, ma oggi vengono rintuzzati perché non versano lacrime in pubblico per i caduti e invece si accaniscono a produrre sguardo critico…)
Bisogna proprio intendersi. Perché che la campagna “state in casa” è ipocrita e falsa lo stanno dicendo con forza i lavoratori che si mobilitano nelle fabbriche, negli hub di Amazon, nella logistica – nonostante le restrizioni e il divieto di assembramento – per ottenere le tutele necessarie sui loro luoghi di lavoro. C’è chi può permettersi di stare in casa a fare shopping su Amazon e chi no. Ecco, noi tendiamo a empatizzare con “chi no” ed è esposto al rischio quotidianamente. [Tra costoro per altro c’è mia moglie, che dal giorno 1 dell’emergenza non ha mancato un’ora al lavoro, rimanendo esposta, perché proprio di lavoro e lavoratori si occupa per mestiere].
Ancora: noi siamo liberi professionisti, e quindi siamo naturalmente anche piuttosto attenti a quanto accade nell’economia famigliare di gente come noi, cioè coloro che non possono accedere a nessun ammortizzatore sociale. L’editoria, il settore nel quale lavoriamo, che già non godeva di buona salute prima dell’epidemia, sta subendo danni enormi, dai quali non è dato sapere quando e in quanti si risolleveranno. E tra quei “quanti” in bilico ci siamo noi stessi. Empatizzare, please…
Il “distacco” critico con cui scriviamo nasce precisamente dallo sforzo di restare lucidi, non farci sopraffare dall’empatizzazione e dall’intruppamento, continuare a osservare ciò che sta avvenendo nella società: non proprio una cosa da niente, vale a dire la sospensione dei diritti costituzionali come non avveniva dal 1945 e l’attivazione di un dispositivo retorico di (auto)controllo che invece non ha precedenti. Qualcuno dovrà pur farlo, finché lo consentiranno.
E adesso vado pure io a da mia madre (75 anni), a portarle la scorta di guanti di lattice, perché non ne trova più al supermercato.
Dogpiling e strawman come se piovesse. Non ho scritto da nessuna parte che “non potete parlare” o che non si deve “ragionare e criticare lucidamente” perché “nulla ha più importanza”. Non ho espresso un giudizio complessivo sul vostro lavoro né tantomeno su di voi come persone, ma solo su quello che avete pubblicato negli ultimi giorni. Se molt* compagn* provano ora insofferenza verso il pensiero critico, la soluzione più semplice è senz’altro accusarli di essere delle femminucce cripto-reazionarie incapaci di scorgere la dimensione politica dietro a misure che si vogliono neutre – del resto anche le epurazioni (virtuali) hanno un valore taumaturgico. Forse però ha più senso cercare di comprendere il perché di questa insofferenza. “Qui si muore” non significa adesione acritica alla retorica governativa, significa nominare un trauma, significa che nulla sarà più come prima. Nulla, ivi compreso il pensiero critico. Quindi stabilire una continuità tra l’ideologia del decoro e le misure di distanziamento sociale vuol dire negare questo trauma e forzare la realtà entro griglie precostituite al limite dell’obsoleto. L’angoscia e il terrore indotti dal coronavirus – l’angoscia di fronte a qualcosa che sembra letteralmente la manifestazione dell’ignoto (non lo vediamo, non sappiamo come si comporterà in futuro), il terrore di poter essere io stessa la portatrice sana – sono sentimenti che non si possono esaurire nell’opposizione libertà/reclusione. Le fantasie distopiche sul prolungamento ad infinitum delle misure attuali sono, appunto, fantasie, e a leggere troppo si finisce che è più facile immaginare la prossima venuta del biofascismo che la scoperta della cura o del vaccino al covid (come se poi al capitalismo facesse davvero comodo avere la gente tumulata in casa). Questi interventi mi sembrano più che altro dettati dalla foga di blastare i blastatori sovreccitati per droni, delazioni e inni nazionali. Leggo ora nella seconda puntata che il nocciolo dell’argomento è: “più sono forti quelle restrizioni più devono essere precisi e correttamente delimitati i casi e modi previsti dalla legge”. Ma nei fatti una più precisa e corretta delimitazione dei casi richiederebbe un controllo ancora più capillare per poter verificare di volta in volta se si è violata una restrizione.
Commento molto più loffio del primo. Sì, c’è antintellettualismo, ma manca “roba forte” come l’accusa di non andare a parlare coi lavoratori perché abbiamo paura che ci infettino.
Se hai finito, noi passeremmo oltre.
Rosa,
Su questo blog si sta discutendo da settimane; si sta riflettendo sulla “dimensione politica dietro a misure che si vogliono neutre”, per usare le tue stesse parole; si sta provando con sforzo a produrre un discorso critico rispetto a ciò che ci circonda; e tu vieni ad attribuirci assenza di empatia (prima) e volontà accusatoria (poi). Ci sono centinaia di commenti in calce a questi nostri post, decine di link, scambi d’opinione, riflessioni, e tu liquidi i nostri pezzi come “fantasie distopiche sul prolungamento ad infinitum delle misure attuali” leggendo le quali “è più facile immaginare la prossima venuta del biofascismo che la scoperta della cura o del vaccino al codvid”. Be’, il biofascismo intanto è già qui, lo vediamo all’opera ad occhio nudo. Il vaccino ancora no, purtroppo.
Se pensi dunque che tutto questo non serva, perché vieni a perdere tempo qui? Renditi utile altrove. Hai espresso il tuo disappunto e disaccordo. Ne prendiamo atto, e continuiamo a fare quello che riteniamo importante. Costi quello che costi.
Perché, vedi, sempre per citarti, “se molt* compagn* provano ora insofferenza verso il pensiero critico” essendo umanamente spaventat*, esercitarlo dopo, quel pensiero critico, potrebbe essere troppo tardi. Proprio perché nulla sarà più come prima. La paura è nemica del pensiero critico, anche senza bisogno di un’intenzione autoritaria che la fomenti. È un dato di fatto. E abbandonarsi alla paura non significa “essere delle femminucce cripto-reazionarie”, ma, appunto, essere umani. Nondimeno è sbagliato. Sbagliatissimo. Perché in preda al panico non si è lucidi e si dicono e fanno cazzate. Vale tanto per i/le compagn* quanto per chi regge le sorti del governo.
Ad ogni modo io penso che al più tardi a metà aprile la vita comincerà a riprendersi prepotentemente il suo spazio, con o senza abrogazione del coprifuoco. Comincio ad avvertire i primi timidi mugugni, le prime timide ammissioni (tizio è uscito in bici, caio è andato a curare le api con suo fratello, ecc.), i primi timidi segnali (qualcuno ha steso i panni ad asciugare, qualcuno si parla da balcone a balcone). Tenendo anche un occhio su twitter, ho la sensazione che i social siano come Bicêtre, un luogo in cui ogni distorsione allucinatoria della realtà si presenta nella forma più estrema.
Per chi non conosce il nostro L’armata dei sonnambuli: citando [il reclusorio di] Bicêtre, Tuco sta citando quel romanzo.
Scettico da subito riguardo a queste misure draconiane, vi leggo da quando sono state imposte. Discutendone con me stesso (ho fatto l’errore di esternare il mio scetticismo a un gruppo di amici e da allora non ci sentiamo più), continuo a trovare un problema: l’alto tasso di ospedalizzazione intensiva. In ogni modo cerchi di rifiutare il lockdown completo alla fine sbatto contro “nessun sistema sanitario può gestire il 10% (o qualche x%) della sua popolazione in unità intensiva/sub-intensiva)”
Come si risolve?
Si potrebbe risolvere prima di tutto ammettendo che ci siono due virus in circolazione e poi limitando e prevenendo la “speculazione virale” della disinformazione. E fattibilissimo e potrebbe anche essere imposto dall’alto.
Purtroppo non riesco a recuperare il tweet, ma qualche giorno fa avevo trovato la segnalazione di un articolo del 2008, in cui si dava l’allarme per l’esaurimento dei posti in terapia intensiva nella regione Lombardia.
Il motivo?
L’influenza 2007-2008.
La situazione era dunque la stessa di ora, qui da noi.
Nessuno aveva bloccato l’intera regione per questo, ma non è questo il merito in cui voglio entrare.
L’aspetto che mi interessa sottolineare è che non solo il problema strutturale era ovviamente ben noto, ma che appunto ci avevamo pure ben sbattuto il naso 12 anni fa, in modo doloroso.
La causa di questa carenza strutturale sappiamo qual è.
Sarebbe già un buon punto di partenza lavorare su quella.
Pier, capisco il punto che poni, ma il muro contro cui sbatti non è l’unico. Eccone un altro: che succede se con questo sforzo immane fermiamo il virus poi tra un mese e mezzo, o in autunno, ripassa qualcuno che lo porta con se e ricomincia la giostra? oppure trovano un vaccino, ma il virus si ripresenta mutato? (non sono scenari da escludere: certezze, mi pare, non ne ha nessuno) E dunque quando esattamente arriverebbe il momento in cui il nostro governo così buono e paterno deciderebbe che le persone a volte sono sacrificabili? D’altra parte stiamo imparando in questi giorni, se ce ne fossimo dimenticati, che quando la patria chiama la nazione è tenuta a sacrificarsi.
Poi invece, magari viene estate e non ci pensiamo più
Fermare il virus non è uno scenario possibile, e questo lo sanno anche gli epidemiologi. Non è mai stato il fine di queste misure. Il fine è rallentare la sua diffusione abbastanza lungo da tenere in vita il sistema sanitario. In caso contrario, avremmo molti morti in più – davvero molti. Poi certo, nessuno ha mai fatto un esperimento socio-economico di questo tipo e le conseguenze di medio-lungo sono una gigantesca incognita. Questa è anche la conclusione dello studio di Neil Ferguson che ha fatto cambiare idea a Johnson, Macron e Trump (https://www.imperial.ac.uk/media/imperial-college/medicine/sph/ide/gida-fellowships/Imperial-College-COVID19-NPI-modelling-16-03-2020.pdf).
Sembra che abbia già deciso che sono sacrificabili in tanti, anche tra i meno prevedibili (esclusi quindi carcerati ecc.).
Gli operatori sanitari lavorano senza protezioni, non sono più testati e quando lo sono per un certo periodo hanno lavorato anche se positivi purché asintomatici. Avviene proprio nelle zone a maggior numero di contagi.
Sembra che siano sacrificabili gli operai (o i loro familiari), dato che a Confindustria è stata data piena autonomia sulla chiusura o meno delle fabbriche, mentre gli operai erano costretti a scioperi selvaggi per le condizioni di sicurezza. Quando hai a che fare con la produzione materiale non lavori da casa. Un tarlo nel cervello che sarebbe interessante poter verificare incrociando dati diversi: ma possibile che il massacro sia in questi giorni più intenso proprio nelle aree industriali? Bergamo e Brescia in Lombardia hanno i sindaci che chiedono la chiusura al loro stesso governo -sono entrambi del PD- e pare che il governo gli risponda picche. Anche Piacenza è un polo industriale e non se la passa benissimo.
O è che da quelle parti van tutti a far l’aperitivo in massa? E a passeggiare?
Utile anche questa ultima notizia, sul controllo delle celle telefoniche in Lombardia:
https://www.adnkronos.com/fatti/cronaca/2020/03/17/coronavirus-lombardia-monitora-celle-telefoniche_7Ubs2OOMKGGSygaYEpLezO.html?refresh_ce
Mostra come la riduzione degli spostamenti, inclusi quelli per lavoro, sia del 60%. Viene giudicato insufficiente.
Da un lato puo’ servire a capire quali siano le direttrici degli spostamenti ancora effettuati e quindi a individuarne le cause. Per il discorso che si fa qui, deguglizzazione inclusa, la novità non è tanto sapere che si faccia, perché è ovvio che si tratta di un tipo di controllo che viene praticato a livello sia individuale sia di massa da tempo, ma che lo si dica così apertamente, come normale mezzo di sorveglianza collettiva nel caso di operazioni di confinamento massiccio.
Se capisco bene, poi, una deguglizzazione in questo caso sarebbe del tutto inefficace, perché il controllo si fa sulle celle telefoniche, capta quindi qualsiasi apparecchio.
