«Non ci compete governare tutte le maree del mondo, bensì mettercela tutta a sostegno degli anni a noi assegnati, estirpando il male dai campi che conosciamo, in modo che chi vivrà dopo abbia terra sana da coltivare. Del tempo che farà non siamo noi a disporre.» (J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, RR, V. IX)
INDICE
1. Immagini e discorsi del post-alluvione: la «regione-modello» nella melma
2. Conseguenze di cemento e arboricidio: l’esempio del Savena
3. La lotta al «Passante di Bologna» dopo le piogge
4. Come ti “compenso” l’ecocidio
■ Pugno d’asfalto in guanto di velluto verde
■ Cementificare per «salvare il suolo»
5. «Ogni giorno qualcosa»: un ecosistema di lotte a Bologna
■ Due insegnamenti della lotta No Tav
6. La lotta al Passante è di portata nazionale ed europea
7. Materialismo fantastico
8. Verso il 17 (e 18) giugno
1. Immagini e discorsi del post-alluvione: la «regione-modello» nella melma
Distese di pesci morti a galla in canali dove non c’è più ossigeno.
In termini tecnici si chiama anossia. Tra le sue conseguenze anche il colore rosso intenso del canale Zaniolo.
Canali dalle acque morte, e nei campi intorno migliaia di fenicotteri dispersi, spaesati, in cerca dei nidi che la piena di melma ha spazzato via.
Melma piena di liquami zootecnici e rifiuti di ogni genere, che quando arriva in mare forma vaste chiazze color bitume.
Eppure in riviera l’Adriatico è limpido, balneabile, godibile. Deve esserlo, o salta la stagione. Per rassicurare i bagnanti si farebbe di tutto. Il 2 giugno l’assessore regionale al turismo Andrea Corsini ha annunciato che avrebbe bevuto un bicchiere di acqua di mare. Non sappiamo se poi l’abbia fatto. Lo squaraus è la cosa più simpatica che possa capitare, anche con l’Adriatico “pulito”. E che l’acqua di mare non si beve te l’insegna la mamma quando hai due anni.
Nel mentre, prosegue – autoreferenziale, demenziale, foriero di ulteriore sventura – il dibattito su chi fare commissario alla ricostruzione.
Lo abbiamo già scritto, per noi il commissario è una figura da abolire, perché strumento delle politiche d’emergenza, garanzia che ogni decisione sarà calata dall’alto. C’è bisogno del contrario: di processi dal basso, di partecipazione reale, di ridiscutere l’assetto del territorio, senza dare nulla per scontato e senza più «firmare cambiali in bianco alla classe dirigente», per riprendere l’espressione usata in quest’intervista.
Chiunque venga nominato commissario farà danni. Detto questo, l’insistenza su Bonaccini, proprio lui, «uomo della ricostruzione» è a dir poco ridicola.
Il sindaco di Bologna Matteo Lepore ripete che c’è un solo nome, abbiamo un solo nome, un solo nome. Tra un po’ lo canterà sulle note di Guantanamera. Allo stadio quel coro vuol dire «c’è un solo vero campione»; qui significa «non abbiamo nessun altro, siamo alla frutta». Anzi, no, pure la frutta è bella che andata.
Anche il capo della Cgil Maurizio Landini ha dichiarato che non dare l’incarico a Bonaccini sarebbe «uno schiaffo». No, lo schiaffo è quello che la realtà ha dato a Bonaccini e al suo entourage, compresa Elly Schlein, fino a poco tempo fa vicepresidente di regione, con delega al cosiddetto «Patto per il Clima».
Lo spettacolo di sé che danno gli amministratori emiliano-romagnoli fa pensare a un’altra dimensione del multiverso. Un mondo fatato in cui l’Emilia-Romagna è davvero quella che loro dipingono: una specie di Bengodi governato da illuminati e con la popolazione più intelligente d’Italia. Nella nostra dimensione, invece, il PD regionale – e dunque nazionale – sta colando a picco nella melma, trascinato da una zavorra di miti e clichés, come ha ben riassunto la geografa ed esperta di consumo di suolo Paola Bonora:
«Si chiude sotto i nostri occhi un’epoca, stiamo assistendo alla fine del PD e del suo baluardo, l’Emilia “rossa”, travolti dal fango e dal discredito. Ripudiata da tempo l’identità, con il collasso territoriale il centrosinistra perde anche la reputazione di buona amministrazione ed è gioco facile per le destre sparare sul moribondo. Il percorso è stato lento, la tecnostruttura era solida, costruita tra gli anni 60 e 70, fondata su idee, professionalità, passione militante […] Una fase di breve durata, poi l’adesione acritica al mantra della crescita, all’urbanizzazione compulsiva che privilegia la rendita e la privatizzazione. Il consumo di suolo è frutto di quegli anni, si costruisce (troppo, come la crisi immobiliare-finanziaria ha mostrato) per speculazione, per investire. Si stravolgono gli assetti territoriali con incosciente noncuranza alla manutenzione e alla cura […] La pianificazione, orgoglio del “modello emiliano”, da sistema di controllo si trasforma in dispositivo di valorizzazione i cui decisori sono i privati investitori non più le municipalità, come ha sancito la legge regionale del 2017, vantata come capolavoro di innovazione, irta di antinomie e mistificazioni. Non a caso da quell’anno il consumo netto di suolo, calato a causa della crisi, ricomincia a salire.»
In realtà, per quanto obnubilati dall’ideologia – quella del realismo capitalista, sposata col fanatismo dei convertiti – i dirigenti del PD sanno che tutto ciò sta accadendo. L’alluvione li ha messi di fronte al loro incubo: la realtà che arriva a chiedere conto. Ma la retorica suprematista e l’arrocco a difesa dell’esistente sono tutto quel che hanno, e a quello ricorrono: «Emilia-Romagna über alles / Über alles in der Welt».
Ricorrendovi, capita che diano in escandescenze, come Bonaccini il 9 giugno scorso, durante La Repubblica delle Idee, invadente kermesse con cui il giornale di Elkann e Molinari, una volta all’anno, si impadronisce di piazza Maggiore e dintorni.
In quattro minuti di replica viscerale a una contestazione sorta dalla piazza, il governatore ha messo in fila un incredibile marasma di diversivi e non sequitur, di date, dati e presunti primati con cui – sapendo che lì per lì nessuno poteva controllare – ha riscritto la storia della regione. Accanto a lui, un Lepore pietrificato dall’imbarazzo. Storici come Guido Crainz e Franco Cazzola si sarebbero messi le mani nei capelli. Qui il video, con la nostra disamina di quanto detto.
2. Conseguenze del cemento e dell’arboricidio: l’esempio del Savena
L’arrocco non servirà. Si diffonde sempre più la consapevolezza dei danni che ha fatto la loro cementificazione, la loro guerra agli alberi e al suolo. Si sentono sempre più tecnici, esperti, addetti ai lavori dire quel che appare ovvio ma che gli amministratori negano: si è costruito ovunque. Ecco Fausto Pardolesi, funzionario dell’Autorità regionale di Bacino dei fiumi romagnoli:
«Era meglio tenere il terreno sgombro per l’espansione del fiume. Evidentemente non si è costruito in modo prudente, dal Dopoguerra in poi facendo partire urbanizzazioni in zone depresse orograficamente, oppure troppo vicino agli argini […] Il fango non è usuale di tutte le piene, in questo caso nelle vallate il fiume si è ripreso spazi che non usava da almeno un secolo, erodendo le sponde per centinaia di metri, il fango proviene da lì […] Bisogna lasciare spazio al fiume e piuttosto che costruire protezioni ad abitazioni e altre costruzioni troppo vicine al fiume, per poi doverle riparare a ogni piena, bisognerebbe delocalizzare i fabbricati, spostarli in zone più sicure».
Nicola Armaroli, scienziato del CNR e studioso di questioni energetiche, è andato anche più in là, parlando di «una cementificazione che fa vomitare».
Riguardo al fango e all’erosione a cui accenna Pardolesi, è sempre più chiaro che i fiumi in piena hanno distrutto e trascinato via gli argini dove questi erano stati disboscati. Si vede in tutte le immagini delle rotte di Idice, Lamone, Savena, Senio, Sillaro ecc. Argini resi fragili, ridotti a puri cumuli di terra… per poi magari farci sopra «percorsi cicloturistici», cioè – diciamola come va detta – ulteriori colate d’asfalto in nome del «green». Un green che arriva distruggendo ecosistemi e compromettendo l’assetto del territorio.
Emblematico il caso del Savena, i cui argini furono rasati a zero nel 2014. In pochi giorni sparirono circa sessantamila alberi, anche in zone classificate SIC, Siti di Importanza Comunitaria. Furono distrutti trenta ettari di vegetazione ripariale. Gabriele Minghetti, allora sindaco di Pianoro e presidente dell’Unione Montana Savena e Idice, ignorò ogni critica, come ignorò i pareri di WWF, Legambiente e Unione Bolognese Naturalisti.
Durante una serata informativa a Rastignano, l’esperto di ecologia fluviale Giuseppe Sansoni mise in guardia dalle possibili conseguenze di una simile devegetazione.
Peraltro, la situazione del Savena era già critica, come fa notare il naturalista Fausto Bonafede in una relazione sulle ultime alluvioni:
«Il Corso del Savena […] è zona ad alto rischio idraulico e idrogeologico. In tutta questa zona l’alveo è stato ristretto a dismisura con strade, costruzioni e manufatti di ogni tipo realizzati a pochi metri dall’alveo attivo o addirittura dentro l’alveo […] Le sezioni di deflusso sono diventate insufficienti per smaltire anche piene modeste, figuriamoci cosa può succedere in occasione di eventi meteorologici estremi come quelli del 17 e 18 maggio 2023. La situazione è destinata a peggiorare con i lavori del “Nodo di Rastignano” salutato da tutti come la soluzione di tutti i problemi.»
Se a decenni di malterritorio aggiungiamo i disboscamenti del 2014, e se a questi aggiungiamo quelli dell’autunno 2022 al Paleotto, finalizzati proprio a insediare il cantiere del Nodo di Rastignano – «opera che aspettavamo da più di trent’anni», dixit Lepore – il quadro è completo. Così si è preparata l’esondazione e rotta del Savena del maggio 2023.
E a conti fatti, scrive ancora Bonafede, in val Savena
«è andata “bene” rispetto a quel che è accaduto nelle valli della Romagna, a meno di 60 km in linea d’aria […] In val Savena la pioggia caduta il 17 e 18 maggio 2023 è stata minore, variando dai 147 mm di Loiano ai 166 mm di Madonna dei Fornelli; in molte zone della Romagna è andata molto peggio: si va dai 205 mm di Brisighella (RA) ai 254 mm di S. Cassiano sul Lamone.»
Se sulla val Savena si fosse rovesciata una quantità di pioggia analoga – cosa che comunque può accadere in futuro – le vie di San Lazzaro e di Rastignano somiglierebbero a quelle di Conselice.
Con buona pace di amministratori ed “esperti” che da settimane ci raccontano che gli argini vanno «puliti». In Emilia-Romagna, più puliti di così si muore.
Anzi, si muore già così.
3. La lotta al «Passante di Bologna» dopo le piogge
Il post-alluvione sta dando nuovo impulso alle lotte ambientali in regione, in particolare a quella contro l’allargamento fino a diciotto corsie della tangenziale di Bologna e dell’autostrada A14, nei tredici chilometri in cui scorrono affiancate, attraversando le periferie del capoluogo. L’intento è realizzare il cosiddetto «Passante». Che, sia chiaro, ancora non esiste.
Quando si dice «il Passante», ancora troppe persone non riescono a figurarsi di che si tratti. Del resto, «Passante» è un nome che crea confusione, richiama qualcosa che passa e va, mentre questo, se lo fanno, rimane.
Fino a qualche anno fa era chiamato il «Passante di Mezzo», per distinguerlo dalle altre due opzioni sul tavolo: «Passante Nord», cioè un nuovo tratto autostradale nella parte più settentrionale della provincia, e «Passante Sud», per cui si ipotizzava un mega-traforo dei colli. Dove, come cantava Guccini, Bologna tiene il culo.
Ora il Passante non è più «di mezzo» in quel senso, ma sarebbe sicuramente in mezzo. In piena città, in mezzo ai maroni, in mezzo ai polmoni.
Va sempre ribadito di cosa si tratta: dell’allargamento di tangenziale e A14, e va spiegato che questo progetto ne implica molti altri, decine di nuove colate d’asfalto che stanno per investire Bologna e i suoi dintorni.
Per preparare quelle colate si distruggono boschi urbani e stradali. Ruspe e motoseghe hanno già abbattuto decine di migliaia di alberi. Agli esempi fatti negli scorsi articoli aggiungiamo quanto accaduto lungo l’A14, documentato nel video qui sotto.
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Dove noi vediamo boschi, ecosistemi, vita, i politici e gli affaristi vedono solo “sporco”, “degrado” e legname da vendere alle centrali a biomasse.
Alla luce delle alluvioni, tutto questo risulta ancora più assurdo. Eppure la classe dirigente non dà il minimo segno di voler cambiare rotta. Bologna va verso una cementificazione che, una volta mappata anche solo a macchie di leopardo, toglie il fiato. Ne parleremo.
E si continuano a buttare giù alberi, ovunque, com’è da poco accaduto in via Erbosa, quartiere Navile. Un intero, lussureggiante bosco di acacie e robinie, dimora di uccelli, vibrante di api e altri insetti impollinatori, è stato cancellato in un vero e proprio blitz.
Questa la realtà dei fatti che la classe dirigente cerca ancora di coprire col greenwashing e con la logica, da rifiutare in toto, delle «compensazioni».
4. Come ti “compenso” l’ecocidio
Nel nostro articolo del 12 aprile scorso abbiamo già sottolineato come il Passante di Bologna non sia affatto un’infrastruttura «di nuova generazione», bensì un fossile spruzzato di verde. La verniciatura consiste soprattutto nel trasformare terreni agricoli o già rinaturalizzati in future, eventuali fasce boscate e giardinetti.
Le prime, allo scopo di mitigare l’impatto dell’opera, ma soprattutto di accumulare un credito, per calcolarlo nella partita doppia dell’anidride carbonica, compensare quella prodotta dall’aumento di veicoli in transito (+ 25mila al giorno), e ottenere un bilancio positivo: un’autostrada a 16/18 corsie che fa bene alla salute, rispetta l’ambiente e contrasta il riscaldamento globale.
Parchi e giardini servono invece a fatturare «verde pubblico», a incassare ettari di «bosco» e interventi «green», a sostituire piante selvatiche con piante addomesticate, campi coltivati con panchine, in zone della città dove non mancano i prati pettinati e i sentieri disegnati col brecciolino, ma stanno invece scomparendo i terreni agricoli e la diversità biologica.
Pugno d’asfalto in guanto di velluto verde
Un esempio lo troviamo nella registrazione dell’udienza conoscitiva che si è svolta on-line, il 20 aprile, su richiesta della commissione per la mobilità, di quella per l’ambiente, nonché della consulta per il verde del Comune di Bologna, in merito ai cantieri del Lotto 0 del Passante.
Nell’intervento di Fabio Visintin, responsabile unico del progetto per Autostrade, vengono analizzati, molto brevemente, i casi delle fasce boscate Chico Mendes, Agucchi-Zanardi e Scandellara. Dalle immagini riportate sulle slide risulta evidente che, a fronte dell’abbattimento di decine di alberi, vecchi anche di 30 anni, verranno giardinizzati e rimboschiti terreni già verdi e in alcuni casi già sistemati a parco.
Nella foto qui sopra si vede la fascia boscata Chico Mendes, a sud della Tangenziale/A14. L’area contornata in blu misura 6,42 ettari di superficie, con terreno coltivato e prato incolto. Autostrade vi calerà 2,45 ettari di forestazione e 3,97 ettari di parco urbano. In questo modo, potrà capitalizzare il tutto alla voce «opere verdi realizzate grazie al Passante». Opere di cui, a ben vedere, non ci sarebbe alcun bisogno, se lo stesso Passante non aumentasse la produzione di CO2, innescando la necessità di compensarla con alberi, quasi fossero macchine per assorbire anidride carbonica.
Nel giardino di via Frisi, a nord della Tangenziale, Autostrade prevede 0,54 ettari di forestazione e 2,13 di parco urbano. Peccato che l’area sia già un giardino, per quanto poco curato, con staccionate, panchine in metallo, fontanella, sentieri… La foto del Geoportale Nazionale risale al 2012, la sistemazione è stata fatta nel 2014. Anche in questo caso, quindi, si tratta di un intervento deciso al solo scopo di incassare credito verde.
Infine, le zone bordate in arancione saranno anch’esse soggette a interventi green, che le priveranno del loro utilizzo come campi coltivati (tra i pochi rimasti a sud della Tangenziale).
Stesso discorso per le altre due zone del Lotto 0 presentate dall’ing. Visintin, e in generale per tutto il guanto di velluto verde che serve a nascondere questo pugno d’asfalto sferrato contro la città.
Tuttavia, il meccanismo delle compensazioni non funziona soltanto offrendo il «green» al posto dei 3000 alberi abbattuti o dei 9 km di filari estirpati. Nel caso dei 30 ettari di bosco «interferiti» dal Passante, questi non verrano rimpiazzati, bensì pagati, con il verde dei dané e un versamento sull’apposito fondo regionale, come riportato in tabella.
Facciamo notare che Autostrade, nel 2017, rispondendo alle richieste di integrazione alla VIA della Regione Emilia-Romagna calcolava la superficie boschiva impattata dal Passante in 16,09 ettari, diventati poi 29,43 nel Progetto definitivo, aggiornato a novembre 2020. Allo stesso modo, nel 2017, gli alberi da abbattere risultavano 1711, contro i 2.936 del Progetto definitivo.
E a proposito di numeri: parlando dei cantieri del Lotto 0, l’ing. Visintin ha mostrato una slide relativa alle aree interessate da lavori. Al momento, nella cosiddetta Fase A, si tratta di 23 ettari (236,765 mq), occupati all’81%, e già le reti arancioni si sviluppano per chilometri. Nella Fase B, con gli espropri, si arriverà a 300 ettari (3 milioni di mq). Tanto per rendere l’idea di quanto grande sarà la superficie di terreno rivoltato e attraversato dalle ruspe, rispetto ai 20 ettari che verranno asfaltati dalle nuove corsie.
Certo, una parte di questa gigantesca area “lavorata” verrà poi convertita in verde pubblico, anche se, come abbiamo già fatto notare, non è mai ben chiaro di quanto si parli: da 140 ettari si è passati a 160, mentre Visintin ha parlato di 180 ettari (75 di fasce boscate in terreni di proprietà di Autostrade e 105 di «boschi» e parchi in terreni pubblici). Sia come sia, a fronte di 300 ettari interessati dai lavori, il peso dei 180 «riqualificati» – e sbandierati come «green» – risulta molto ridimensionato.
Anche perché tale «riqualificazione» non ha tempi certi, né si basa su documenti definitivi e consultabili. Il Passante non ha ancora ottenuto dal Ministero la dichiarazione di pubblica utilità – dopo la quale si può procedere con gli espropri – e il Progetto esecutivo è ancora in fase di approvazione.
Il Comune di Bologna, per mitigare… le critiche, ha chiesto di anticipare la piantumazione di qualche alberello, ma Autostrade ha risposto che questo sarà possibile solo nel parco Rabin (circa 300 piante), nel parco Morandi (100 piante) e al parco Tanara (niente piante, ma un po’ di arredo, giochi, illuminazione). In tutte le altre aree non si può intervenire perché saranno cantieri operativi o logistici o da bonificare, e pertanto le opere verdi dovranno attendere la fine dei lavori.
Cementificare per «salvare il suolo»
Ma la lavatrice verde di Bonaccini & Lepore non gira soltanto per smacchiare il Passante.
Lunedì 5 giugno, in consiglio comunale, è stata approvata una delibera, che l’assessore all’urbanistica Raffaele Laudani ha motivato con una «maggiore attenzione al tema del consumo di suolo». Eppure, il risultato della votazione sarà che un terreno agricolo diventerà edificabile.
Questo terreno, di proprietà del comune di Bologna, si trova nel comune limitrofo di Castel Maggiore e misura circa 18 ettari di superficie catastale. Il 14 dicembre 2017 i due comuni hanno sottoscritto un accordo per la “valorizzazione immobiliare” dell’area, ovvero per costruirci sopra.