Cio’ detto, al momento di un ritorno del virus, il tempo potrebbe avere dato un maggiore livello di attenzione (ricordiamo che in Italia il primo caso registrato è stato grazie alla testardaggine di una anestesista che ha fatto il test a un paziente con una polmonite grave, malgrado i protocolli lo escludessero, ma non l’approccio teorico dell’insegnamento universitario https://www.repubblica.it/cronaca/2020/03/06/news/l_anestesista_di_codogno_per_mattia_era_tutto_inutile_cosi_ho_avuto_la_folle_idea_di_pensare_al_coronavirus_-250380291/ ) permettendo di individuarlo prima e reagire meglio.
La decisione di sacrificarci comincia coi tagli alla sanità e a tutto il servizio pubblico, peraltro, intensificatasi sotto le direttive UE negli ultimi anni.
Perché si sa benissimo, cioè i padroni lo sanno, che senza servizi pubblici campi peggio e meno, tu e chi ti circonda, quindi diventi più docile e più ricattabile, dato che temi non solo per te, ma pure per le persone a cui tieni.
Si risolve facendo 10.000, 20.000 , 30.000 letti in più di terapia intensiva. Personalmente (per quel che vale la mia modestissima opinione) lo vado dicendo e scrivendo da quando a Febbraio si capiva che l’epidemia sarebbe arrivata. Non si dica che è questione di costi: il lockdown quasi totale dell’economia che è stato imposto sta costando centinaia di miliardi di euro. È un metodo alla cinese: per loro è ovvio applicare provvedimenti coercitivi e pilotare l’economia di conseguenza, è una prassi usuale. Noi invece avremmo dovuto affrontare l’evento alla occidentale, confidando nelle nostre capacità di curare bene le persone e investendo miliardi su miliardi nei nostri laboratori d’eccellenza per trovare un farmaco che consenta di superare l’intenzione senza essere intubati.
I lavoratori si incazzano autonomamente, ma hanno bisogno di organizzarsi per esprimere questa incazzatura. Se oggi sta succedendo quel che succede nei posti di lavoro è anche perché, oltre ai casi diffusi di “cani sciolti” combattivi che in fabbrica o in ufficio o in magazzino “piantano grane”, ci sono compagni e compagne strutturati in organizzazioni (politiche, sindacali, di movimento) che si danno da fare per organizzare quella rabbia. Chi fa le prediche a spazi come Giap che provano a mettere in discussione la gestione dell’emergenza, e lo fa invitandoci aggressivamente a parlare piuttosto con la gente che rischia grosso, forse non si rende conto che sono proprio i frequentatori assidui di ambienti critici come questo a sporcarsi le mani con questi tentativi concreti di rallentare i contagi dove conta, mentre altri si impegnano in meno utili inni patriottici dai balconi e fotodelazioni di bambini al parco.
E la stessa cosa avviene anche all’estero, per esempio in Spagna; voglio vedere quando inizieranno in posti come la Francia, la Germania, la Gran Bretagna, gli USA. Tutti i racconti di prima o seconda mano che ho di queste vicende parlano di un clima esplosivo, anche se ovviamente in molte aziende medio-piccole la situazione può essere diversa (c’è anche chi mi ha raccontato di fabbriche dove prevale la preoccupazione di non restare tutti disoccupati nel bel mezzo di questa situazione e della recessione che arriverà dopo).
Le scialbe misure del governo per tenere buona la classe operaia nascono da questo clima che si è creato soprattutto nelle fabbriche metalmeccaniche. Tra queste misure, alcune delle quali sono giuste anche se troppo blande, includo anche quella davvero paradossale di dare un’elemosina di 5 euro al giorno di incentivo a chi va al lavoro in sede, dopo averci fatto una testa così che non bisognava uscire di casa.
E da qui nasce una riflessione: non tutto è perduto. Non parlo solo della situazione sanitaria, il cui esito non è già scritto e può prendere diverse strade con diversi gradi di tragicità, ma anche di quella politica e se vogliamo sociale. Il senso di pericolo e urgenza che si ha tra le masse nei momenti catastrofici porta in sé un’ambiguità: da un lato, incoraggia la voglia di ordine e autorità, che tendenzialmente è una cosa di destra, dall’altro, rafforza le idee di giustizia, di equità, di gestione pubblica e collettiva dell’economia, che sono cose di sinistra. Faccio notare che improvvisamente tutti i vincoli austeritari sono saltati in tutto l’Occidente, si parla, come se fosse la cosa più normale del mondo, di investire centinaia di miliardi di euro di spesa pubblica, le Borse crollano da settimane e non dico che tutti se ne sbattano le palle ma ci andiamo vicini, dopo anni in cui ogni starnuto di Piazza Affari era visto con più costernazione di quella che accoglie oggi un colpo di tosse in coda al supermercato.
Sto facendo riunioni politiche online in questo periodo (non so se avete sentito che c’è in giro un brutto virus e la gente esce poco…). In una di queste un giovane compagno sollevava questa obiezione: «Ma non è meglio evitare il concetto di “emergenza”, sia in questo caso sia in quello del cambiamento climatico? Finisce per fomentare soluzione autoritarie». Ne abbiamo discusso e la mia opinione era questa: dipende. Perché in realtà il punto è autoritario per chi. Ed è qui che deve entrare in campo la nostra capacità di critica politica, cioè di discernimento di classe. Siamo abituati a pensare a misure draconiane e autoritarie come qualcosa calato dall’alto da un’élite ai danni delle masse; ma come diceva Engels (non sto a dire in polemica con chi altrimenti non ne usciamo più), «una rivoluzione è la cosa più autoritaria che ci sia»: esistono anche misure draconiane che sorgono dal basso ai danni dell’élite, o più modestamente che sono prese dallo Stato capitalista sotto la pressione dell’opinione pubblica plebea e di circostanze inesorabili. Requisire o addirittura espropriare la Sanità privata potrebbe ben essere vissuta e raccontata come una misura autoritaria dai capitalisti “vittime” di requisizioni/espropri. Altro aspetto importante: chi decide, chi ha “il pallino in mano”. Tutta la tradizione che viene dalla Rivoluzione Francese e anche prima ci parla di misure drastiche (simboleggiate dalla ghigliottina) appoggiate dalle masse popolari e talvolta anche discusse collettivamente dal baso con forme di democrazia diretta, consiliare (“sovietica”), sanculotta/operaia.
Ho la sensazione che se teniamo vivo uno spirito critico e ribelle anche durante la fase acuta di questa pandemia non è affatto detto che se ne esca con una specie di fascismo sanitario, ma sia del tutto possibile che si rafforzino invece posizioni a favore di interventi vigorosi sull’assetto della società, che scavalchino i sacri confini della proprietà privata per l’interesse collettivo: reddito, riduzione d’orario, sicurezza sociale, Sanità pubblica, taglio delle spese inutili e nocive come quelle militari, attenzione meticolosa alla salute e all’ambiente, collaborazione tra i popoli, gratuità di merci e servizi utili, mi sembrano tutte idee che possono facilmente diventare più popolari dopo un’esperienza simile. Ovviamente, ci saranno forti pulsioni anche in senso opposto: chiudere i confini, si salvi chi può, militari per le strade e colpevolizzazione degli indecorosi. Però noto che tutto sommato gli interventi repressivi finora si sono concentrati su individui isolati (quello che va a fare jogging e incontra lo sbirro sbagliato) o su una categoria particolarmente “comoda” da reprimere come i detenuti. Come si è visto a Modena con l’arresto di un dirigente SI Cobas, le forze dell’ordine vorrebbero molto ripristinare con la forza l’ordine nelle fabbriche, ma solo in casi sporadici hanno osato farlo; il potere ha dovuto in realtà soprattutto chiedere l’aiuto delle burocrazie sindacali per gettare acqua sul fuoco.
Si apre una fase ancora più turbolenta della storia mondiale: adesso pandemia per chissà quanti mesi e poi forse la più grave recessione della storia. Non diamoci vinti ma cerchiamo di risparmiare ai posteri un altro 2020.
Chi è pronto a dar via le proprie libertà fondamentali per comprarsi briciole di temporanea sicurezza, non merita né la libertà né la sicurezza. — Benjamin Franklin
Per la libertà sono morti a milioni, per il diritto di muoversi senza che nessuno possa chiederti “perché ci vai?”. Questo è l’Occidente libero, non la Cina. Qual è il prezzo della libertà? Per la libertà in tanti – spesso giovanissimi – qui in Occidente hanno dato la vita.
Gli Stati occidentali sono caduti in massa nella trappola cinese. “Siete in grado di fare come noi?” . No, era la risposta giusta. La questione non è se siamo capaci: la questione è che noi non vogliamo fare come voi, noi siamo altro. La nostra libertà vale troppo, non è negoziabile. Questa doveva essere la nostra risposta.
E questo coraggio – il coraggio dei nostri nonni e bisnonni , che per la libertà sono morti – noi non lo abbiamo avuto. Abbiamo negoziato le nostre libertà fondamentali, abbiamo deciso che andava bene dover rispondere alla domanda “perché ci vai?” fatta da una autorità. Abbiamo abdicato all’essere noi stessi.
La nostra natura, la nostra cultura non è il controllo totale verticistico, è il contrario: è la conquista delle libertà personali. Ed è anche la scienza, l’economia , la forza del lavoro inteso come contributo personale alla crescita comune ma posto all’interno di un robusto impianto di libertà personali, che tutelano le nostre scelte. Tutto questo stiamo gettando alle ortiche, in nome del “metodo cinese”…
Da noi lo Stato non governa tutto, non è il deus ex machina che gestice in toto la vita delle persone: lo stato offre importanti servizi al cittadino e ne riceve le tasse per pagare questi servizi. Il resto è libero, intoccabile. Da noi lo Stato non dice quale negozio può stare aperto e quale no: da noi lo Stato prende le tasse e da i servizi, e basta. Quanto è arbitrario il fatto che lo Stato abbia deciso che un negozio di computer può stare aperto e un negozio di fiori no?
Questa volta, colti dalla paura e immemori dei martiri che ci hanno consentito il livello di libertà individuale che abbiamo con il loro sangue versato, al cospetto di questo virus, di questo pericolo sociale, abbiamo deciso che il prezzo da pagare poteva essere l’estremo:abbiamo deciso che siamo disponibili a diventare formiche, anziché uomini. Siamo disponibili a negoziare le nostre libertà fondamentali in cambio di sicurezza, molti sono addirittura così entusiasti da diventare perfetti delatori: “ho visto dalla finestra due troppo vicini! State a casa!”
Ed è questo il sintomo che si sta già cambiando: l’uomo libero è già snaturato in formica, se ne sente persino orgoglioso. La delazione, le sue conseguenze, sono la medaglia che si attende per il suo comportamento perfettamente e diligentemente formichesco…
Di tutto questo abbiamo cupa memoria. Sono i ricordi dei regimi, delle dittature che hanno attraversato l’Occidente in tanti secoli. Sono i ricordi della mancata libertà, della vita come mero ingranaggio di un sistema, di una vita senza valore. Sono le cose che abbiamo combattuto a costo della vita.
E oggi che questo nuovo nemico chiamato Coronavirus ci pone davanti alla scelta “Libertà o sicurezza?” , noi dovremmo rispondere da uomini liberi, non alla cinese. La libertà non è negoziabile. Poi lo sforzo per combatterlo siamo pronti a farlo tutti, siamo pronti anche a morire. Ma non alla cinese: a modo nostro.
“…da noi lo Stato prende le tasse e da i servizi.”
Are you sure?
Vabbè, in teoria. ;)
Mi sembra che da questo intervento emerga chiaramente dove è il punto di scontro con chi in questi giorni ha espresso perplessità su quanto rischiava di emergere da questi post.
“La libertà non è negoziabile”. Tout-court e a prescindere dal costo. Quindi facciamo come Boris Johnson: pur di tutelare la libertà (del sistema capitalistico di girare a pieno regime) accettiamo serenamente 550.000 morti (è quanto ha preventivato l’Imperial College per l’UK).