Notare la data: una settimana dopo, il 21 dicembre, viene approvata la famosa legge regionale dell’Emilia Romagna «contro il consumo di suolo». Sara un caso?
Sei mesi più tardi si inaugura la Nuova Galliera, una variante alla strada provinciale n. 87, pensata per deviare il flusso dei veicoli fuori dall’abitato di Castel Maggiore e di Funo. Ma poiché “chi semina strade raccoglie traffico” ecco che oggi, come si legge nella delibera, «è maturata la consapevolezza che l’insediamento previsto necessita di un significativo ridimensionamento in quanto il carico urbanistico dallo stesso generato graverebbe eccessivamente sulla viabilità locale, al momento già provata dall’apporto di traffico generato dalla Nuova Galliera».
Questo è il vero motivo che porta i due comuni a correggere i piani e a ridurre di un terzo la superficie utile edificabile – non un metro quadrato di meno, per «rimanere entro limiti che rendano l’intervento economicamente sostenibile», ovvero generatore di grana.
Da 12.500 mq si passa quindi a 8.000 mq di superficie utile, «alla quale poter aggiungere fino al 60% di superficie accessoria». Da sottolineare che il comune di Castel Maggiore doveva realizzare un comparto di Edilizia Residenziale Sociale di 2.500 mq proprio nei 4.500 mq di superficie utile eliminata. Dovendo scegliere a cosa rinunciare, tagliano le case popolari.
L’unico consigliere della maggioranza che ha votato contro la delibera è stato il verde Davide Celli, già contrario al Passante di Bologna. I suoi colleghi di coalizione si sono stupiti: ma come, qua riduciamo il consumo di suolo e tu non sei d’accordo? Celli ha risposto che, dal suo punto di vista, c’è comunque del terreno agricolo che verrà coperto di condomini. Difficile dargli torto, o sostenere che ha guardato al bicchiere mezzo vuoto. Perché il bicchiere, in questo caso, è per due terzi pieno di cemento.
5. «Ogni giorno qualcosa»: un ecosistema di lotte a Bologna
A Bologna «c’è della mossa». Da settimane ogni giorno accade qualcosa, e un resoconto completo richiederebbe troppo spazio. Si va dai semplici volantinaggi a occupazioni come quella in via Agucchi sgomberata il 3 maggio in piena alluvione, accampamenti di lotta come quello al giardino Virginia Woolf, blocchi della tangenziale come quello del 10 giugno, passando per contestazioni ed escraches, spentolate e performance che ricordano la land art, biciclettate e trekking urbani, assemblee popolari e festival. Last but not least, i sabotaggi notturni. Tutto contro il Passante ma non solo: in città sono nati nuovi comitati contro i «mostri urbani» e in difesa degli alberi.
E non si tratta solo della città, anzi. Dopo le alluvioni c’è stato un salto di livello, ma si può dire che l’attuale sequenza sia cominciata nel settembre 2022, con la marcia «I sollevamenti della terra», che collegò le lotte territoriali dalla Bassa all’Appennino, da Malalbergo al Corno alle Scale, facendo tappa anche a Bologna il 3 settembre.
Quel giorno la marcia si congiunse a una camminata contro il Passante. Tutte e tutti insieme, si occupò con canti e balli la rotatoria di via Corticella che immette in tangenziale. Un evento “seminale”, preludio alla grande manifestazione del 22 ottobre, quando trentamila persone salirono sulla tangenziale stessa e la bloccarono.
Due insegnamenti della lotta No Tav
Noi seguiamo da anni le vicende della lotta No Tav in Valsusa, e nella «mossa» bolognese riconosciamo due capisaldi etico-strategici dell’agire di quel movimento.
Il primo è che non si prendono le distanze dalle tattiche che adottano le altre componenti. C’è chi fa gli scontri e chi fa ricorsi legali, chi mette insieme una lista civica e chi prega la Madonna davanti ai celerini. Nessuna componente deve forzare le altre su terreni in cui si trovano a disagio, ma che cento fiori sboccino. Se si rinuncia a questo principio, subito scatta il divide et impera, la falsa dicotomia tra «buoni» e «cattivi», e il discorso del movimento viene dirottato: anziché degli obiettivi della lotta si è costretti a parlare della «violenza». A quel punto è la fine.
È un segno di maturità che nessuno abbia preso le distanze dai sabotaggi degli ultimi mesi, sia quelli dei cannoni sparaneve sul Corno alle Scale sia quelli dei cantieri del passante al Navile*.
Nel suo libro Neither Vertical Nor Horizontal: A Theory of Political Organisation (Verso, 2022), Rodrigo Nunes invita a superare i dilemmi che ogni ondata di movimento si trova di fronte e su cui finisce per arenarsi, quelli riguardanti l’organizzazione. Nunes invita a pensare il movimento
«ecologicamente: come un’ecologia diffusa di relazioni che attraversano e mettono insieme diverse forme d’azione (aggregata, collettiva), forme organizzative disparate (gruppi di affinità, network informali, sindacati, partiti), individui che ne sono parte o ci collaborano, individui senza affiliazioni che partecipano alle proteste, condividono materiali on line o semplicemente seguono con simpatia gli sviluppi su testate giornalistiche, pagine web, profili social, spazi fisici ecc. Qualunque cosa noi consideriamo come totalità del “movimento” è in realtà un network non afferrabile nella sua totalità, fatto di tanti network diversi, un’ecologia di network in evoluzione a sua volta incastonata dentro ecologie più vaste che si sovrappongono in vari modi […] Non c’è bisogno di alcun tipo di coordinamento o addirittura di alcun contatto diretto tra le diverse componenti di un ecosistema perché possano interagire tra loro: agendo nell’ambiente che hanno in comune, possono modificare indirettamente i loro campi di possibilità […] Non si organizza una totalità: ci si organizza dentro di essa.» (traduzione nostra)
Nunes non parla del movimento No Tav, ma la storia di quest’ultimo fa capire molto bene cos’è un ecosistema di lotte.
Il secondo caposaldo è che non si propongono «tracciati alternativi», «migliorie», «mitigazioni», rattoppi, niente. Si dice no all’opera inutile e basta. In Valsusa quel no ha a lungo mantenuto la chiarezza, tenuto unite componenti diversissime, prodotto nuova soggettività che poi si è radicata nel territorio.
A Bologna, è su questo che Coalizione Civica si è giocata ogni credibilità e inclusione in lotte reali. Quando ha accettato di discutere “migliorie” al Passante, da lì è stato un unico piano inclinato. Parti accettando l’opera come un dato, e finisci per diventare una corrente, per ora ufficiosa, del PD. A quel punto ti dedichi al greenwashing, millantando «risultati» che dovrebbero giustificare la tua presenza là dentro e spegnere la tua coda di paglia in fiamme.
6. La lotta contro il Passante è di portata nazionale ed europea
Il Passante di Bologna è un’opera d’impatto nazionale e la lotta per contrastarlo riguarda tutte e tutti. Non soltanto perché lo snodo viario di Bologna è il più importante tra centro e nord Italia, ma anche e soprattutto per il valore politico e simbolico che assume l’ennesima opera inutile imposta. Raddoppiare l’autostrada A14 e la tangenziale che girano intorno alla città – ma in realtà la attraversano – significa affermare definitivamente la pratica del sacrificio dello spazio urbano e della salute pubblica sull’altare della viabilità automobilistica.
Mentre altrove in Europa gli urbanisti e le amministrazioni locali si pongono il problema di come diminuire il traffico su gomma, in Italia – e nella sedicente bene amministrata Emilia-Romagna – si va nella direzione diametralmente opposta. Si abbattono alberi, si sacrifica suolo, lo si impermeabilizza, si colano cemento e asfalto che d’estate si arroventano, si sollevano polveri sottili, si investono miliardi che Autostrade per l’Italia ci farà pagare con gli interessi.
Tutto questo per avere più spazio per le automobili e i camion, più inquinamento, più mobilità privata, come se fossimo ancora nel secolo scorso. Gli studi più avanzati sulla viabilità ci dicono infatti che l’idea di fluidificare il traffico automobilistico concedendogli più spazio è una mera illusione. Più corsie significano più auto e più traffico, quindi ancora più problemi.
Qualcuno si chiederà che senso abbia combattere contro un’opera già approvata dalle forze di governo della Regione e della Città metropolitana, senza nessuna opposizione nelle sedi politico-istituzionali e con molta rassegnazione anche da parte della cittadinanza – sempre più disgustata dall’offerta politica, al punto che quasi un bolognese su due non va più a votare. Che senso ha lottare se so già che non c’è una rappresentanza che possa trasformare il mio impegno in realtà? È su questo scetticismo e sul fatalismo imperante che scommette la classe dirigente emiliano-romagnola, proprio come quella nazionale.
Ecco, sarà il caso di dirlo forte e chiaro: probabilmente oggi non c’è una battaglia più sensata di questa.
Non solo lanciare una manciata di sassolini negli ingranaggi della macchina devastatrice può rallentare lo scempio o almeno costringere i guidatori a gettare la mascher(in)a da “buoni” che cela la loro ipocrisia.
Non solo ogni lotta lascia un’eredità di esperienza e conoscenza che può sempre essere rigiocata in futuro.
Ma soprattutto, è soltanto nel conflitto con il dato che può maturare una nuova presa di coscienza. Ed è quello di cui c’è più bisogno oggi. Ecco perché è meglio una buona “causa persa” di qualunque contentino o mitigazione ottenuti per fingere che il nostro fare abbia un qualche significato. In gioco ci sono le sorti del territorio in cui viviamo e del pianeta sul quale viviamo. Non è mai esistita una “causa persa” migliore di questa. E a volte nella storia le “cause perse” sono le uniche per cui valga la pena lottare.
Come ci insegna anche una certa letteratura.
7. Materialismo fantastico
Sembra proprio che i movimenti ambientalisti e per la giustizia climatica stiano riscoprendo l’immaginario fantastico. Lo abbiamo constatato leggendo i volantini e i comunicati che circolano a Bologna.
Forse il seme lo aveva piantato dieci anni fa lo street artist Blu, quando aveva dipinto sulla fiancata del centro sociale XM24 la sua celebre rappresentazione in stile Bosch dei conflitti cittadini. In quell’opera Bologna era rappresentata come una città di salumieri e speculatori cementizi – dove la torre degli Asinelli diventava la Torre Oscura di Sauron – assediata da un variegato popolo di media-attivisti, ambientalisti, punk, ecc. Nell’uno e nell’altro schieramento comparivano creature e personaggi della saga di Star Wars e soprattutto della Terra di Mezzo.
Qualche anno dopo, nei giorni dello sgombero del medesimo centro sociale, erano state lanciate manifestazioni «contro il nulla che avanza», con un riferimento diretto al romanzo di Michael Ende, La storia infinita.
Nei comunicati più recenti abbiamo sentito riecheggiare La collina dei conigli di Richard Adams – perché così si sono chiamati le e gli occupanti di via Agucchi: «coniglie e conigli» – e ancora l’universo tolkieniano, con tanto di riadattamento della celebre poesia dell’Anello in versione anti-Passante.
«Diciotto corsie sotto il cielo che risplende.
Dieci anni di lavori che la triste morte attende.
Uno snodo per l’oscuro Sire dei regni di cemento.
dove brama il traffico in aumento.
Una grande opera per domarli,
il Greenwashing per ghermirli e nel buio incatenarli.
Nella terra di Bologna, dove l’ombra cupa scende.»
Come già accaduto qualche decennio fa nel mondo anglosassone, il messaggio ecologista contenuto nelle opere fantastiche è recuperato e rimesso in gioco nelle lotte cruciali del presente. L’immaginario fantastico viene riletto e rideclinato da una nuova generazione.
Negli anni Settanta ci provarono i giovani neofascisti a buttarsi sul fantasy e sulla fantascienza. Mezzo secolo dopo, una persona nata in quella temperie, il cui libro preferito è dichiaratamente Il Signore degli Anelli e che volle ribattezzare «Atreju» la festa dei giovani di AN (dal nome del personaggio della Storia Infinita), è a capo di un governo non meno innamorato di asfalto e cemento di quelli che l’hanno preceduto, anzi perfino di più. Nel fatto che oggi siano invece i movimenti ambientalisti a recuperare l’applicabilità della narrativa fantastica alla difesa del territorio e dell’ambiente si potrebbe persino vedere una nemesi storica.
Probabilmente questa attualizzazione è dovuta anche al fatto che il prometeismo novecentesco è finito, insieme a quelle utopie sociali, alle grandi speranze nelle meravigliose sorti e progressive dell’umanità, e oggi viviamo invece all’ombra di una minaccia tanto grande quanto incombente, completamente calati dentro la catastrofe. Se mai questa potrà trasformarsi in «eu-catastrofe», cioè in un finale diverso da quello che il pianeta sembra avere in serbo per noi, dipende da quanta gente deciderà di mettersi in cammino e di unirsi contro un modello di sviluppo e un’ideologia che ci hanno portati sull’orlo del baratro. E se lo farà – questa è la cosa più dura – pur sapendo che ogni sforzo potrebbe essere già vano.
Quando guardiamo le immagini dei deserti che avanzano, dei ghiacciai che scompaiono, degli incendi che consumano intere foreste, o delle acque che si riprendono la pianura devastando tutto; quando sentiamo ancora la retorica che ci suggerisce di allearci con il potere devastatore per guidarlo verso gli obiettivi che sono sempre stati nostri, ci viene facile richiamare alla mente certe immagini letterarie e cinematografiche.
Oggi, in questa lotta, è necessario dispiegare tutta la biodiversità possibile. Servirà la strenua ricerca e resistenza di Moscardo, Kaisentlaia, Quintilio, Cedrina, Parruccone, Sagginella, e di tutte le conigliere che possono convergere e insorgere. Servirà la marcia di Barbalbero, Ciuffoglio, Scorzacute, Sorbolesto, e tutti gli altri Ent, consapevoli che, come dice appunto Barbalbero, «se restassimo a casa senza fare niente, la sorte giungerebbe comunque, prima o poi». Chi ha occhi per leggere e orecchie per intendere, intenderà.
«A noi non piace quando vengono a scuoterci; e ci scuotiamo solo quando ci è chiaro che i nostri alberi e la nostra vita sono in grave pericolo. […] È l’operato degli Orchi, l’abbattimento immotivato – rárum – senza neanche la cattiva scusa di alimentare i fuochi, che ci ha mandato su tutte le furie, e il tradimento di un vicino che avrebbe dovuto aiutarci. […] Non c’è maledizione in Elfico, in Entico o nelle lingue degli Uomini abbastanza tremenda per un tradimento del genere» (J.R.R. Tolkien, Il Signore degli Anelli, DT, III. IV)
8. Verso il 17 (e 18) giugno
In Italia e in gran parte d’Europa i poteri costituiti hanno – piuttosto correttamente – individuato nei movimenti di lotta su ambiente e clima i loro peggiori nemici. Qui da noi – ma anche in Germania – il pugno di ferro ha colpito soprattutto Ultima Generazione. In Francia a essere prese di mira sono le attiviste e gli attivisti di Les Soulèvements de la terre, che si oppongono alla realizzazione di megabacini di stoccaggio idrico. Il 25 marzo scorso a Sainte Soline, in Nuova Aquitania, il movimento ha subito un attacco poliziesco su vasta scala e violentissimo. Duecento feriti di cui quaranta gravi. Due manifestanti in coma, di cui uno in serie condizioni a tutt’oggi.
Queste mobilitazioni stanno subendo quel che la lotta No Tav subisce da molti anni. La controparte cerca di dissanguarle a furia di repressione, denunce, arresti, misure cautelari, processi.
Ebbene, dovrebbe essere di ottimo auspicio per tutte e tutti questa semplice constatazione: il movimento No Tav esiste ancora. Non solo esiste, ma la sua persistenza ha sin qui impedito la realizzazione di un’opera i cui primi cantieri cercarono di insediarsi in Valsusa nel 2005.
Grazie al fatto che non si è potuto realizzarlo ai tempi, il progetto della Nuova Torino Lione ha perso sempre più pezzi, è apparso in tutte le sue contraddizioni, col tempo sono risultate indifendibili le sue insensatezze e la Francia, che già era poco convinta, ha deciso di smarcarsi.
Diventa chiaro a sempre più persone che il «tunnel di base» tra Susa a St. Jean de Maurienne – quasi sessanta chilometri di traforo, con distruzione di risorse idriche preziose in una zona delle Alpi sempre più esposta alla siccità – sarebbe fine a se stesso. Verrebbe scavato solo per i profitti di chi ha gli appalti e per ideologia, per non dover dire l’unica frase che avrebbe senso: «Il movimento No Tav aveva ragione, e ha vinto».
È più di una coincidenza il fatto che il 17 e 18 giugno ci siano quattro importanti manifestazioni per la difesa dei territori.
Il 17 giugno:
■ la manifestazione transnazionale No Tav in Val Maurienne;
■ il corteo «Diecimila stivali» a Bologna, contro la cementificazione, il Passante, il rigassificatore di Ravenna e altre opere inutili e imposte.
Il 18 giugno:
■ la manifestazione “toscana” contro la nuova funivia Doganaccia – Corno alle Scale, che partirà alle 9 dal Lago di S. Gualberto alla Doganaccia, per congiungersi, al Passo di Croce Arcana con la…
■ …manifestazione “emiliana” contro la nuova seggiovia Polla – Scaffaiolo. Ritrovo alle 7.30 (chi può con auto) al parcheggio Certosa lato v.le Gandhi (Bologna) oppure alle 9 a Capanno Tassoni (Fanano). Si sale alla Croce Arcana e poi al Lago Scaffaiolo. Dislivello: m 550 – Km 13 – 5 ore di cammino.
Non è coincidenza, è sincronicità.
È convergenza.
È un’ecologia di ecosistemi di lotte.
Chi sta dall’altra parte non potrà più ignorarla.
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* Sul sabotaggio cfr. Andreas Malm, Come far saltare un oleodotto. Imparare a combattere in un mondo che brucia (Ponte alle Grazie, Firenze 2022).
A riprova di quanto la lotta No Tav sia stata anticipatrice, in Valsusa le questioni sollevate da Malm furono dibattute più di dieci anni fa. A un’assemblea popolare svoltasi a Bussoleno il 15 maggio 2013 Alberto Perino, una vita spesa in battaglie nonviolente, ricordò che alcuni importanti teorici della nonviolenza includono il sabotaggio tra le forme d’azione legittime e praticabili, a certe condizioni.
Ad esempio, Aldo Capitini giustifica «l’assalto al funzionamento di un servizio, di un’industria, di un’impresa pubblica o privata, con danno o distruzione, e quindi oltre il limite della legalità […] quando non vi è nessun rischio per l’esistenza di esseri viventi […] e quando il danno che viene apportato è superato dal danno che quel servizio apporta» (Le tecniche della nonviolenza, 1967).
L’intervento di Perino si trova qui, dal minuto 2:50.
Alla manifestazione tangenziale – cui ero presente come TFF – mancava purtroppo la componente fondamentale e cioè gli abitanti dei luoghi interessati dal passante. Li posso capire: c’è grande scoramento, le espropriazioni sono già avvenute… etc. E ciò mi fa pensare che finché la lotta/le lotte non diventano davvero del territorio, di chi ci abita, di chi vuole curarlo difenderlo amarlo proteggerlo (vedi no tav), non saranno davvero efficaci. Ciò non significa che quanto sta avvenendo non sia importante e seminale, c’è una voglia di partecipazione che va crescendo e io stesso ne sono l’esempio nel mio piccolo. Perciò ritengo strategiche le scuole: sensibilizzazione, condivisione, anche lotte vere e proprie (non facile perché si tratta pur sempre di emanazione Stato) ma legate al territorio: a San Pietro in Casale dove insegno con gli alunni e alunne (e pochi docenti ) abbiamo già svolto un flash mob contro hub che si sta costruendo su ex risaia e vicino a zona ZPS … + flash mob contro auto (dei genitori!) fuori scuola. I ragazzi e le ragazze sono super speciali :).
E’ necessaria un’azione maggiore proprio a partire dalle comunità e dalle/nelle scuole. Ad esempio con dichiarazioni emergenza climatica. Come giustamente scrivete ognuna/o lotta come può e sa: per un ecosistema di lotte. Noi come TFF parteciperemo alla manifestazione del 17! pasquale faraco
Sono particolarmente sensibile a quest’aspetto perché sono proprio uno degli «abitanti dei luoghi interessati». Vivo a due fermate di autobus dall’uscita 6 della tangenziale.