Questa mi sembra una posizione completamente in conflitto con il paragone con le lotte partigiane: loro rischiavano la vita in prima persona, per portare libertà anche a coloro che non erano fisicamente al loro fianco a rischiare la vita. La posizione “non accettiamo nessuna limitazione della libertà, a nessun costo” è invece diametralmente opposta: basso rischio individuale, sulla pelle delle migliaia di morti.
sono morti a milioni, per il diritto di muoversi senza che nessuno possa chiederti “perché ci vai?”. Mi sembra una banalizzazione. Libertà non è fare quello che ci pare senza porci dei limiti; fin da bambino sono stato convinto che i miei diritti finiscono dove iniziano quelli di un altro. Se questo pensa che io lo stia danneggiando, ha tutti i diritti di chiedermene conto.
lo Stato prende le tasse e da i servizi, e basta. Mi sembra un visione limitante (e liberista); ad esempio per me dovrebbe avere un compito fondamentale: la redistribuzione della ricchezza. Ci sono poi diverse espressioni che mi lasciano perplesso, chiedo scusa se faccio le pulci al testo: “libertà personali” (non collettive?), “siamo uomini o formiche”, “questo è l’Occidente libero, non la Cina”…
Non si tratta di metodo “cinese”: il distanziamento sociale è l’unica misura efficace in questo momento. Peraltro, proprio in Cina stanno dimostrando che funziona. Ci sono alternative? Si cita il modello Coreano, ma 1) non sembra sostenibile qui (non sembrano esserci i mezzi per effettuare tamponi a tappeto, per quanto utile, non sembra che si sia in grado di ricostruire i contatti con la stessa efficacia) 2) sarei poi curioso di sapere quante limitazioni di libertà comporta a sua volta un modello di controllo orwelliano tramite una tecnologia che traccia e archivia tutti gli spostamenti.
Io continuo a citare Davide Grasso: Se chi si considera “antagonista” al capitalismo o “radicale” nella sua critica si concepisse sul serio come progetto di trasformazione avrebbe preso autonomamente e in anticipo rispetto al governo la decisione di limitare i possibili focolai di trasmissione.
Capisco l’osservazione per cui se una persona va a spasso al parco da sola, non corre particolari rischi né ne provoca ad altri. Però se lo facessero tutti simultaneamente, mantenere distanze di sicurezza sarebbe impossibile. Come si esce da questa empasse molto pratica? Mi piacerebbe vedere delle proposte concrete.
Quale potrebbe mai essere il “modo nostro” di fare uno sforzo per combattere il coronavirus? (vedo molte giuste critiche ai provvedimenti adottati, ma non ho ancora visto proposte alternative praticabili). Per me l’utopia sarebbe un mondo in cui la consapevolezza e la solidarietà fossero così diffuse che non ci dovrebbe essere bisogno di interventi restrittivi del governo perché tutti noi auto-limiteremmo i nostri stessi comportamenti. Non solo utopistico: non fattibile, visto che l’iniziativa individuale può arrivare solo a determinate misure e non ad altre. E poi scusate se non ho fiducia nella capacità di autoregolarsi di chi chiama il coronavirus “boomer remover” (tanto per fare un esempio a caso). Per questo inorridisco quando leggo auspici vuotamente ribellistici che la gente perda la pazienza: un disastro sanitario invocato sperando di ottenere cosa in cambio? non basta una folla inferocita (o peggio: solo insofferente) a fare una rivoluzione; e poi magari si scopre che l’arancione non ci va a genio.
Tra l’altro, a proposito dei sacrosanti scioperi di questi giorni: non mi sembra che chiedano più libertà per poter fare una passeggiata al parco, ma maggiori garanzie di sicurezza sul lavoro. In primis quelle “mascherine” che dovrebbero servire solo a proteggere gli altri… ma evidentemente i lavoratori pensano possano essere utili anche in senso inverso (e secondo me non hanno torto, altrimenti non si spiegherebbe perché sono consigliate alle categorie a rischio perché più a contatto con il pubblico -lasciando stare ovviamente il personale medico che ha altri rischi e infatti necessita di ancor più protezioni).
Per non fare mille commenti, rispondo quindi qui out-of-order @Wu Ming 2
Per caso si è scoperto che il virus rimane in sospensione nell’atmosfera, come le polveri sottili?
Come sempre le certezze sono poche e provvisorie, ma personalmente, foss’anche “solo” per principio di precauzione, risponderei di sì (vedi link sotto). Il virus parrebbe rimanere potenzialmente “attivo” in aerosol per 3 ore, rendendo plausibile la trasmissione in questo modo (a livello di rischio individuale; a livello statistico in termini di diffusione dell’epidemia è probabile che si tratti di un contributo ridotto). Analogamente alla questione polveri sottili, potenzialmente può anche essere “risollevato” una volta depositato. Se le “goccioline” si depositano in pochi secondi, gli aerosol invece impiegano diverse ore.
https://www.scienzainrete.it/articolo/aprire-le-finestre-tempi-di-coronavirus/floriano-bonifazi-francesco-forastiere/2020-03-12
https://www.medrxiv.org/content/10.1101/2020.03.09.20033217v1.full.pdf
I knew it.
Quando ho visto quel commento, ho pensato: «È quello a cui talpa si appiglierà per usarlo come straw man».
E infatti.
«Capisco l’osservazione per cui se una persona va a spasso al parco da sola, non corre particolari rischi né ne provoca ad altri. Però se lo facessero tutti simultaneamente, mantenere distanze di sicurezza sarebbe impossibile» ha la stessa pregnanza logica di questa delirante iniziativa del 2006, il «world jump day»: https://es.wikipedia.org/wiki/World_Jump_Day
No, per carità, no…
Scusa Talpa ma mi pare che l’articolo che linki si riferisca agli spazi chiusi, mentre WM2 parlava di passeggiate e corsettine no?
L’articolo di Scienza in rete, infatti, non si occupa della permanenza e pericolosità del virus in spazi aperti. Dice invece che gli spazi chiusi vanno ventilati, e ventilati naturalmente, cioè aprendo finestre e porte per far entrare l’aria da fuori; dice che gli studi fatti su PM10 e altre polveri sottili non sono molto utili proprio perché riguardano spazi aperti; infine, dice che i tentativi di “sanificare” gli spazi aperti (strade, prati ecc.) sono inutili e dannosi.
Il paper di cui al secondo link parla della sopravvivenza di un coronavirus in aerosol e sulle superfici, ma con espliciti e ripetuti riferimenti a spazi chiusi, infatti si occupa di capire come avvenga la «nosocomial transmission», analizzando «surfaces and objects in healthcare settings».
Però, Rob, lascia perdere, questo è parte del suo procedimento: isolare una nostra frase, toglierla dal contesto (oppure allargare/restringere quest’ultimo alla bisogna), riferire la frase a qualcos’altro, e rispondere su quel qualcos’altro, spesso linkando un testo, che però se vai a vedere non smonta quel che hai scritto tu né conferma quel che sta dicendo lui.
In realtà non scrive cose in sé false, semplicemente non sono quasi mai pertinenti, la maggior parte delle volte sono su un altro piano del discorso, dentro un altro frame. Questo quando ha almeno lo scrupolo di partire da frasi nostre, perché a volte critica noi partendo da frasi altrui e usandole come straw-man arguments. Spesso chiudendo con domande retoriche, frecciate ecc.
Tu scrivi che la sanità privata andrebbe nazionalizzata? Lui ti risponde: «Capocci sul “Manifesto” ha spiegato che i reparti privati di terapia intensiva sono già stati messi a disposizione e in ogni caso non sono tanti»; tu ti chiederai: ma che c’entra?! Niente, l’importante è fare un’obiezione, far balenare il dubbio che non sappiamo di che parliamo.
Dopo un po’, uno si stanca di rispondere, di chiarire, di precisare, anche perché lascia commenti-lenzuolata interamente basati su questo modo sviante di procedere.
Ora non ti lamentare se poi rispondo con polemiche sul personale. Se faccio cento commenti brevi non va bene, se faccio commenti lenzuolata sono troppo lunghi. Cose da dire ne avrei ancora di più. Mi sembra che più che altro non sopportiate il dissenso. Poi non fate i piagnoni con “chissà quanti lettori perderemo”… io non smetterei di leggervi perché su altri argomenti dite cose sensate (oltre che i libri sono un caso ancora a parte). E perché comunque mi interessa seguire il dibattito. Qua però più che passare la voglia di rispondere non ho MAI visto risposte nel merito.
Ho addirittura un “procedimento”! il commento sulla mascherine era a valle di un lungo discorso, casomai siete voi che state usando quello come pretesto per non affrontare il resto; se non avessi voluto rischiare la critica non lo avrei linkato, mi sembrava interessante e rilevante NONOSTANTE quanto avete notato (e che ovviamente non mi era sfuggito). Se il post era particolarmente facile da usare come straw man, avreste potuto rispondere voi: uno non avrebbe avuto il sospetto che concordaste… altrimenti sembra che si risponda appunto a chi non concorda con voi, ma se invece vi da ragione, va bene tutto.
In che modo sarebbe fuori luogo citare il manifesto sulla sanità privata ad esempio? al contrario è significativo del fatto che state facendo analisi della realtà slegata da quello che la realtà invece è (così non faccio balenare dubbi e lo affermo esplicitamente). Sono a favore della sanità pubblica. Nel caso in esame non cambia una mazza. Guarda caso c’era anche la frase in cui si diceva “nessun sistema sanitario al mondo potrebbe reggere”.
Sempre sul manifesto oggi c’è un intervista al vicepresidente della Federazione nazionale degli Ordini dei medici che dice “Le misure sono stringenti per quanto riguarda la libertà personale, ma sono assolutamente dovute. (…) le misure di contenimento generalizzate – addirittura si è parlato di coprifuoco se non venissero rispettate – siano le uniche armi che abbiamo”.
La mia idea, così la esplicito una buona volta, è che la critica principale che si può fare al Governo è di non aver agito tempestivamente. Sotto pressione da parte di quelli che una volta si chiamavano nemici di classe (produzione ad ogni costo). E perché gli italiani non avrebbero capito. Sono favorevolissimo a tutte le critiche ai provvedimenti emergenziali che vadano a tutela della salute e di sostegno al reddito. Non sono favorevole a critiche che offrano la sponda a bamboccioni che vogliono giocare a fare i ribelli perché tanto crepano solo i vecchi. Ho detto fin da subito che non pensavo che questa fosse la vostra posizione, ma che così offrivate pezze d’appoggio in quel senso. Il famigerato “straw man” di cui sopra me n’è semplicemente parsa la dimostrazione.
Ad maiora
Bah. Siamo a tal punto intolleranti del “dissenso” che ti lasciamo imperversare qui da settimane.
Come quelli che sono sempre in tv a dire che non li fanno parlare.
«Capisco l’osservazione per cui se una persona va a spasso al parco da sola, non corre particolari rischi né ne provoca ad altri. Però se lo facessero tutti simultaneamente, mantenere distanze di sicurezza sarebbe impossibile. Come si esce da questa empasse molto pratica?»
Non facendolo tutti simultaneamente.
«In primis quelle “mascherine” che dovrebbero servire solo a proteggere gli altri… ma evidentemente i lavoratori pensano possano essere utili anche in senso inverso»
Non so cosa pensa ogni singolo lavoratore né quanto sia l’efficacia anche protettiva per me stesso dei vari modelli, ma il punto è che se chiedo di avere tutti quanti la mascherina in fabbrica ottengo che gli altri non mi infettino e che il mio posto di lavoro non diventi un focolaio, cosa che invece sta succedendo.
Questa è la descrizione del mondo di Mad Max. No, grazie.
Esercito nelle strade. Si comincia da Trieste.
“Coronavirus e sicurezza, 100 militari assegnati a Trieste per controllare il confine e pattugliare le strade” https://ilpiccolo.gelocal.it/trieste/2020/03/17/news/coronavirus-e-sicurezza-100-militari-assegnati-a-trieste-per-controllare-il-confine-e-pattugliare-le-strade-1.38604224
Sui profili fb di Como l’altro giorno giravano interi servizi fotografici di persone (per lo più anziani) che giravano, da soli ovviamente, per il centro, accompagnati dalle tirate del fotografo (lui, chiaro, in giro “solo per cinque minuti per una roba importantissima”). Con strumenti di delazione tipo questi social non c’è nemmeno bisogno dei droni. E se in tempi diversi un minimo di dato di realtà lo si otteneva /uscendo/, ora fb per molta gente è semplicemente il mondo. Ci sta anche sfuggendo di mano questa metafora del “sito” internet come spazio. L’odioso Microsoft Teams con cui mi hanno imposto di lavorare non è l’università. Ma ora se provo a uscire a far due passi ho una pattuglia sotto casa che mi costringe a “tornare al lavoro”, che non vuol dire solo rientrare in casa, vuol dire /entrare/ sulla piattaforma di Bill Gates. Giap è un’oasi in questo periodo anche perché sia i post che i commenti sono testi che rimandano a qualcosa, non dei garbugli paranoici autoreferenziali.