Intorno al 2016, le prime iniziative pubbliche contro il Passante partirono proprio dalle periferie minacciate, da gente che stava a San Donnino, all’Arcoveggio, alla Croce del Biacco, a Borgo Panigale. Poi il fatto che il Comune e la Regione, succubi di Autostrade Spa, non abbiano voluto ascoltare nessun avvertimento, nessun parere, nessuna preoccupazione; il fatto che si siano ostinatamente rifiutati di fare una verifica di impatto sanitario dell’opera; il fatto che il blocco pro-Passante abbia cooptato anche soggetti politici che allora erano contrari (Coalizione Civica e M5S)… Tutto questo ha certamente seminato frustrazione, fatalismo e “tanto-ormai-ismo”, soprattutto in persone che avevano fiducia in meccanismi come la delega e la rappresentanza.
Al contrario, però, in molte reti cittadine il voltafaccia di Coalizione Civica ha riattizzato le braci, l’incazzatura ha smosso la situazione e molte persone si sono dette: «Forse non riusciremo a fermare l’opera ma un simile schifo non può passare come niente fosse, va fatto pagare un prezzo politico e d’immagine, bisogna comunque lottare, anche solo per fare chiarezza, mettere dei puntini sulle i da cui ripartire».
Ad ogni modo, constato che oggi molte attiviste e attivisti che si sbattono contro il progetto di Passante vivono nel mio stesso quartiere, uno di quelli che subiranno l’impatto dei cantieri e poi, se si farà, dell’opera stessa, cioè il Navile. Che però a Bologna non è un quartiere qualsiasi (non è questa la sede per spiegarne le peculiarità), una partecipazione così probabilmente non è replicabile in altre zone. Ma non è detto. Solo lottando capiremo come può evolversi la situazione.
La scuola è veramente un posto importante per queste lotte, sono d’accordo. Anche se ormai virata verso un aziendalismo perverso ci sono sempre margini di manovra a scuola. Dove ho insegnato quest’anno il mito della “Motor Valley” ha addirittura indicato modifiche alla didattica – tutto esplicitato nei documenti presentati al collegio docenti, quindi nessun sotterfugio. Ma se il collegio docenti è compatto con lo status quo, invece l’aula può essere davvero un luogo in cui trovare nuove narrazioni insieme allə studentə. Basta semplicemente leggere insieme i dati dell’Arpae o i report dell’IPCC. La consapevolezza e l’autodifesa passano dalla lettura e l’interpretazione dei dati (io insegno matematica e fisica quindi riesco facilmente a lavorare su tutto questo insieme a loro). Questo lavoro di consapevolezza funziona perché nasce proprio dallə studentə, perché sono loro a chiedere di lavorare criticamente e vogliono capire le motivazioni delle lotte e delle mobilitazioni – poi decideranno in autonomia se aderire o meno e in che misura. Se si riuscisse a discutere e formare di più su questi temi lə docenti allora la lotta sarebbe sicuramente più incisiva. Ma purtroppo ecco, questo è uno di quegli esempi in cui le problematiche si intrecciano, in cui le questioni sociali (lavorative in questo caso dellə docenti all’interno delle scuole) sono da ostacolo per una piena consapevolezza didattica sulle lotte ambientali che, condivido pienamente siano “cause perse” su cui vale assolutamente la pena anche spendere tutte le energie didattiche possibili a patto che il tema riesca ad emergere con consapevolezza dalle classi e non calato dall’alto. Ci vediamo domani pomeriggio!
I tff cui aderisco i teachers for future ma aderisco anche a Ultima Generazione per intenderci, provano a far approvare ai Collegi docenti le DeC le Dichiarazioni di Emergenza climatica che saranno anche simboliche ma che almeno creano un po’ di discussione e conoscenza dei problemi. Spesso i colleghi vanno (ri)svegliati. Su questo gli alunni più avanti di un po’. Sarebbe ad esempio importante che le scuole agganciassero lotte ambientali delle comunità cui “insegnano” ovvero e soprattutto iniziassero seri progetti di conoscenza territorio (gli argini dei fiumi ad esempio). Comunque lascio qui mia mail nel caso voglia contattarmi per condividere o altro situazioni lotte idee per la scuola pasquale.faraco@icsanpietroincasale.istruzioneer.it
La Regione Emilia – Romagna diffonde oggi un documento con 22 domande/risposte sull’alluvione di maggio.
Il testo è concepito per smentire le «fake news» che sarebbero circolate in proposito, ma mette sullo stesso piano fatti molto diversi: un conto è dimostrare che la voce del governatore Bonaccini è stata contraffatta in un video per mettergli in bocca affermazioni assurde (ma non bastano quelle che fa già davvero?), e un altro è respingere le critiche sul consumo di suolo, citando la solita legge regionale del 2017, che in tanti hanno attaccato proprio in quanto non ha fatto quel che dichiarava: fermare il consumo di suolo.
Ci vorrà tempo per leggere e analizzare le varie risposte, ma qui vorrei sottolinearne una in particolare. Alla domanda: «Fiumi esondati, si poteva evitare?» il documento regionale risponde con questa metafora: «Se in una tazzina da caffè rovesciamo due litri di acqua è ovvio che bagneremo il tavolo su cui è posata e anche il pavimento circostante.Se in un fiume, improvvisamente, arrivano quantità d’acqua tali da non poter essere contenute, è altrettanto ovvio che il fiume esonderà. 4,5 miliardi di metri cubi d’acqua, l’equivalente del volume di più di 128 dighe di Ridracoli, quelli che si sono rovesciati su un territorio di 16mila chilometri quadrati in 17 giorni, non ci sarebbero stati comunque.»
Vi ricorda niente?
A me due cose:
1) L’11 ottobre 1963, dopo la strage del Vajont, Dino Buzzati pubblicò un articolo sul Corriere della Sera, intitolato: «Natura crudele». Circa a metà, c’è una metafora molto simile a quella della tazzina: «Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d’acqua e l’acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. […] Non è che si sia rotto il bicchiere quindi non si può, come nel caso del Gleno, dare della bestia a chi l’ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d’arte, testimonianza della tenacia, del talento, e del coraggio umano.»
Il pezzo di Buzzati è stato citato molte volte, da Tina Merlin e da Marco Paolini, tra gli altri, come esempio da manuale dell’idea che le «catastrofi naturali» non hanno responsabili. E’ colpa della Natura. La diga del Vajont ha retto, quindi era costruita bene. Chi ha deciso di costruirla lì, proprio sotto quel monte, non è responsabile della frana che è caduta nel lago e ha inondato la valle. Anni e anni di processi e di controinchieste ci hanno invece dimostrato che non è così.
E’ significativo che la Regione Emilia – Romagna abbia scelto di giustificarsi con una metafora tanto simile a quella usata da Buzzati per assolvere l’ENEL/SADE, che alla fine risultò condannata.
2) Durante la pandemia da Covid-19, la risposta alle critiche contro il Sistema Sanitario Nazionale era pressocché identica: di fronte a un virus del genere, qualunque sistema sanitario sarebbe crollato, DUNQUE il sistema sanitario non c’entra nulla. Che sarebbe come dire: se vado a 160 all’ora sulla strada ghiacciata e faccio un incidente, allora non sono responsabile per l’eccesso di velocità, perché con la strada ghiacciata, anche andando ai 50 all’ora non sarei riuscito a evitare la collisione. Le emergenze cambiano, le argomentazioni si riciclano.
La metafora della tazzina è suggestiva (e per molti anche convincente) ma tende a spostare il focus. Nessuno ha mai negato l’eccezionalità dell’evento. Con quelle quantità di pioggia probabilmente i fiumi sarebbero esondati comunque. Quello su cui si discute è la portata delle conseguenze. Nel thread precedente si è sottolineato come senza l’impermeabilizzazione estesa ci sarebbe stato più tempo per reagire e gestire la situazione. La devastazione è stata causata dal fatto che l’acqua esondata ha viaggiato ad alta velocità perché scorreva su piste di cemento e asfalto; perché ha trovato case che stavano dove non sarebbero dovute stare; perché i liquami zootecnici sono il frutto di precise politiche economiche. La sfiga c’è stata, ma qualche generoso aiuto le è stato dato. Per rimanere alla metafora della tazzina, il sasso che ci cade dentro e fa tracimare il caffè provoca danni di entità diversa a seconda se la tazzina è poggiata su un tavolo di vetro o su un letto di sabbia
A proposito di tazzine di caffè, ho inventato una nuova metafora, su noi tutti come società occidentale molto evoluta ed economicamente sviluppata: è la metafora del tizio che si versa una brocca di caffè bollente sui maroni – che ovviamente si ustionano -, e se qualcuno mette in dubbio la sensatezza della sua azione, sclera sbraitando che con quella quantità di caffè bollente versato sui maroni chiunque se li sarebbe ustionati, quindi la sua decisione di versarsi il caffè bollente sui maroni non può essere criticata, e comunque qual era l’alternativa? eh? facile criticare senza proporre niente in alternativa.
Sotto il video dello sbrocco di Bonaccini in piazza Maggiore c’è un commento di Francesco Ciancimino, il… «ragazzo» a cui il guvernadaur si è rivolto in modo paternalistico e arrogante.
Ciancimino pone una questione cruciale:
«Certo, l’alternativa non è la destra fascistoide che fa da contraltare, ma non possiamo continuare a subire una narrazione falsa e tossica (oltre che arrogante e paternalista) solo perché abbiamo paura dei fascisti.»
Non potremmo essere più d’accordo, è la linea a cui ci atteniamo: il rifiuto del «menopeggismo» neoliberale. È stato quest’ultimo a favorire, anzi, a costruire nel corso dei decenni il successo della destra.
Non solo ragionando ogni volta in termini di «meno peggio» si rafforza la tendenza verso il peggio, si diffonde rassegnazione, si abbassano le difese di chi in altre condizioni lotterebbe per il meglio (questo lo scrisse già Gramsci nei Quaderni del carcere), ma in questo caso il «meno peggio» era solo presunto.