Secondo me invece al 3 aprile non ci arriviamo, nel senso che le misure saranno allentate prima. Quella data – azzardo – è stata data per non “stressare” troppo i destinatari perché se dicevano il 21 magari poi dovevano prolungare e stessa cosa il 28. Naturalmente non ho certezze di nessun tipo ma intanto la curva degli incrementi – che secondo me è quella da tenere sotto controllo – si sta sostanzialmente appiattendo e da ieri in poi dovrebbe decrescere. Questo, combinato con l’aumento dei posti in terapia intensiva, e con l’isolamento dovrebbe essere sufficiente a rendere il fenomeno controllabile. Non sto dicendo che è finito tutto, perché anche sotto controllo i disagi saranno enormi – tra le cose che si possono immaginare c’è il trasferimento di pazienti da una città all’altra, per via dello “sfasamento” dei contagiati – ma se si leggono i vari esperti ragionevoli, che fra l’altro sono ache i più dubbiosi sull’inferno che si è scatenato, mi pare si possa intravedere un certo ottimismo, o almeno questa è la mia impressione.
Rispondo a due domande poste in alto non ricordo da chi perché al di là del rumore dell’enorme numero di informazioni senza senso mi pare che siano state assodate:
1. rimane che la vera profilassi è la distanza di 1,5 m e lavarsi le mani in continuazione; se lo fai è IMPOSSIBILE che tu ti prenda il virus, o se preferisci hai le stesse probabilità di prendertele che hai di segnare nella finale di champions league senza chiamarti Ronaldo;
2. la questione del tasso di letalità è abbastanza chiara e tra le ipotesi è già stata ricordata anche qui: dipende dal numero dei tamponi. Nessun mistero particolare insomma, solo che un tampone costa circa 300€ e quindi si tende a farlo a individui per cui è vitale sapere se hanno o no il virus. Anche sulla questione del campionamento c’è abbastanza concordanza, solo che c’è il problema del costo.
Tutto questo porta a concludere una cosa che qui si conosce bene e fuori da qui invece no, purtroppo: stiamo parlando di scelte politiche. Esistono contagi più gravi, situazioni più gravi, del corona virus. Questo, che palle però doverlo ricordare sempre, non significa che il corona virus non sia grave. Si rompe tanto perché tocca a noi, mica a quei poveracci dei barconi o a quegli sporcaccioni dell’AIDS (elenco che può continuare abbastanza a lungo)
Scusa, ma il punto 1) secondo me è fuorviante. Rimane all’interno del nostro problema più grande, ovvero l’illusione del controllo. In realtà anche i medici e paramedici che lavorano scafandrati da capo a piedi con mille precauzioni si stanno contagiando in massa, non vi è alcuna certezza che le misure di distanziamento sociale siano davvero completamente efficaci: il virus è altamente contagioso, al punto che potrebbe resistere nell’aria, dentro all’aerosol volatile che si forma per mille motivi in qualsiasi ambiente, anche diverse ore. Non c’è alcuna certezza, dobbiamo accettare il fatto che deve morire gente. Dobbiamo accettare il fatto che in piena emergenza sanitaria può essere difficile dare assistenza adeguata a tutti, quindi l’unica cosa davvero sensata da fare (e dovevamo farla già un mese fa) è potenziare al massimo i reparti ospedalieri necessari alla cura e spingere al massimo la ricerca di farmaci che possano almeno consentire di fare il decorso a casa e non in ospedale per un numero più alto di pazienti. Le misure di distanziamento sociale sono illiberali, pericolose per la pace sociale, e costosissime in termini economici. Non facciamoci prendere in giro dalle dichiarazioni di governi e banche centrali: è vero che adesso i soldi ci sono, ci sono soldi a fiumi per tamponare il danno economico (spaventoso: si sta bloccando l’80% e oltre dell’intera economia). I soldi arrivano, sono disponibili perché lo Stato può liberamente fare debito , che viene comprato dalle banche centrali, quindi si aumenta la massa monetaria. Quando l’emergenza sarà finita la nuova massa monetaria prodotta andrà a sommarsi a quella esistente prima della crisi (adesso sembra non ci siano più soldi in giro, perché tutto è fermo, ma i soldi ci sono sempre, solo che adesso non circolano). L’aumento del circolante creerà inflazione, e come da tradizione mai tradita l’inflazione abbassa il potere d’acquisto dei salari dei lavoratori di basso livello (che vengono subito bloccati per non alimentare circolo vizioso dell’inflazione stessa). Quindi, alla fine i costi della crisi non li pagano le banche centrali, li pagano i lavoratori, vengono spalmati negli anni successivi, sotto forma di perdita di potere d’acquisto dei salari. E per pagare i costi dell’accresciuto debito lo stato finirà per tagliare servizi pubblici, compresa la sanità pubblica, mentre i privati – grazie alla nuova massa circolante e alla nuova paura collettiva – investiranno in sanità privata… Ecco che i poveri si troveranno a morire di patologie banali che oggi si curano benissimo, ad esempio. Questo è il rischio che corriamo, questo è il dilemma di oggi: affrontare il virus a viso a aperto oggi, o pagarlo molto più caro domani?
Paul, semplicemente quello che dici sul punto 1 è (pare che sia) possibile ma non probabile. Anzi, è altamente improbabile, a sentire appunto i virologi. Che giustamente però mettono le mani avanti, perché magari dici che una cosa è improbabile, poi avviene e alllora buonanotte ai suonatori. Allo stato non c’è nessuna prova che il virus possa resistere nell’aria, anzi il suo “potere di contagio” pare si esaurisca rapidamente, una volta caduto a terra (o su una superficie). Su questo – per quello che ho letto io almeno – mi pare ci sia concordanza, però se hai pareri differenti mi farebbe piacere leggerli (link o altro) perché naturalmente qualcosa può essermi sfuggita.
Sul resto rimanderei, anche se mi pare che preoccuparsi dell’inflazione quando è così bassa…
Il virus è nuovo, nessuno ha vere certezze. Ma c’è un fatto: in campo imprenditoriale c’è questo proverbio: “Ci sono due modi per far fallire sicuramente un’azienda: il primo è sputtanarsi tutto in donne e gioco d’azzardo. Il secondo è fare pedissequamente quello che consigliano i tecnici”.
Vale anche per gli Stati. I tecnici sono tecnici, hanno già poca visione complessiva i medici generici, figuriamoci i virologi, che sono topi da laboratorio. La politica dovrebbe mediare le varie opinioni, soppesare gli effetti economico-sociali, l’effettivo costo-beneficio, e poi agire di conseguenza in modo saggio e lungimirante. Questo non possono farlo i tecnici. Quanto all’inflazione, non è un problema di attualità, ovviamente, ma due più due fa sempre quattro, e una buona politica non bada solo all’emergenza ma ha una visione ampia, che investe un orizzonte temporale di 20-25 anni almeno…
La mia opinione è quella di non essere governato da uomini di Stato, ma da ometti di poco valore e scarsissimo coraggio, che affrontano le cose col fiato corto dei vigliacchi.
“…nessuno ha vere certezze”
Questo non e` esatto: non sono un esperto (quindi se dico cose sbagliate qualcuno mi corregga) pero` , avendo due genitori anziani, ho cercato informazioni e` ho imparato, per esempio, che siamo di fronte a un RNA virus: questa e` una prima certezza. Seconda certezza e` che le mutazioni in questo tipo di virus avvengono per anitgenic drift o shift (deriva o spostamento antigenici). Se non ho capito male, quindi, potremmo ritrovarci l’anno prossimo con lo stesso problema, anche se nel frattempo si e` approvato un vaccino per la versione 19 del COVID. Non e` questo l’unico scenario possibile, pero` e` probabile. Insomma, roba complessa, che ha a che fare con la genetica, che pero` andrebbe diffusa a scopo informativo in modo da rendere possibile una migliore comprensione del problema e una lucida discussione sul come affrontarlo. Quindi, per ritornare al topic iniziale di questo post, partendo da me e pensando a mia madre e mio padre, ottantenni ed alla loro condizione in questa crisi, mi sento di dover ringraziare persone come Wolf per spunti importanti come questo:
“E ancora: esiste uno spazio per i saperi specialistici che siano non solo quelli del virologo ma anche quelli della salute pubblica complessiva, dello psicologo, forse anche del cardiologo (che conseguenza avrà la riduzione dell’attività motoria sugli anziani a cui è stata messa addosso la paura persino della passeggiata solitaria, considerando anche che l’anziano faticherà a riprendere l’abitudine perduta?). No, la risposta è no.”
Grazie. E sul punto sollevato qui sopra sul «perché si contagiano molti operatori sanitari», pare che sia per la mancanza di dispositivi di protezione individuale adeguati, o almeno la presenza non uniforme di tali DPI sul territorio nazionale, non per una straordinaria resistenza del virus.
Confermo. In Sardegna, a fronte di un contagio tutto sommato limitato, il dato allarmante è proprio quello relativo al contagio endo-ospedaliero. La metà dei casi riguarda personale che lavora nei nosocomi. La causa è la pressoché totale assenza di DPI adeguati. Praticamente uno dei modi più sicuri per non essere contagiati è restare lontani dagli ospedali.
https://mobile.reuters.com/article/amp/idUSKBN2143QP?__twitter_impression=true
Aggiungo il mio punto di vista sulla questione mascherine: da quello che ho capito, l’uso delle mascherine serve in realtà a proteggere le persone intorno a noi nel momento in cui siamo già malati ma asintomatici, e quindi potenzialmente involontari “untori”.
Mi chiedo in quanti sappiano che la mascherina non serva come dispositivo di protezione individuale in questo caso, ma alla reversa. Ed è il motivo per cui alcuni sostengono che se la indossassimo tutti, il contagio sarebbe molto ridotto.
Sono una persona comune, e il mio vissuto personale e soggettivo in questi giorni è: Quando vedo gli anziani passeggiare penso che debbano e possano godersi una bella giornata di sole, ma penso anche che si stiano esponendo molto. Vedendo chi fa jogging sudare e respirare a pieni polmoni su un marciapiede dove potrebbero incrociare chiunque a ogni angolo, non riesco a non pensare che siano sciocchi a correre dove stanno tutti gli altri. Credo che se c’è un campetto da calcio/basket accessibile, non ci vada solo il padre con il figlio, ma tutto il vicinato. Dico tutto questo avendo ben presente la differenza tra Memoria e Storia, tra episodio e quadro generale. E il quadro generale è molto deludente da quando è iniziata la questione CoVid.
In generale credo che il solco sia ben scavato e bello profondo da un pezzo, da italiano e europeista non credo che sia questo l’episodio a partire da cui tutto cambierà, ma è solo l’ennesima dimostrazione che le cose che non esistono poi fanno fatica a funzionare.
Grazie del vostro lavoro.
All’interno di un luogo chiuso, con un elevata percentuale di persone affette come un ospedale, la mascherina, soprattutto se con filtro, diventa un dispositivo di protezione individuale.
Io continuo a pensare al ruolo che l’istituzione medica riveste all’interno della società industriale, in quanto pratica determinante di governamentalità sui soggetti governati… Negli ultimi 30 anni si è disinvestito dal sistema sanitario pubblico, è vero, ma questa mi suona come affermazione apodittica ed autoevidente. Sottintende molte cose. Ad esempio, il fatto che si debba stornare il denaro pubblico dalle istituzioni che sono il “nocciolo duro” dello Stato (esercito, sistema carcerario, apparato repressivo, ecc) a favore delle istituzioni “buone” (scuola, strade, ospedali). Io sono un insegnante, e magari potessi fare educazione senza l’istituzione-scuola tra le balle. Educazione non vuol dire scuola. Salute non vuol dire ospedale. Mao (mi tocca citarlo, non sono maoista) chiuse le facoltà di medicina per cinque anni e istituì i “medici scalzi” non professionalizzati tra i contadini. Il sistema sanitario imposto negli anni 70 in America latina ha sganasciato le comunità tradizionali. Sviluppare tecniche mediche avanzate per curare ferite di guerra non è progresso della pratica medica, lo sarebbe l’astenersi dal fare la guerra. Un’ipertrofia medico-sanitaria per rispondere a contagi che, in ultima analisi, derivano da crisi ambientali e sterminio di biodiversità mi sembra distopia. Il fatto che “medicalizzazione = bene”, anche questo è un “fatto”, un datum.
Secondo quanto ipotizza la rivista Chuang, alla radice dell’espansione del virus c’è anche la devastazione e privatizzazione del sistema sanitario cinese:
«In tali condizioni di massiccio disinvestimento pubblico dal sistema sanitario, non sorprende che il COVID-19 abbia preso piede così facilmente. In combinazione con il fatto che nuove malattie trasmissibili emergono in Cina al ritmo di una ogni 1-2 anni, sembrano sussistere le condizioni affinché tali epidemie continuino. Come nel caso dell’influenza spagnola, le condizioni generalmente degradate della sanità pubblica per la popolazione proletaria hanno permesso che il virus prendesse piede e, da lì, si diffondesse rapidamente»
Testo completo qui https://www.infoaut.org/global-crisis/contagio-sociale-guerra-di-classe-micro-biologica-in-cina
Grazie Wolf per avermelo segnalato. L’articolo è interessante e l’ho letto, per ora, solo a spizzichi. Interessanti i passaggi in cui si parla della sanità pubblica dell’era maoista largamente coadiuvata dai famosi medici scalzi. Gli autori ne parlano come di quella “sanità pubblica” che è stata smantellata a partire dagli anni ’80. Ma la sanità cinese di origine rivoluzionaria e matrice socialista è profondamente differente da ciò che a noi italiani scatta nella testa in modo preconcetto quando si parla di “sanità pubblica”. In quanto a quest’ultima, a me interessa chiedermi: perché storicamente è nata, e a quale scopo? In che modo rispecchia e rafforza il nostro ordinamento sociale? Che cosa rivela di noi stessi? E soprattutto, che cosa ci aspettiamo da essa? Forse una lotta da perpetuarsi ad libitum contro la morte a favore della mera sopravvivenza corporea? (Trovo spunti interessantissimi nei commenti subito qui sotto sul tema della morte, sul fatto che viviamo in una società tanatofobica). Ad ogni modo, mi suona più penetrante un’analisi che faccia risalire l’origine del coronavirus alla perdita di biodiversità (https://www.lanuovaecologia.it/coronavirus-perdita-biodiversita-report-wwf/), la sua diffusione alle vie aperte dal commercio globale e la sua gravità alle condizioni preesistenti (le regioni di Wuhan e della Pianura Padana sono tra le più inquinate al mondo) che non all’efficienza maggiore o minore del sistema sanitario. Allo stesso modo l’influenza spagnola è nata nel contesto del primo macello mondiale (povertà, carestia, guerra) e si è diffusa grazie alle vie aperte dal conflitto (mobilitazione per mezzo di eserciti di milioni di persone). E’ un peccato che la sinistra radicale abbia smesso di ragionare su concetti cardinali quali descolarizzazione e demedicalizzazione; oggi ci tornerebbero utili. Perdona se ho deviato dal focus del tuo articolo, che ho trovato illuminante.
Il Sistema Sanitario Nazionale fu il risultato di un ciclo di lotte estese e radicali, di una stagione di conflitto sociale, lotta di classe dal basso verso l’alto esplosa in un paese, l’Italia, che all’epoca era un vero laboratorio di pratiche rivoluzionarie. La spinta che impose il SSN teneva insieme vertenze e inchieste operaie sulle nocività nelle fabbriche, lotte femministe, sommosse del pensiero e della prassi che avevano luogo nel mondo stesso della medicina e più in generale della scienza. Lo ricorda molto bene Chiara Giorgi in un pezzo che ho già linkato in un altro thread.
http://www.euronomade.info/?p=13126
Le cose che dici sulla medicalizzazione sono fondate, ma è un altro piano del discorso, che non interferisce con la lotta per un servizio sanitario universale e gratuito. Infatti negli anni Settanta critiche all’istituzione medica e lotta per il diritto alla salute andavano di pari passo ed erano portate avanti dagli stessi soggetti, a volte proprio dalle stesse persone, come Basaglia, per dire il nome più famoso. Ho poi l’impressione che la vera ipermedicalizzazione sia avvenuta non con l’istituzione del SSN ma grazie agli attacchi che il SSN ha subito, in parallelo con l’aziendalizzazione della sanità pubblica in direzione di un sistema sanitario compiutamente neoliberale.
A proposito del rapporto tra virus e polveri sottili, così titola un articolo di Rainews di ieri (non lo linko ma è comunque facilmente reperibile se interessa): Coronavirus, ricerca medici ambientali: “Polveri sottili accelerano diffusione virus” “Esiste una relazione tra i superamenti dei limiti di legge delle concentrazioni di PM10 registrati nel periodo dal 10 al 29 febbraio e il numero di casi infetti da COVID-19” sostengono i ricercatori della Società Italiana di Medicina Ambientale (SIMA) che hanno analizzato i dati in collaborazione con le Università degli studi di Bari e di Bologna
Oggi sono uscito per buttare l’immondizia e sono passato in Piazza dell’Unità a Bologna.C’eravamo io che l’attraversavo con calma, due ragazze sedute a parlare tra loro su una panchina, un ragazzo che giocava da solo a basket, un uomo che stava steso a dormire su una delle panche di marmo al centro della piazza.
Arrivato al centro della piazza, al centro del campetto, ho notato un’auto della municipale. Dalla vettura sono scesi un uomo in divisa e un uomo in borghese. L’uomo in borghese, come primo atto appena sceso dall’auto, si è fiondato sul ragazzo che giocava a basket e gli ha detto che lui là non poteva stare a giocare perché è vietato usare le attrezzature sportive (anche in Piazza dell’Unità?). L’uomo in divisa invece si è avvicinato all’uomo steso a riposare e gli ha detto che non poteva stare là perché vietato.
In tutto questo io non sono stato minimamente considerato (eppure ero là, a 5 metri neanche da tutto ciò); inoltre, non so se poi i due della municipale si siano fiondati anche dalle due ragazze, perché nel frattempo mi sono allontanato (e, con il sennò di poi, mi dispiace non essere rimasto a vedere il resto).
Devo dire che tutto questo mi ha turbato molto. Da martedì scorso oggi è stata la prima volta che sono uscito perché, da insegnante, lavoro da casa adesso (al supermercato è andata la mia compagna): mi è parso di stare in un romanzo distopico, anche se solo per due minuti.
Tutto questo inoltre è successo appena dopo aver letto questo articolo, per una pura coincidenza.
C’è un problema grosso e Wolf lo ha descritto con grandissima lucidità.
Non direi «pura coincidenza». Stiamo vivendo in una sorta di simultaneità; la realtà sociale è ridotta a poche scene fisse, ormai stantie, nauseabonde. Il PC, l’autocertificazione, la passeggiatina, meglio se con la scusa della spesa. Ma il copione, sfogliato mille volte, si sta usurando velocemente.
Inquietanti spunti di riflessione dall’articolo di Roberto Ciccarelli sul Manifesto:
“Le chiusure dei confini, l’interruzione delle catene globali di approvvigionamento, il blocco progressivo e velocissimo delle attività economiche e sociali («lock down») disposto dalle direttive governative per il contrasto della diffusione del «Coronavirus» stanno creando un’«economia di guerra» ha detto ieri il presidente dell’Eurogruppo Mario Centeno. Tanto più diventano stretti i criteri dell’emergenza, tanto più si crea una crisi verticale dell’offerta che, a sua volta, prosciuga la domanda e, in tempi non troppo lunghi, si rischia di innescare una reazione a catena che può portare a una restrizione dell’offerta di credito da parte delle banche nei confronti di famiglie e imprese. Il crollo dei circuiti che innervano il capitalismo globale potrebbe essere un altro effetto di quella che ieri i capi di stato che si sono riuniti in una videoconferenza nel «G7» hanno definito una «tragedia mondiale dell’umanità e una crisi sanitaria globale». Da qui l’insistenza dei governi, della Commissione Ue e delle banche centrali (dalla Bce, a parte le gaffe di Christine Lagarde, alla Fed ) di garantire una liquidità a un’economia che rischia di averne sempre di meno, subito, ad ogni costo («whatever it takes»), per il periodo ancora indefinito di una crisi lunga e incerta.
LA METAFORA DELA GUERRA circola dappertutto in questi giorni, alimenta il discorso pubblico e mediatico. Non indica una guerra contro un nemico “umano”, ma contro una “minaccia” che interrompe il normale corso di una vita identificato con il “progresso”, la “crescita”, la realtà identificata con il capitalismo che oggi scopre dentro di sé un’anomalia che ha inceppato la sua corsa. La metafora della guerra, sanitaria e non militare, affermata con forza ieri anche da Macron, serve inoltre a rinserrare la popolazione nelle file di un esercito immaginario schierato contro una presenza inquietante che, in realtà, si trasmette da essere umano a essere umano. Questo uso di un concetto emblematico può favorire cortocircuiti di ogni tipo, a cominciare da una radicale immunizzazione dalle relazioni per un tempo indefinito e con il rischio di conseguenze auto-distruttive. La guerra economica potrebbe anche portare a un’economia della sopravvivenza, una volta riscontrata l’inutilità dei tentativi di riavviare la macchina a lungo termine. Per il momento ha portato alla sospensione della riforma delle pensioni e dell’università in Francia osteggiate da un movimento di massa e alla progressiva e disordinata chiusura dei confini interni ed esterni agli Stati colpiti dalla pandemia.”
Cari Wu Ming,
siamo con voi sull’analisi della situazione. In questo momento di annichilimento del senso critico financo nella sua potenza crediamo sia preziosa questa breccia che state tenendo aperta in mezzo al dispiegarsi di questo “spettacolare” stato di polizia medico-tecnocratico accompagnato da un accelerazione del mutamento antropologico hi-tech già in atto e da una probabile ridefinizione degli assetti geopolitici.
Come sapevamo l’eterno fascismo italiano era lì pronto sotto al tappeto in mezzo alla polvere a manifestarsi in tutta la sua virulenza e capillarità. Tutti i vecchi rodati meccanismi in una settimana sola di stato d’eccezione alla seconda si sono destati senza censure: abusi di potere, conformismo, delazioni, dominazione attraverso il terrore, propaganda che diventa realtà, paura di disobbedire, autoritarismo, militarizzazione del territorio.
Crediamo sia importante, come state facendo, spostare il discorso da un piano tecnico-medico ad uno politico. I dati per ridimensionare l’emergenza strettamente sanitaria ci sono, ma il fattore emotivo montato ad arte dalla propaganda impedisce a molte di vederli.
Dunque è bene, crediamo, continuare a martellare sulla sospensione delle più elementari delle garanzie costituzionali, prima fra tutte quella di movimento, auspicando che prima o poi la pentola a pressione esploda.
Strategicamente si potrebbe pensare a due strade:
1- far partire una raccolta firme su base nazionale per la requisizione da parte dello Stato delle cliniche private. Anche se velleitaria potrebbe avere un forte effetto e una larga adesione.
2- iniziare a preparare, in caso di proroga degli arresti domiciliari, dei veri “flash mob” diffusi su tutto il territorio in cui a rivelarsi, a distanza di legge, saranno i nostri corpi clandestini e untori
3- in caso di breve ritorno alla “normalità” non farci sopraffare dalla retorica dell’uniti ce l’abbiamo fatta e dall’atmosfera festante da dopoguerra che ci sarà nelle strade
In ogni caso restiamo lucidi e restiamo umani.
Grazie ancora!
Bianca Bonavita
sarei il primo firmatario e intitolerei la campagna “La Salute con fattura o senza”…
Quando tutta questa storia ha avuto inizio, anzi, precisamente il giorno prima dell’inizio di questa storia, uscì un pezzo di Bifo ( https://not.neroeditions.com/pensare-gli-anni-venti/ ) che si concludeva con un invito a tener conto dell’eventualità che durante il nuovo decennio l’umanità potrebbe estinguersi:
“L’etica moderna si volle propedeutica al vivere bene. Ora occorre tornare a concepire l’etica come propedeutica al morire bene. Non (solo) nel senso stoico del meditare individualmente sulla morte degna, ma anche nel senso di elaborare una coscienza collettiva dell’orizzonte di estinzione della civiltà umana.”
Queste parole mi frullano in mente da quando è iniziata questa quarantena. Più in particolare mi viene da collegarle con l’accettazione acritica della stragrande maggioranza della popolazione, alle misure di “contenimento” del virus imposte (o consigliate, ancora non s’è capito) dal governo.