Le privatizzazioni, la frantumazione estrema del mercato del lavoro, la macelleria sociale “austeritaria”, lo smantellamento della sanità pubblica, la psoriasi di grandi opere inutili e molti altri processi degenerativi hanno come responsabile principale il «centrosinistra». Che negli ultimi trent’anni ha governato molto più spesso e più a lungo del centrodestra – governi Prodi, D’Alema, Prodi II, Monti, Letta, Gentiloni, Renzi, Conte II e Draghi – e ha fatto tutte le più importanti “riforme” neoliberiste, ha fatto i decreti salvacantieri, introdotto politiche sempre più autoritarie, dato più poteri alle forze dell’ordine, chiuso i porti alle navi di migranti (ricordiamoci di Minniti), gestito l’emergenza pandemica scaricando ogni colpa su cittadine e cittadini ecc.
Il crescere delle disuguaglianze e del rancore è poi stato sfruttato dalla destra, che maschera dietro una retorica anti-elitaria, familistica e imperniata sul costante additare capri espiatori il fatto di avere politiche economiche virtualmente indistinguibili da quelle del PD. Nello specifico dei temi di cui ci stiamo occupando, ovvero cemento, asfalto, grandi opere, la differenza non si vede proprio.
L’avanzata delle destre (in Emilia-Romagna, in Italia, in Europa) non si contrasta con la stessa ricetta che l’ha resa possibile, non si contrasta col «menopeggismo». Questo è tanto più vero se si tiene conto di una delle ragioni per cui la destra avanza, riassunta molto bene da Marco Bascetta sul “manifesto” qualche giorno fa:
«vi è un altro elemento più concreto e immediato che gonfia le vele della destra: la resistenza contro la transizione ecologica. In tutta Europa, dai Paesi bassi, alla Germania, alla Francia, soprattutto nelle province rurali, coltivatori e allevatori si mobilitano, invadendo le strade con i loro trattori e premiando formazioni populiste e antieuropee contro normative e restrizioni volute dalla Ue nel tentativo, attribuito soprattutto alla sinistra, di limitare l’impatto ambientale di colture e allevamenti intensivi. Fin troppo facile per le destre cavalcare resistenze corporative e pratiche produttive inquinanti che hanno ormai acquisito la forza della “tradizione”. In un insidioso, ma non incomprensibile interclassismo, il rifiuto della riconversione ecologica accomuna il possessore squattrinato di una vecchia auto diesel o di una stufa a carbone, agli interessi dell’industria chimica ed estrattiva e dei suoi azionisti, agli operai in ansia per il proprio posto di lavoro.In mancanza di compensazioni e alternative immediate, riversando i costi del cambiamento su cittadini già sufficientemente provati, l’Unione europea è destinata a implodere in una tempesta di pulsioni nazionaliste e reazionarie. Eppure anche su questo delicato terreno sembra prevalere la colpevolizzazione dei poveri “inquinatori”, mentre la ricerca delle soluzioni riguarda essenzialmente la tutela delle imprese e dei loro margini di profitto. O gli incentivi per modalità di consumo accessibili ai soli ceti privilegiati.»
È uno sviluppo che noi e altre avevamo ampiamente previsto, in particolare nella premessa a questo post.
La conclusione che ne traiamo è che i movimenti di lotta su clima e ambiente dovrebbero opporsi per primi a politiche “ecologiche” che fanno lo scaricabarile verso il basso; che introducono forme di “tassazione regressiva”; che imperniando la “transizione” sulle scelte (che spesso sono obbligate) di consumo e sui comportamenti nella vita quotidiana affliggono i ceti più popolari, quando ormai è assodato che a inquinare ed emettere di più sono i ricchi, come spiega da tempo, dati alla mano, l’infaticabile Emanuele Leonardi.
La lotta contro queste politiche “ecologiche” – che ecologiche non sono mentre sono indubbiamente classiste – andrebbe sottratta alla destra, e questo è possibile soltanto prevenendo la loro “cattura”. Nel 2018 in Francia si riuscì a farlo: anche grazie all’apertura mentale di molte soggettività movimentiste la sollevazione dei Gilet gialli non ebbe una deriva fascista e anti-ecologista, anzi, proprio in quel calderone nacque lo slogan oggi usato in molte manifestazioni sul tema del clima: «Fine del mondo, fine del mese, stessa lotta».
In ogni caso, è molto più plausibile che un’alternativa a largo raggio alle destre nasca dai movimenti in difesa del territorio e contro le politiche ecocide e climalteranti piuttosto che dall’ennesimo «ricompattamento a sinistra», dall’ennesima operazione che mette insieme rottami di ceti politici, da qualunque azione venga intrapresa all’insegna del menopeggismo.
Del resto, se c’è un fronte in cui si vede che i due schieramenti sono in realtà una sola controparte, è proprio il fronte ambientale. Che lo vadano a dire in Valsusa, che c’è differenza tra destra e PD, quando il PD è la forza politica che con più zelo ha spinto la grande opera e con più entusiasmo ha applaudito la repressione.
A me ha colpito molto la rivendicazione di continuità con chi ha governato la regione in precedenza, addirittura con quelli che hanno permesso alla provincia di Ravenna di affrancarsi dalla malaria 100 anni fa.
Benchè le opere di bonifica siano iniziate a fine ‘800, non sfuggirà chi c’era al governo un secolo fa quando la malaria è stata debellata. Non penso certo che Bonaccini intendesse mostrarsi in continuità con il fascismo, ma quello che mi colpisce è l’idea di storia lineare, sviluppista e fondata sulla crescita che sottende. Quasi un destino iscritto nella storia e quindi sottratto alle persone che lo vivono.
«[…] idea di storia lineare, sviluppista e fondata sulla crescita […]»
Aggiungo soltanto che la visione che questa classe dirigente si ostina a promuovere in ogni anfratto è irrimediabilmente antropocentrica e si rifà in continuazione ad un anacronistica nozione della natura da “conquistare” tipica dell’umanesimo illuminista.
Altro che boomers. Trattasi di zombies belli stagionati.
A lato: mi piacerebbe tanto sapere quali sono state le parole, la domanda o affermazione, che sembrano sorprendere fino a zittire per più di 30 secondi il governatore al minuto 3:29 del video.
Per quei pochi istanti sembra che abbia un paio di orecchie funzionanti e che stia ascoltando!
Non credo fosse un insulto in quanto la reazione sarebbe stata certamente diversa. Confesso che la mia è pura curiosità però se qualcunə c’era e si ricorda o ha una registrazione audio migliore…
Si era rivolto a chi lo contestava usando solo il maschile, gli hanno fatto notare che a contestarlo non c’erano solo uomini e lì ha avuto proprio l’aspetto di un pesce fuor d’acqua. Poi, per uscire da quella panne, ha sbracato.
Parlandone con altre persone che erano presenti o hanno visto il video, sembra che a prendere Bonaccini in contropiede sia stata soprattutto la critica all’espressione «i ragazzi» riferita a chi contestava. Non solo per l’uso esclusivo del maschile ma perché il termine è suonato – anzi, era – infantilizzante. Gli hanno ribattuto «qui ci sono uomini e donne» e lì ha annaspato.
A proposito di sabotaggio, ecco una forma indubbiamente nonviolenta e accompagnata da argomentazioni scritte nel modo e col tono giusto, praticata in vari paesi già da qualche anno: la notte scorsa nel centro di Bologna sgonfiate le ruote di 70 SUV.
https://www.bolognatoday.it/cronaca/gomme-suv-sgonfiate-ambientalisti.html
Forma di sabotaggio a mio vedere inadeguata che farà la gioia del rossobruno di quartiere.
Va premesso (e non è cosa da poco) che il peso di un SUV appoggiato per un po’ su una gomma del tutto sgonfia deforma e danneggia le carcasse, cosa che può tradursi in un brutto incidente nel futuro a venire.
Messa da parte questa questione, i manifestanti sembrano avere interiorizzato completamente la teoria del “consumo consapevole”, adiacente al concetto della “carbon footprint” inventata dal marketing BP e a quello della “flygskam” resa popolare dall’antipatica child star svedese che ha sostanzialmente neutralizzato ogni possibile avanzamento concettuale su questo fronte.
Vale a dire: i manifestanti sentono in dovere di penalizzare (e inimicarsi) il padre di famiglia che si è comprato a rate il prodotto-di-consumo macchina-brutta–e-ingombrante-che-va-di-moda, magari ibrida (e quindi automaticamente grossa e pesante, n.b.), mancando il punto in modo direi clamoroso.
Il punto, naturalmente, non è il possesso di un certo bene, per quanto brutto.
E, se proprio vogliamo metterla così, TUTTE le auto più giovani di 10 anni, se non 20 o 30, sono un insulto, non solo quelle brutte, solo il parco circolante a Cuba si salva, per frequenza di sostituzione quanto per proprietà intrinseche del progetto – per questo rimando a https://solar.lowtechmagazine.com/2008/06/the-citroen-2cv-cleantech-from-the-1940s/ e articoli linkati.
Il punto è che l’automobile – per quanto brutta e ingombrante – viene usata al 90% per soddisfare la necessità inderogabile di
– percorrere distanze nello spazio
– entro tempi che si hanno a disposizione
– acquistando il carburante disponibile sul mercato (al 95 o 90% fossile, che NON È sinonimo di “combustibile”)
Sarebbe più accorto accanirsi contro le cause che inducono tale domanda di spostamento: diaspora dei centri urbani, tagli ai servizi di ogni tipo, necessità di giungere vivi al lavoro salariato senza finire in terapia e senza occupare 4 ulteriori ore della propria giornata.
L’azione corretta sarebbe, boh, un cyberattacco che renda airbnb.com inutilizzabile per una settimana, per dire, o bersagliare i distributori, o, se piace il vintage, opporsi al lavoro stesso picchettando qualche fabbrica, ma vabbè.
Mi permetto di fare una postilla necessaria che non ho fatto in tempo a infilare, che ci riporta al topic principale: niente ferma il traffico e induce gli attori economici ad abbandonare le proprie prospettive di bruciare carburante quanto il sabotare un’autostrada, anzi: se necessario tutte le autostrade e tangenziali che permettono al capitalismo di trasportare merci a velocità sfrenata.
Quelli sì che sono metodi di lotta che funzionano.
Serve avere l’accortezza, però, di capire che così non si blocca solo il padrone, ma pure il signor Rossi che va a farsi la giornata al mare, con tempi calcolati al secondo nell’unico giorno di vacanza che il padrone gli concede, e vanno integrate con lotte di altro tipo, finalizzate a restituire tale giorno di vacanza al signor Rossi – per non dire una settimana lavorativa da 30 ore al più.