Al di là della dimensione politica della faccenda, sicuramente preponderante e che influenza tutto il resto, esiste anche la “sovrastruttura” psichica, cioè in che modo gli individui si rapportano a questa epidemia, e dell’immaginario collettivo che ne viene fuori. L’agire delle persone in questi giorni (penso specificamente a persone che si considerano perlomeno orientate a “sinistra” e che non stanno battendo ciglio di fronte al dilagare della delazione e ad una sospensione dei diritti civili che avrebbe reso invidioso JunioValerio Borghese) – l’agire delle persone, dicevo, mi sembra condizionato eccessivamente dalla paura di morire, o meglio, dal fatto che la nostra epoca abbia uno sporadico rapporto con la morte, sicuramente un privilegio dei nostri tempi (e dei nostri luoghi, perchè in altre parti del mondo il rapporto rimane frequente anche oggigiorno). Ovvio che la paura di morire sia innata nell’essere umano in quanto essere cosciente, ma a questo si aggiunge il fatto che ci siamo disabituati alle elaborazioni dei lutti. Non siamo pronti a morire (nonostante le teste d’uovo che lo cantano dai balconi), stimiamo troppo importante la nostra vita in confronto a tutto il resto, che alla fine accettiamo di tutto pur di non morire (basta che sembri efficace); reputiamo “non conveniente” mettere in gioco le nostre vite per un loro miglioramento qualitativo; ci attacchiamo con le unghie a questo simulacro di vita ogni volta che qualcosa di esterno la minaccia.
Questo potrebbe spiegare in parte anche le difficoltà di radicalizzazione che sta vivendo il movimento di contestazione in Italia negli ultimi vent’anni: c’è un grande rimosso che non è mai stato veramente elaborato, l’assassinio di Carlo Giuliani e le violenze di Genova 2001, che seguivano un altro grande rimosso, la lotta armata e gli anni settanta. Si potrebbero inquadrare queste difficoltà come disturbi da stress post-traumatico. Ma forse sto esagerando.
Queste considerazioni non hanno nessun intento provocatorio, sono sinceramente convinto che un discorso collettivo che affronti l’accettazione della morte possa portare notevoli benefici alle nostre vite.
Commento molto puntuale, sì, stiamo ragionando anche noi da giorni, inter nos, sulla tanatofobia, e anche sull’altra cosa dei traumi storici non elaborati riguardo al dare/ricevere la morte. Genova 2001, gli anni Settanta, ma io ci aggiungerei tutta la gigantesca querelle sui regolamenti di conti dell’immediato dopoguerra.
In calce al Diario virale 3 ho provato a fare alcune considerazioni sulla paura di morire e su alcune sue proiezioni/mascherature ideologiche.
Condivido pienamente il tuo sospetto che la rimozione della morte e il porre la propria vita al di sopra di tutto sia il motivo più intimo e profondo dell’intera faccenda. È da giorni che mi frulla in testa l’idea che ogni discorso sulla responsabilità, sul senso civico, sull’adeguarsi disciplinatamente a qualsiasi provvedimento senza domande sia in realtà una rabbiosa richiesta di sicurezza personale, e soltanto di quella. “Non voglio morire per colpa tua”. Un individualismo e un amor proprio oltre ogni misura che si nasconde goffamente dietro una tanto improvvisa quanto sospetta riscoperta del senso civico e della responsabilità collettiva. È diventato insostenibile e impensabile pensare che si possa morire a causa di un’epidemia per cui è necessario trovare un responsabile facile da individuare e dare in pasto ad una sommaria giustizia.
Attenzione, così fai sembrare che sia tout court da stronzi aver paura di morire. Quando parliamo di una cosa delicata come questa, dobbiamo camminare su una corda tesa bilanciandoci con una pertica a ogni passo. Ecco perché ne stiamo discutendo solo inter nos, senza scriverne. Il problema non è l’umanissima paura individuale di morire: se il focus resta su quello sembra un problema di «codardia». Invece il problema è come si è trasformato il rapporto con la morte nella società capitalistica. Se ne è scritto molto a partire dagli anni Settanta, dal pionieristico libro di Philippe Ariès Storia della morte in occidente. Ma per noi è troppo presto, non siamo ancora in grado di dare ai nostri pensieri una forma che sia all’altezza di un simile tema.
Infatti quello della morte e della salute sono argomenti complessi, ed intimamente legato alla società che fa da contesto al discorso, con i suoi punti di riferimento scientifici. Scusate il commento un po’ lungo ma vi propongo un punto di vista da psicologo.
È assurdo doverlo ribadire anche qui ma la Scienza non è neutrale. Sembrerebbe una banalità, eppure in una società che si trova a dover ragionare sulla futura ciclicità di emergenze sanitarie, disastri ambientali ed eventi pandemici, il potere che sarà nelle mani di chi di questa ciclicità si proporrà come gestore è enorme. E’ palpabile in queste ore: virologi, epidemiologi, scienziati che a vario titolo tentano di affrontare l’emergenza sanitaria sono i “nuovi eroi” di una società iatrogena (spesso nemmeno esprimendo particolari critiche verso quest’ultima). Esperti, il cui contrasto di vedute è spesso sottaciuto o minimizzato, sono i nuovi fiancheggiatori dei decisori politici, paladini di una Salute pubblica messa a rischio dalla stessa società da cui traggono potere. Tecnocrati che, di una visione classista e monolitica della scienza, fanno un’arma contro qualsiasi spunto critico che non passi da una visione statistica di benessere e comunità. Eppure questi sono concetti complessi, sfaccettati e per questo faticosi da maneggiare, quando non spaventosi per la loro indefinitezza. Ed infatti più ci si addentra nei discorsi degli “esperti dell’emergenza” più si intravede un concetto di salute e malattia bidimensionale e tipizzato. Ma, sembra banale dirlo, “la salute è uno stato completo di benessere fisico, mentale e sociale, e non semplicemente assenza di malattia o infermità”(Mario Bertini, Psicologia della Salute). Il concetto di salute così come definito dall’OMS (stato di benessere fisico, psichico e sociale) per quanto ormai di uso comune rischia di disperdersi nelle linee superficiali del salutismo e del consumismo edonico. Forse, per quanto sia ormai pacifico un concetto di salute “allargato” e pluridimensionale, lo si riduce ancora ad una dimensione binaria di assenza/presenza. Questa concezione, ben lungi dall’essere una novità, si inserisce nel solco dei meccanismi di negazione/rimozione che governano l’agire umano. Come sottolinea giustamente Bertini, “la paura della morte, costante ancestrale dell’essere cosciente, rappresenta il motore primo del suo concentrarsi sulla malattia” come agente esterno da debellare. La malattia, intesa in questi termini, sembra essere un vettore di morte pronta ad attaccare un corpo immutabile, destinato al moto perpetuo della vita: da qui la fuga nel tentativo di un controllo semi-ossessivo di forma fisica, benessere, “salute psico-fisica”, un controllo culturalmente diffuso e facilmente incentivato dalle dinamiche esterne del mercato o strumentalizzata dalle dinamiche del potere politico. Secondo questa linea di ragionamento, non è difficile arrivare ad individuare, tra le storture della società contemporanea quella che Ivan Illich definì l’”espropriazione della salute”, ossia una super-medicalizzazione sociale generata dall’ossessione di “tenere in vita” i corpi, estirpare (negare) la malattia, individualizzare il malessere.
Riprendendo i ragionamenti di Bertini, invece, sarebbe necessario ragionare nei termini di una integrazione continua e circolare tra benessere e malessere, la scienza dovrebbe avere il compito di spiegare che il bisogno di sopravvivenza si risolve non solo negli ingranaggi della difesa dalla morte, ma anche in quelli della speranza di vita, di cui il benessere è vettore sostanziale.
Da anni si parla di modello “bio-psico-sociale” contrapposto al modello bio-medico tradizionale, ossia di un modello di matrice sistemica che riconosca la matrice multidimensionale della salute, e soppianti la parcellizzazione dell’essere umano. Eppure questo modello, con il suo proposito radicale di sostituire con una visione dinamica e globale dell’individuo la mera riduzione ad organo o a “cittadino” da far funzionare, sembra essere stata digerita e banalizzata dal sistema capitalistico, mantenendone la forma estetica, ma integrandola perfettamente nel mercato della Salute.
Perché se andiamo oltre la patina delle belle parole, siamo ancora pienamente immersi in un sistema in cui l’essere umano non viene curato nella sua globalità, ma viene affidato al lavoro di innumerevoli specialisti, che ne provocano ulteriori bisogni di osservazione e di ricerca di guarigione.. Ben diverso sarebbe la vera applicazione di un modello bio-psico-sociale, ma comporterebbe una concezione di umanità come qualcosa di intrinsecamente inafferrabile, organismo mutageno in costante ridefinizione di sé stessa e per questo poco rassicurante, palesemente in contrasto con il bisogno di estrarre valore dalla Salute o utilizzare la sua “presunta difesa” per costruire apparati di controllo e potere.
“Invece il problema è come si è trasformato il rapporto con la morte nella società capitalistica.”
Se poi ti fermi a pensare al concetto di “guerra a zero morti” tipica dei più recenti conflitti intrapresi dagli USA, allora in questo caso, per ciò che concerne l’idea di rimozione della morte dal nostro orizzonte esistenziale, siamo davvero al paradosso: decidi di fare la guerra (scenario, per eccellenza, connesso alla morte) per “risolvere” problematiche geopolitiche e pretendi di non avere perdite tra i soldati che impiegherai nel conflitto. È assurdo.
P.S.
Ovviamente le vittime civili (i cosiddetti “effetti collaterali”) non rientrano nel concetto di “guerra a zero morti”…
Anche io mi sto interrogando da giorni sulla tanatofobia e il discorso è molto complesso.
Il primo pensiero che mi è venuto in mente è stato che ormai la nostra società (specie le fasce alte, medioalte e medie) non è più capace di fare i conti con la morte, e con eventi imprevisti (come appunto le malattie) che storicamente possono accadere. Siamo bombardati dal culto della salute fisica e della bellezza, del vivere a lungo a ogni costo, ecc. Il tutto ovviamente per renderci sempre più consumatori (di prodotti e servizi, ma anche di modelli e stili di vita) e renderci consumatori il più a lungo possibile. E questa ormai è un’ovvietà assodata.
Da qui è derivato il pensiero che pur di evitare in ogni modo la morte non siamo neanche più capaci di riflettere sul prezzo da pagare in termini di libertà, umanità, relazioni, felicità, cioè di quelle cose che rendano le vite degne essere vissute. Non vivere pur di non morire è quanto ci hanno chiesto in questi giorni.
Ovviamente il secondo pensiero è che chi vive vite precarie, povere, a rischio, in posti sfigati del pianeta o in sacche marginali delle nostre società opulente, ha un rapporto quotidiano con la morte, il decadimento, la degradazione fisica, la corruzione del corpo, il rischio, e che quindi ha un modo di reagire all’epidemia diverso. Ma anche questo pensiero scivola facilmente nel luogo comune, perché anche i poveri hanno paura di morire. Forse, semplicemente, le loro vite impongono loro ragionamento e comportamenti più complessi e sfumati del bianco/nero.
Il discorso però è ancora molto più complesso di così perché, come diceva Wu Ming 1, la paura della morte non è roba solo “da stronzi”. La paura di morire è sacrosanta. Anche perché l’opposto della paura della morte è il culto della morte di stampo fascista. Il gesto eroico e superomista, la bella morte, il sacrificio per la patria (o per il denaro, da cui le farneticazioni tipo quelle di Boris Johnson per cui sarebbe pacifico sacrificare centinaia di migliaia di persone per non fermare l’economia). Insomma quel «pronti alla morte» che vorrebbero farci cantare ogni giorno alle 18 dal balcone.
Non riesco quindi a darmi una risposta e bisogna continuare a riflettere. Da un lato penso che la morte e la paura della morte siano cose che debbano essere affrontate; dall’altro penso che la paura della morte, l’attaccamento alla vita e il rispetto e la salvaguardia delle vite umane siano cose sacrosante.
Ma per poter ragionare sulla morte forse è necessario prima ragionare sulla vita, e soprattutto sulle vite che facciamo (tutti, nel mondo) e sulla vita che val la pena di vivere.
Forse piuttosto si può parlare di paura del rischio. Il panico è stato nutrito soprattutto dalla narrazione tossica e tecnocratica del rischio calcolato, in una società così fragile in cui nei fatti è quasi o vietato o impossibile rischiare, in qualsiasi campo. E senza rischio non c’è precauzione né responsabilità.
Parliamo di una società in cui la vaccinazione di massa, non a caso, è stata accolta con una maggioritaria e zelante approvazione, proprio perché è stato generalmente ben accolto il principio che neppure i bambini possano rischiare di ammalarsi. Analogamente agli scettici veniva rinfacciato lo scarso senso di responsabilità per gli immunodepressi.