E quindi di nuovo: bloccare l’autostrada, bloccare la fabbrica (=giorno di vacanza per tutti) e organizzare un picnic in bicicletta in campagna, ogni Venerdì, TUTTO CONTEMPORANEAMENTE e sotto gli stessi auspici (*).
Ritengo che senza questo tipo di azione non si possa avanzare, rimanendo “ingarbugliati” nelle reciproche dipendenze degli attori in gioco.
(*) Volendo essere maliziosi viene da sospettare che le recenti fortune del lavoro-da-casa anche presso alcuni capitalisti lungimiranti siano legate proprio alla considerazione che uno stabilimento “diffuso” in ogni salotto non si possa picchettare…
Io ho letto diversi reportages e comunicati riguardanti questa pratica, lo stesso Malm – un marxista fatto e finito – ne dà una lettura interessante. Per carità, non è sicuramente *la* tattica delle tattiche, ma mi sembra fuori fuoco dire che la cornice è quella del «consumo consapevole». Il focus di ogni discorso sui SUV che accompagna azioni del genere è sempre sull’insensatezza sistemica del produrre veicoli del genere, ultra-energivori fin dalla fase del reperimento delle materie prime, sproporzionati per l’uso urbano, molto più inquinanti della media, pericolosi per i conducenti di altri veicoli e due volte più pericolosi per i pedoni di qualunque altra vettura, nonché sul piano estetico titillanti sogni di superpotenza stradale, cioè di privilegio e prepotenza di classe nella mobilità.
Mi sembra che l’obiettivo sia di sensibilizzare su questo, rendere i SUV impopolari soprattutto presso la vasta massa che non li usa, e meno desiderabili da parte di chi li usa (perché da qui in avanti portatori di rogne, “sanzionabilI” in qualunque momento), fino a innescare processi di “disincentivazione sociale” a produrli ancora.
Visti anche i quartieri di Bologna in cui i SUV sono stati individuati e “sanzionati”, ho seri dubbi sul ritratto del “buon padre di famiglia che si è comprato la macchina a rate”. È stato colpito un campione piuttosto tipico di alta borghesia, e in modo anche gentile.
Infine, è già da qualche anno che in diversi paesi si adotta periodicamente questa tattica, e ho cercato notizie su effetti boomerang, conseguenze indesiderate, campagne d’allarme perbeniste in difesa dei proprietari di SUV ecc. Al momento non he ho trovate. Sembra che le opinioni pubbliche non si indignino particolarmente se qualcuno sgonfia le gomme dei SUV spiegando perché lo fa. Forse i SUV stanno più sul cazzo di quanto ci dica la loro onnipresenza nella pubblicità.
Provvedo a recuperare Malm.
Non posso dire di conoscere la realta bolognese, ma quelle mostruosità su quattro ruote sono diffuse anche al di fuori dei quartieri ricchi – e hanno effettivamente un sacco di problemi, tra cui quello di uccidere sul colpo perchè nell’impatto prendono di mira torso e testa anzichè gambe, togliere tutta la visibilità a un veicolo normale ed essere così fottutamente grandi che due SUV occupano la stessa carreggiata che tre Panda potevano dividersi (a spese della possibilità di un sorpasso in sicurezza, soprattutto da parte di un motociclista o perfino ciclista).
Dovrebbero semplicemente non essere omologabili se non come autocarro.
Ma tornando a bomba:
Stiamo
a) colpendo i benestanti-in-quanto-tali (anzi, in quanto consumatori), oppure
b) stiamo colpendo i SUV in quanto oggetti-che-stanno-sul-cazzo
?
La possibilità b) è limitata per motivi evidenti.
Tra l’altro a me stanno ancora più sul cazzo i monopattini — pericolosi, complicatissimi e con un sacco di materiali ed energia incorporata che vanno veloci quanto una cazzo di bicicletta guidata da un vecchio.
Anzi, mi stanno sulle palle pure le bici elettriche per i motivi di cui sopra, e pure le biciclette non elettriche con sospensioni e freni a disco, laddove sostituiscono un vecchio telaio perfettamente funzionante ma poco “trendy”.
Mi stanno tantissimo sul cazzo gli smartphone, che trasformano i propri portatori in autentici attuatori nel mondo fisico degli automi di Zuckerberg e soci.
Ad altri stanno irrazionalmente sul cazzo le motociclette, e mi dispiacerebbe assai se sgonfiassero le gomme alla mia.
La protesta di “sfregio il bene di consumo che mi sta sul cazzo” è inevitabilmente arretrata e non può essere sistematica: nessuno è al sicuro.
La possibilità a) è ancora peggio.
Che ce ne frega, in definitiva, di colpire il benestante-in-quanto-consumatore (o anche solo in-quanto-dirigente)?
È questa la lotta di classe più avanzata, nel tempo in cui la finanza e gli algoritmi creano strutture di potere estremamente impersonali, estremamente distribuite ed estremamente automatiche?
Diventa complicato anche solo colpire il capitalista-in-quanto-tale, se il capitalista è un migliaio di piccoli azionisti.
Occorre mettere i bastoni negli ingranaggi dell’automa-capitale stesso, occludendone le arterie, bloccando autostrade, fabbriche e tagliando i cavi in fibra ottica.
P.s.: Non sottovaluterei l’effetto boomerang complessivo degli ultimi 10 anni di proteste sconnesse e “social”, nel mezzo delle quali il “backlash” delle specifiche azioni può essere irrilevabile.
La mia obiezione è metodologica. Nessuna tattica, considerata da sola, può essere «la più avanzata». Non dobbiamo cercare LA tattica, come non ha avuto senso cercare per anni, per decenni, «IL soggetto» più avanzato, quello centrale, il più rivoluzionario, l’unico dalla cui posizione nel capitalismo odierno si potesse far leva ecc. ecc. Da queste premesse potevano derivare solo catene di snobismi e scomuniche: «pfui, non è certo questa la lotta che si dovrebbe fare», «eeeeh, ben altre tattiche andrebbero impiegate», «state solo perdendo tempo mentre la ristrutturazione è già passata e ben altre sono le soggettività in campo» ecc.
Noi stiamo cercando di ragionare in termini di ecosistemi di lotte e di forme d’azione: forme tutte limitate se astratte dal contesto, certamente tutte migliorabili, ma ciascuna con un suo senso nell’insieme, e nessuno prende le distanze dalle tattiche altrui.
Per quanto riguarda il backlash, io prendo a esempio il paese europeo che da anni ha la conflittualità sociale più alta e meglio dispiegata, e dove le lotte non sono solo rappresentazioni “social” ma concrete e fatte di corpi. Il governo ha appena avviato un processo che dovrebbe mettere fuori legge il movimento Les Soulèvements de la terre, che nasce dalla vittoria di una grande, e longeva, lotta popolare in difesa di un territorio, quella della ZAD di Notre-Dame-des-Landes.
Perché il governo si è spinto così in là nell’adottare “estremi rimedi”? Perché si è trovato di fronte a quello che per Macron e compagnia è un ecosistema di “mali estremi”. La lotta contro la riforma delle pensioni, la lotta contro i megabacini idrici, situazioni di insubordinazione e diffusa insorgenza sociale.
Insorgenza che deve molto alla lotta precedente, quella dei Gilet gialli, che scaturì dal rifiuto da parte delle classi popolari di pagare in modo sproporzionato la “transizione ecologica”.
Dentro tutto questo, si sono adottate e si adottano le tattiche più variegate. E anche grazie a queste sequenze rivoluzionarie che ogni tanto si avviano, a questa sorta di «’68 geotermico» che ogni tanto erompe, la situazione in Francia è indubbiamente migliore che da noi. La società francese si è “thatcherizzata” più lentamente e meno sistematicamente che nei paesi limitrofi, come fa notare Serge Quadruppani nel suo recente Histoire personelle de l’ultragauche. E quindi c’è più margine per lottare rispetto a qui.
In Francia il backlash è quello repressivo dello stato, non certo quello dell’opinione pubblica, che invece risulta maggioritariamente ostile al governo e alla polizia. E in mezzo a tutto questo qual è il movimento che il governo dichiara fuorilegge, quello che più lo stava mettendo in difficoltà? Un movimento di ecologismo radicale. E noi stiamo qui a soppesare i pro e contro dello sgonfiare gomme dei SUV? In Francia i SUV vengono spesso dati alle fiamme, e i loro proprietari non suscitano molta empatia.
Va detto che una macchina di lusso in fiamme è una gioia per gli occhi e per lo spirito.
https://www.carscoops.com/2018/12/frances-yellow-vests-destroy-porsche-911-mercedes-amg-gt-luxury-cars/
Ed è sempre bello quando in estate qualche yacht prende spontaneamente fuoco da qualche parte in qualche porto di lusso, magari in Dalmazia, dove un tempo andavano in vacanza gli operai delle fonderie bosniache e ora invece gozzovigliano i mafiosi russi, ucraini e brianzoli.
Fičo e Dalmazia per tutti, morte ai SUV.
p.s. certe macchine, oltre a essere un’oscena ostentazione di plutocratica sicumera (cit. Paperino), sono vere e proprie armi, sono pensate per essere armi, come lo è un fucile. Se qualcuno avesse sgonfiato le gomme o dato fuoco alla Lamborghini di Roma, avrebbe salvato un bambino.
Il Resto del Carlino pubblica oggi (21 giugno) un’intervista a Stefano Susani, amministratore delegato di Tecné (Gruppo Autostrade). Il dirigente vorrebbe dimostrare che l’allargamento della Tangenziale e dell’A14 (il cosiddetto “Passante di Bologna”), pur asfaltando 20 ettari di suolo e impattandone 300 con i suoi cantieri, sarà invece una benedizione in caso di piogge abbondanti, perché «l’ambiente rimarrà inalterato» (!) e verranno migliorate «le prestazioni del terreno» (quasi fosse una macchina da rendere più efficiente), grazie anche a “periodici interventi di manutenzione”.
Il contenuto dell’intervista, tuttavia, perde qualunque credibilità per via di alcune affermazioni di Susani.
Anzitutto sostiene che: «La certificazione di eccellenza Envision che ci ha dato l’Ue non è casuale».