E in questo universo di discorso, che dura da un po’ di anni, la politica oltre al TINA ha aggiunto il “whatever it takes”. Qui sta la nostra (s)fortuna. Occorre una riappropriazione popolare dei rischi e delle responsabilità, per respingere il letale securitarismo dei nostri giorni, pronto a trasformarsi definitivamente in biofascismo tecnocratico.
I saluti di chi è ancora per strada, o nei boschi, come in montagna, fanno ben sperare. Sono i primi germi di una cultura del rischio e della responsabilità, indispensabile per sopravvivere a questo capitalismo dei disastri, da shock economy permanente. Il rischio è un bene comune, va coltivato e articolato.
Me ne rendo conto quanto sia delicato il discorso. Probabilmente l’ho messa giù male, ma agganciandomi al commento precedente avevo lasciato per scontato il fatto che si parli del rapporto con la morte delle società capitalistiche e in particolare quelle “occidentali”. Rapporto che non risparmia nessuno credo, con la differenza che qualcuno forse riesce ad incanalare diversamente la paura o almeno interpretare quello che gli succede in un determinato momento, come lo può essere quello che stiamo vivendo. Io personalmente sono molto ansioso e sullo sfondo dell’ansia ci sarà senz’altro l’eterna e irrisolta paura della morte. Solo che nella mia immaginazione mi figuro più scene di linciaggi, guerre civili, violenza generalizzata dovuta alle carestie e allo sgretolamento delle istituzioni, che non me stesso intubato per colpa di un untore. Nel tentativo di razionalizzare ed esorcizzare la paura, ci riesco in minima parte, per il resto sostituisco una paura con le altre. Grazie per i riferimenti bibliografici, mi piacerebbe approfondire.
Secondo me uno dei punti più interessanti è questo: “esiste uno spazio per i saperi specialistici che siano non solo quelli del virologo ma anche quelli della salute pubblica complessiva, dello psicologo, forse anche del cardiologo?. La risposta è un no secco. E in effetti adesso, per esempio, vanno di moda le frasi del tipo “Ilaria Capua ha detto”, “ormai io ascolto solo Ilaria Capua”. Pare che non si possa accedere alle discussioni se non si cita almeno una volta la Capua.
Forse era per questo che parlare con alcuni anziani mi aveva sollevata. Per la differente prospettiva sulla vita e sulla morte. Come se, a un certo punto, subentrasse in maniera inconscia un pilota automatico delle emozioni, in grado di mettere in sottofondo le paure irrazionali. Alcuni anziani, per prossimità anagrafica con la possibilità che un certo evento possa verificarsi, hanno un un atteggiamento di maggiore distacco. E se anche il rimosso rimane collettivo, nella dimensione individuale si attiva qualcosa di diverso. Ecco perché, solo per alcuni, più facile sfidare le regole imposte dall’ esterno per passeggiare. Tanto a volte da regredire infantilmente. In una forma di conquistata autonomia dalla narcisistica preoccupazione di essere obbedientemente ligi al dovere e anche schiavi della considerazione altrui. Centrati solo sull’ obiettivo, non materiale, di vedere riconosciuti se stessi come individui. Ecco perché ritrovo più somiglianze fra la condizione di un recluso in carcere e quella di alcuni anziani. Stimano di non avere più molto da perdere.
Invece sulla questione strettamente sanitaria mi domando che tipo di stato viene attribuito ai ” negativi ” se non si effettuano test sierologici per capire se c’è traccia di anticorpi. E perché i bambini, in percentuale, si ammalano meno? E perché le donne si ammalano meno degli uomini? Credo che la risposta a queste domande comporti una serie di costose analisi. Ma è davvero la quarantena la soluzione più ” economica ” , oltre che mirata ad evitare il collasso del sistema sanitario? Non sono più costose le ripercussioni che ci saranno in termini sociali, psicologici ed economici? Questo non dimostra ulteriormente che sia una scelta politica di controllo sociale?
In attesa della seconda puntata de La viralità del decoro, consigliamo questo articolo uscito su Jacobin Italia:
Vivere senza spazi pubblici – di Carlotta Ciacagli
“Risuona” in maniera squillante con le riflessioni di Wolf e con le nostre.
« #iorestoacasa non significa, non deve significare #iomimurovivo. E’ un hashtag nato un sacco di tempo fa (dieci giorni circa), quando ancora ci ammassavamo all’ora dell’aperitivo, sui mezzi di trasporto – cosa che peraltro ancora succede a chi va a lavorare – o sulle piste da sci: da allora è passata un’eternità, la stragrande maggioranza delle persone ha preso coscienza del problema e più di così è veramente difficile fare, anche perché davvero rischieremmo di andare tutti fuori di testa.
Vi saluto ed #escoafareduepassi, con tutte le cautele del caso. E’ una bella giornata di primavera, negarsela non aiuterà di sicuro a sconfiggere questo virus di merda. Anzi.»
da: Zona Protetta
Ricollegandomi al fatto #iomimurovivo mi viene in mente i 2 anni in cui ho lavorato in CAS nelle Marche.
Questa situazione in cui ci troviamo ora, la vivono o l’hanno vissuta ogni giorno centinaia di migliaia di persone sul suolo italico, soltanto che queste persone hanno un colore della pelle diverso dal nostro e non parlano italiano. Il tempo sospeso che varia dai 2 ai 3 anni, nell’attesa di un documento che sancisce la definitiva categorizzazione/divisione in MIGRANTE ECONOMICO, perciò soggetto o alla clandestinità o all’espulsione nel proprio paese di provenienza.
Perciò chiederei a queste PERSONE come hanno reagito a questa sospensione delle proprie libertà personali in un periodo così lungo, senza impazzire rimanendo lucidi e sperando che “tutto andrà bene”.
I 2 anni di lavoro in un CAS, mi hanno portato definitivamente a non credere in un mondo migliore, ma una lenta agonia dell’Europa e del modello capitalista neo-liberale in qui siamo invischiati tutti senza distinzione di classe, genere, età ecc..
Ieri, nel suo quotidiano comunicato sul Coronavirus, l’assessore-commissario ad acta Venturi si è rimangiato lo sbrocco del giorno prima contro chi fa la “corsetta”. Ha aggiunto che si può addirittura andare in giro in bici (cosa che invece è vietata in vari comuni italiani, anche alla porte di Bologna, a meno che non la si usi per andare al lavoro, a fare la spesa e altre necessità). Nella sua marcia indietro, Venturi si è però dimenticato di sdoganare il cazzeggio – contro il quale aveva tuonato – e questo mi pare significativo. Come ha sottolineato Tuco, il contenuto morale di certi provvedimenti contro il virus è evidente. L’accanirsi contro il cazzeggio – la flânerie, il passeggiare senza scopo – è figlio di un’idea di città dove ogni spazio deve sottostare a un progetto, servire a qualcosa. Ogni centimetro quadrato di territorio dev’essere messo a valore e usato con quello scopo preciso. E’ figlio anche di un’idea di vita, più in generale, dove le azioni “non produttive” e “non necessarie” sono viste con sospetto. La classica trimurti “produci, consuma, crepa”.
Credo che a Roma si stia arrivando alla follia. Se qualcuno riuscisse a spiegarmi il criterio gliene sarei grato.
“Coronavirus Roma, le regole per i forni: vietata la Margherita, pizza solo bianca e rossa”
https://roma.fanpage.it/coronavirus-roma-le-regole-per-i-forni-vietata-la-margherita-pizza-solo-bianca-e-rossa/
La lingua nazionale sarà lo svedese e la biancheria andrà portata sopra i vestiti…” (Cit.: “Il dittatore dello stato libero di Bananas”)
Secondo me, una delle narrazioni più tossiche da smontare è la seguente:
“In realtà anche i medici e paramedici che lavorano scafandrati da capo a piedi con mille precauzioni si stanno contagiando in massa”
(cito da un commento di Paul Olden, i cui commenti ho apprezzato tantissimo – e proprio per questo, questa imprecisione mi ha colpito)
Le *vere* condizioni in cui lavorano i medici, sembrano essere queste (articolo che WM1 ha postato sopra, ma è passato in sordina):
“Se andrà tutto bene, sarà sulla nostra pelle”
https://www.globalproject.info/it/in_movimento/se-andra-tutto-bene-sara-sulla-nostra-pelle/22642
Grazie Wolf, le vostre parole e questo spazio sono uno dei pochi luoghi dove salvarsi dalla dittatura sanitaria, grazie.
Comunque al netto di tutto, io credo che una discussione lucida debba essere portata avanti quantomeno per denunciare con forza la totale impreparazione degli Stati su una emergenza come questa.
Anche assumendo la totale buona fede delle restrizioni é chiaro che se sei costretto ad emettere decreti cosí complessi nel giro di un giorno saranno, nella migliore delle ipotesi, raffazzonate e piene di buchi. Per esempio: giá semplicemente guardando come diverse categorie di lavoratori vengano discriminate (giá il fatto che alcuni devono continuamente andare al lavor mentre altre possono fare teleworking, alcuni rischiano o vedono sospeso il proprio reddito, altri no).
E dire che le avvisaglie c´erano state tutte, non solo da parte di molte persone che avevano denunciato il tutto, ma anche da esempi concreti di epidemie pericolose come la SARS o come l´emergere di superbatteri resistenti a tutti gli antibiotici (tra l´altro prodotti proprio da un abuso degli antibiotici stessi).
É incredibile che non esistesse un piano che permettesse di implementare le opportune difese contro l´infezione senza navigare a vista come si sta facendo.
Qua i piani continuano ad intersecarsi, mentre guardavo la puntata di Presa diretta del 10 febbraio dedicata proprio al capitalismo della sorveglianza mi è caduto l’occhio su twitter su una serie di tweet riguardanti il famoso tracciamento dei telefoni in Lombardia, dai quali si evince che si sposta ancora, o solo dipende dai punti di vista, il 40% delle persone. Al netto del fatto che magari quelle persone ci sono costrette per andare a lavoro, visto che così gli viene imposto, qualche anima saggia combatte contro una marea montante di “è per il nostro bene! C’è la PANDEMIA!” (beato chi non sta su twitter mi verrebbe da dire…) ad ogni modo nella discussione emerge che un articolo dell’ultimo decreto volto a creare un gruppo di supporto digitale. Sono andata a cercarlo nel sito del governo, ecco l’articolo 76: “Art. 76 (Gruppo di supporto digitale alla Presidenza del Consiglio dei ministri per l’attuazione delle misure di contrasto all’emergenza COVID-19.) 1.Al fine di dare concreta attuazione alle misure adottate per il contrasto e il contenimento del diffondersi del virus COVID-19, con particolare riferimento alla introduzione di soluzioni di innovazione tecnologica e di digitalizzazione della pubblica amministrazione, il Presidente del Consiglio dei ministri, o il Ministro delegato, fino al 31 dicembre 2020 si avvale di un contingente di esperti, in possesso di specifica ed elevata competenza nello studio, supporto, sviluppo e gestione di processi di trasformazione tecnologica, nominati ai sensi dell’articolo 9 del decreto legislativo 30 luglio 1999, n. 303. Con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, sono individuati il contingente di tali esperti, la sua composizione ed i relativi compensi.”
[…] natura autoritaria delle misure intraprese dal governo italiano, la loro ratio centrata sul controllo, la repressione, […]
Mi permetto di stimolare anche un altro tipo di riflessione: possiamo dire a voce alta che questa è l’epidemia dei paradossi? Vediamo: si dice che si sta facendo tutto questo (bloccare il 70-80% dell’economia per settimane, murare in casa milioni di persone, sospendere le libertà fondamentali dell’intera popolazione fino a data da destinarsi… ) per salvare più vite umane. Però mi permetto di fare alcune considerazioni, perché ritengo che le classi dirigenti, per scarsa visione e scarsa natura politica , abbiano preso solo e sempre decisioni di cortissimo respiro, senza alcuna considerazione verso un orizzonte temporale più ampio. Veniamo al punto:
1) Il blocco dell’economia sta già producendo costi per centinaia di miliardi di euro di mancato PIL, e contemporaneamente la quasi totalità delle aziende italiane è pronta a chiedere aiuti, CIG, risarcimenti, sostegni pubblici. Lo sbilancio è catastrofico. Questo danno economico sarà giocoforza duramente spalmato sui bilanci pubblici dei prossimi anni, compresa ragionevolmente anche la spesa sanitaria che ne risulterà compressa. Inoltre è lecito supporre un peggioramento ulteriore delle condizioni contratturali dei lavoratori e una precarizzazione ancora più marcata, oltre a una intera nuova categoria di lavoratori intermittenti, di gente che si arrangia come può… Questo genera qualità di vita peggiore (ad esempio quando uno è precario si cura meno, trascura la salute perché tende a non stare a casa nemmeno quando ha la febbre, per paura di perdere il lavoro). Qualità di vita peggiore, precariato, ridotti livelli di assistenza ospedaliera, fanno più morti. Non morti in emergenza, parliamo di morti annuali, continuativi, per una serie di anni… Non è una certezza assulta, ma una concreta e ragionevole possibilità. Quanti morti all’anno? Per quanti anni?
2) Tra in morti dall’inizio dell’epidemia l’età media è 80 annni con almeno due patologie gravi pregresse. Si dice che tutto questo si fa per salvare loro. Ma i nostri anziani vivono a lungo (tra i più longevi del mondo) non solo perché abbiamo una sanità pubblica gratuita e buona alimentazione: vivono molto anche perché c’è una buona qualità di vita complessiva nelle nostre città e soprattutto nei nostri paesini. Gli anziani mantengono le loro piacevoli routine: colazione, giornalaio, sosta al bar due chiacchere con gli amici, un po’ di sole sulla panchina, passeggiata piacevole, eccetera. Vivono una buona vita con alti livelli di serotonina, sono di buon’umore, tengono duro. Li tappiamo in casa, gli togliamo le loro abitudini che li tengono aggrappati alla vita, gli diamo la prospettiva di morire soli attaccati ai tubi senza nemmeno un funerale… Perdono la voglia di lottare, finiscono per perdere persino l’appetito…
3) Si dice: facciamo tutto questo per evitare che la sanità vada in tilt, per cercare di curare comunque tutti negli standard odierni. Quindi, a gennaio, quando si prevedeva l’arrivo del virus, invece che potenziare del 200-300% i posti letto di terapia intensiva, con una spesa di 5-10 miliardi di euro, abbiamo preferito partire con concettto zone rosse, zone arancioni, e finire con zona rossa tutta italia tutto chiuso, per un costo stimabile in almeno 20 volte tanto, e sanità comunque in crisi lo stesso (mancano persino i DPI per gli operatori sanitari, cosa che dimostra chiaramente che abbiamo speso tempo e soldi per le quarantene anziché per quello che serviva veramente)
4) Si continua a ripetere che si fanno le quarantene e i blocchi totali perché una vita è una vita e vale come tutte le altre, così possiamo curare tutti, anche anziani con patologie pregresse. Ma già oggi non è vero, soltanto che non si è fatto nessun regolamento di emergenza per riservare per legge la terapia intensiva ai casi con maggiori speranze, così in questo momento i poveri medici si trovano non solo a dover lavorare 16 ore al giorno senza DPI adeguati, ma anche a prendersi carico loro, in totale autonomia , abbandonati dalle leggi e dalla politica, di decisioni eticamente e moralmente lancinanti su chi attaccare alle macchine e chi no, su dove sospendere l’accanimento terapeutico, eccetera.
Insomma, sta andando tutto al contrario. Un virus che non attacca praticamente bambini e ragazzi ha mandato nel panico una intera generazione di adulti. Sia chiaro: i vecchi non hanno alcuna paura (ne hanno viste tante) , i giovani non hanno alcuna paura (per loro in effetti non è pericoloso). Tutta questa fobia, tutta queste scombinata paura “chiudiamo tutto, tappiamoci in casa!” è la paura della generazione adulta e sana, quella che in un mondo normale dovrebbe – proprio perché nel pieno della maturità – assumersi i rischi maggiori proteggendo le categorie deboli, ovvero andare a lavorare comunque, sotto le bombe, in mezzo ai virus, comunque. E’ il contrario di quello che ha fatto la generazione di mezzo, quella pienamente adulta, in tutta la storia dell’umanità.
Ci rendiamo conto?
[…] di Wolf Bukowski * [La prima puntata è qui] […]
ATTENZIONE: abbiamo appena pubblicato la seconda puntata del post di Wolf. Andiamo avanti con il metodo già adottato nei giorni scorsi: per favore, qui lasciate soltanto repliche a commenti già pubblicati. Se avete commenti nuovi, scriveteli di là. Grazie!
[…] between the US and Mexico and between Greece and Turkey. In Italy and Spain, gangs of police attack joggers in empty […]
Maledette panchine
https://www.quotidianodipuglia.it/lecce/coronavirus_assembramenti_piazza_sannicola_sindaco_panchine-5118592.html
[…] Τουρκίας. Στην Ιταλία και την Ισπανία, ομάδες μπάτσων επιτίθενται σε ανθρώπους που έχουν βγει για τρέξιμο σε άδειους […]
[…] a casa e sto leggendo su Giap la prima parte de La viralità del decoro. Controllo e autocontrollo sociale ai tempi del Covid-19 di Wolf Bukowski, articolo interessante e […]
[…] Unidos y México y entre Grecia y Turquía. En Italia y España, bandas de policías atacan a corredores en calles vacías.La policía ataca y golpea a un corredor en […]
[…] Controllo e autocontrollo sociale ai tempi del Covid-19 di Wolf Bukowski su Giap Prima puntata https://www.wumingfoundation.com/giap/2020/03/la-viralita-del-decoro/Seconda Puntata […]
[…] los Estados Unidos y México y entre Grecia y Turquía. En Italia y España, bandas de policías atacan a trotadores en calles […]
[…] los Estados Unidos y México y entre Grecia y Turquía. En Italia y España, bandas de policías atacan a trotadores en calles […]
[…] Y es precisamente la continuidad entre las cruzadas por el “civismo” y la gestión de la epidemia de Covid-19 lo que está en el centro de este artículo de Wolf Bukowski.[…]
[…] So wie das Virus uns die Wahrheit darüber zeigt, wie wir bereits – in unseren Beziehungen und unserem Zuhause – lebten, so zeigt es uns auch, dass wir bereits in einer autoritären Gesellschaft lebten. Die Ankunft der Pandemie macht das nur noch formeller. Frankreich bringt 100.000 Polizist*innen auf die Straße, 20.000 mehr als zum Höhepunkt der Gilets-Jaunes-Proteste eingesetzt wurden. Refugees auf der Suche nach Asyl werden an den Grenzen zwischen den USA und Mexiko sowie zwischen Griechenland und der Türkei abgewiesen. In Italien und Spanien greifen Polizeibanden Jogger in leeren Straßen an. […]
[…] się z powrotem na granicach między USA a Meksykiem i Grecją a Turcją. We Włoszech i Hiszpanii bandy policjantów atakują osoby uprawiające jogging na pustych […]
[…] Vi dico quello che questa cazzo di pandemia mi ha dato: una scossa. E una voglia di agire. E no, non parlo solo delle attività ricreative della cosiddetta quarantena (fare le torte, la pasta, la pizza, imparare a cucire…). No, queste sono le prime cose che spariranno quando ne saremo usciti. No, parlo della consapevolezza di come certi (molti, quasi tutti?) sistemi politico-economico-sociali siano fallaci. Si devono fermare le sirene di vittimismo – che da sempre sono caratteristiche fondamentali dell’italianità – e agire subito. Non si può né si deve aspettare un improbabile e, soprattutto, non sperato “ritorno alla normalità”, ma piuttosto bisogna capire – e rettificare subito – cosa passa nella testa di quei poliziotti che hanno malmenato il povero runner solitario di Palermo o di quelli che hanno abusato del vecchietto stanco dopo la spesa sulla panchina di Napoli. Bisogna agire per fermare questa corsa alla denuncia virale di chi, agendo in maniera perfettamente costituzionale, va a fare una passeggiata attorno all’isolato, torna da lavoro a piedi o fa una corsetta solitaria. Si dovrebbe capire come si è passati da “il sacrosanto «non bisogna mettere in discussione la realtà dell’epidemia»” al più preoccupante “«non bisogna mettere in discussione il modo in cui il governo affronta l’epidemia»; e anzi: bisogna aderirvi fino alle più intime fibre” (per un’analisi dettagliata del fenomeno, cliccate qui). […]
[…] La cornice narrativa del «babau là fuori» precede il diffondersi del coronavirus e come abbiamo sottolineato più volte, si era già manifestata nell’ideologia del decoro. […]
[…] همانطور که ویروس حقیقت را دراینباره به ما نشان میدهد که از پیش چگونه زندگی میکردیم -دربارهی روابط و خانههایمان- همچنین نشانمان میدهد که از پیش در جامعهای اقتدارگرا زندگی میکردیم. فرارسیدن بیماری عالمگیر فقط به آن رسمیت میبخشد. فرانسه ۱۰۰هزار نیروی پلیس را در خیابانها مستقر کرده است، ۲۰هزار نفر بیشتر از تعدادی که در نقطهی اوج اعتراضات جلیقهزردها قشونکشی کرده بودند. مهاجران محتاج پناهگاه در امتداد مرز بین ایالاتمتحده و مکزیک و مرز بین ترکیه و یونان پسزده میشوند. در ایتالیا و اسپانیا، دارودستههای پلیس به دوندهها در خیابانهای خالی حمله میکنند. […]
Segnalo questo pezzo de Il Manifesto di ieri, compiuto e accessoriato di riferimenti: https://ilmanifesto.it/lossessione-per-la-folla/
Un estratto:
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[…]
La folla delinquente di Scipio Sighele (1891), La psicologia delle folle di Gustave Le Bon (sempre 1891) […] contenevano tre tesi fondamentali. La folla non è costituita dalla pura somma degli individui che ne fanno parte, dal momento che, scrive Le Bon, “gli individui che la compongono acquistano una sorta di anima collettiva per il solo fatto di trasformarsi in massa. […]
E gli uomini in massa sono inevitabilmente peggiori,[…] sono in genere guidate da alcuni leader o conduttori […] si contagiano socialmente: […] un “contagio mentale” che genera l’imitazione di comportamenti pericolosi tra gli individui che si trovano in gruppo.
Rileggendo questi studi, ampiamente criticati da buona parte della sociologia contemporanea, emergono alcune similitudini e altrettante differenze [..] : la paura dell’essere umano che si riunisce in folla, la folla in sé come soggetto irrazionale non fosse altro perché luogo di decantazione del virus (e contrapposto alla razionalità dell’isolamento fisico), il timore che ci siano forme di contagio ma anche forme di imitazione di comportamenti ritenuti “scorretti”, la condanna dell’assembramento e quindi della vicinanza fisica come precondizione alla trasmissione del virus oggi così come delle idee in passato.
[…]
i media osservano gli assembramenti per aggiornare continuamente il proprio pubblico sullo stato e i movimenti della folla. Un pubblico di follower nel vero senso della parola […] che odia la folla perché veicolo di contagio, ma che attraverso i media ha l’opportunità di seguirla e di spiarla e, allo stesso tempo, di tenersi distante da essa.
Questa sorta di “feticismo della folla” proposto dai giornali, TV e siti web, che ha le sue ovvie ragioni di mercato ed è semplice da realizzare […] Se le folle di un tempo facevano paura perché mettevano a repentaglio l’ordine pubblico, le folle temute oggi si radunano, o si assembrano, per ragioni apparentemente triviali: per fare shopping, per festeggiare e cantare o ballare assieme, per fare una passeggiata […] le folle di oggi sono condannate in quanto folle e quindi non per i loro obiettivi espliciti, ma per il loro effetto epidemiologico […] la concentrazione mediatica sulla “massa anonima” ha una sua chiara portata politica.
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[…] همانطور که ویروس حقیقت را دراینباره به ما نشان میدهد که از پیش چگونه زندگی میکردیم -دربارهی روابط و خانههایمان- همچنین نشانمان میدهد که از پیش در جامعهای اقتدارگرا زندگی میکردیم. فرارسیدن بیماری عالمگیر فقط به آن رسمیت میبخشد. فرانسه ۱۰۰هزار نیروی پلیس را در خیابانها مستقر کرده است، ۲۰هزار نفر بیشتر از تعدادی که در نقطهی اوج اعتراضات جلیقهزردها قشونکشی کرده بودند. مهاجران محتاج پناهگاه در امتداد مرز بین ایالاتمتحده و مکزیک و مرز بین ترکیه و یونان پسزده میشوند. در ایتالیا و اسپانیا، دارودستههای پلیس به دوندهها در خیابانهای خالی حمله میکنند. […]