Peccato che a rilasciare la certificazione Envision non sia affatto l’Unione Europea. Envision – che dovrebbe premiare le “infrastrutture sostenibili” – nasce negli Stati Uniti e arriva in Italia grazie a ICMQ spa, un organismo di certificazione i cui soci effettivi sono Enel, Rete Ferroviaria Italiana, Associazione italiana tecnico economica del cemento, Associazione tecnico economica del calcestruzzo preconfezionato, Associazione italiana operatori del settore bitumi, e altre associazioni di categoria del mondo delle costruzioni. Non proprio una garanzia di obiettività… e certo nulla a che vedere con l’UE.
Più avanti, Susani dichiara che «con il Passante aggiungeremo 130 ettari di opere verdi che dreneranno meglio l’acqua»
La superficie di queste famigerate “opere verdi” cambia ogni volta che Autostrade, o la Regione o il Comune di Bologna affrontano la questione, dimostrando che si tratta di numeri usati un tanto al chilo, senza un interesse sostanziale, come strumento di propaganda e foglia di fico (verde) utile a coprire i danni che il Passante comporterà per l’ambiente e la salute dei cittadini.
Il 20 aprile scorso, in un’udienza conoscitiva del consiglio comunale di Bologna, l’ingegner Fabio Visintin, responsabile unico del progetto “Passante”, ha assicurato che si faranno 180 ettari di opere verdi.
In un’intervista a Repubblica di qualche mese fa, l’assessore regionale Andrea Corsini ha parlato di «130 ettari di bosco»
Sul sito di Autostrade «l’anello verde» è di «circa 160 ettari»
Sulle pagine on line del Comune di Bologna sono annunciati «140 ettari di interventi a verde»
Le cifre ballano, con una forbice di 50 ettari, pari a un terzo delle opere promesse, ovvero due volte la superficie dei giardini Margherita. Non proprio una garanzia di credibilità.
Ma chiunque si prenda la briga di studiare le mappe del progetto definitivo (quello esecutivo ancora non s’è visto), può rendersi conto che il 97% di questi interventi trasforma in verde pubblico terreni che erano già verdi: campi coltivati, prati, e addirittura giardini, in cui verrà semplicemente aggiunta qualche panchina, qualche alberello.
Susani questo lo dice chiaramente, anche se il dato è sepolto in mezzo a decametri cubi di fumo:
«In quattro punti della città, circa 6 ettari, rivitalizzeremo il suolo». 6 ettari: questa è la reale superficie di suolo che verrà deimpermeabilizzato, cioè liberato dall’asfalto. Contro i 20 ettari che verranno coperti dalle nuove corsie del Passante.
Si tratta di quattro aree, una delle quali – che Susani chiama erroneamente “parcheggio di via Michelino” – è in realtà un parcheggio temporaneo della Fiera, in via Romita, denominato “area ex-Michelino” (circa 2,5 ettari). Un parcheggio che venne creato nel 2008, al posto dei campi, per risarcire la Fiera di 500 posti auto perduti a causa dei lavori di Autostrade per il nuovo casello Fiera. Quindi, con il Passante, Autostrade libererà dall’asfalto una superficie di due ettari e mezzo… che venne asfaltata proprio in seguito a lavori fatti da Autostrade. Una superficie dove, già oggi, sono cresciuti pioppi, erba, e addirittura coltivazioni, rompendo la crosta che la ricopriva.
Concludiamo ricordando che in più occasioni abbiamo percorso a piedi i sentieri che costeggiano la Tangenziale, dalla Croce del Biacco alla Birra, e abbiamo visto con i nostri occhi come sono ridotti gli embrici (cioè le canalette per l’acqua) costruiti sulle scarpate stradali. Crollati, distrutti, ricoperti di terra. Abbiamo visto cascate d’acqua allagare il sottopassaggio tra via Agucchi e le cave Pederzoli, non più di due mesi fa. Per questo, e per molto altro, quando Autostrade per l’Italia parla di «periodici interventi di manutenzione» un brivido ci corre lungo la schiena.
Segnaliamo anche l’intervista rilasciata a Radio Città Fujiko.
https://www.radiocittafujiko.it/il-passante-anti-alluvione-wu-ming-e-propaganda/
Una piccola critica e un appunto riguardo i danni che il passante comporterà per l’ambiente e la salute della gente.
La critica riguarda una specie di “vizio di forma” del linguaggio che usiamo un po’ tuttə parlando di “temi ambientali”: credo che l’ambiente e la salute della/del cittadinə dovrebbero cominciare ad essere considerati, da chi se ne occupa a qualsiasi livello, come una cosa sola, inseparabili. Penso che sia importante specialmente se
riteniamo vero che «non c’è parola o frase che non inquadri un dato problema secondo la prospettiva ideologica di chi la usa».
L’appunto che vorrei fare mette in evidenza proprio questo vizio. Attenzione, però: le parole che seguono potrebbero urtare la sensibilità di alcunə.
Leggendo l’istruttoria VIA per il “passante”, alla pagina 81 del PDF scaricabile online, si apprende che, in tema di Salute Pubblica, il DPCM di riferimento risale al 1988. Per chi non lo sapesse il primo COP si è tenuto nel 1995.
Tranquillə, non c’è ragione di farsi prendere dal panico:
«Si evidenzia in proposito che la bozza di nuovo decreto in materia di Valutazione di Impatto Ambientale (VIA), in fase di emanazione, NON prevede l’esecuzione della Valutazione d’Impatto Sanitario (VIS) per le infrastrutture stradali ed il trasporto né tantomeno l’analisi epidemiologica».
Vai così!
https://yewtu.be/watch?v=nQVej2gP0Ko
Facendo ricerche bibliografiche professionali sulla VIS, se ne scopre il mondo. Alcune aree dell’Europa (GB, Svezia, Danimarca, Francia) e del mondo (Australia, Nuova Zelanda), sono all’avanguardia. Può capitare di imbattersi in studi scientifici che applicano la VIS alla costruzione di un ponte, o di un semplice supermercato (non centro commerciale, si badi). Sviluppando gli studi si osserva che un supermercato ha un impatto sanitario non solo perché attira e crea traffico ma anche perché, sul medio-lungo periodo, fa chiudere la bottega di prossimità, e questo crea problemi economici e psicologici (non solo nei titolari dei negozi, ma anche negli anziani del quartiere, nei ragazzini, nei genitori indaffarati), che hanno un ricasco sul sistema sanitario. Si scopre che è possibile stimare l’aumento della spesa per farmaci dedicati, e discipline come la sociologia e la psicologia hanno un ruolo non secondario.
Ora immaginiamo se un tale schema venisse applicato al passante; l’inquinamento da rumore e da traffico sarebbe probabilmente il minimo. Il mio timore è che i comitati di quartiere bolognesi continueranno a chiedere la VIS che non verrà mai concessa (come fa notare dude), perché scoperchierebbe il vaso di Pandora.
In Italia c’è il mondo della VIA. Un mondo che contiene stime di impatto sanitario, che però sono spesso firmate da ingegneri o geologi. Che contiene il contraddittorio con le popolazioni locali i cui rilievi si perdono e scompaiono nei meandri delle conferenze dei servizi. Che contiene stime previsionali di inquinamento basate su osservazioni di qualche giorno, qualche settimana nel migliore dei casi.
Nel mondo della VIA italiana la disciplina dominante non è l’epidemiologia, o la chimica ambientale, o la biologia, o la sociologia; è l’economia, ma piegata alle esigenze di un supposto sviluppo al quale basta e avanza avere il fiato corto, perché non gli serve altro.
La mia personale esperienza mi dice che, se di avanguardia si tratta, è di tipo prescrittivo.
Se può interessare: in UK, facendo un paragone diretto con la situazione in Italia, direi che “l’ecosistema” all’interno dell’apparato amministrativo è sicuramente più “areato” e dinamico. La documentazione riguardante la salute delle cittadinə rappresenta una parte sostanziale di qualsiasi progetto, sia a livello locale che nazionale.
C’è da dire però che, soprattutto per quanto riguarda le grandi opere, anche lassù, è (quasi) tutta roba di facciata. Greenwashing fatto forse più ad arte.
In realtà il potere legislativo/esecutivo appartiene indiscutibilmente, forse in maniera anche più preponderante, al capitale che estrae valore proprio dai vari passaggi burocratici che appaiono più “agili” rispetto a quelli italiani.
Agilità dovuta al maggiore circolo di capitali e quindi investimenti, sempre rispetto all’Italia, fatti nei/dai vari istituti di ricerca, pubblici e privati, studi legali, associazioni di ogni genere che si occupano di valutare la situazione ambientale dai vari punti di vista.
Ci sono poi i soldi spesi dall’amministrazione pubblica, tutta roba che và a sostenere (puntellare) il mito del PIL (GDP), attraverso un settore, quello della cosiddetta industria dei servizi, che nel Regno Unito rappresenta quasi l’80% del prodotto e del mercato del lavoro.
Insomma, anche lì se l’infrastruttura s’ha da fare, se cioè per tutta una serie di contingenze l’amministrazione pubblica ritiene che l’opera possa essere in qualche modo economicamente vantaggiosa, non c’è VIA/VIS o sentenza che tenga: l’opera si farà (quasi) sempre.
Per chiudere direi che, per quello che riguarda le lotte alla devastazione ambientale, sono qualitativamente/quantitativamente diverse e, spesso, poco efficaci; basta buttare un occhio all’opposizione all’alta velocità.
A dire il vero tra le poche lotte che sono state in grado di fermare grandi opere devastanti, svariate sono lotte all’AV. A parte la Valsusa, dove in 32 anni non si è posato un solo metro della nuova linea più volte annunciata e nel frattempo riprogettata, spezzettata, ridimensionata; a parte la Valsusa, pochi ricordano che negli anni zero una mobilitazione popolare fece ritirare un progetto assurdo di AV Venezia-Trieste e qualche anno dopo un’altra mobilitazione bloccò l’AV a Vicenza.
Certo, sia in Italia che in Francia l’opposizione all’AV, nonostante l’accanimento istituzionale e dell’opinione pubblica “at large”, riesce ancora ad essere efficace. Nel mio intervento mi riferisco a quella in UK dove in poco più di dieci anni si è passati dalla fase di progettazione a quella di approvazione in parlamento fino all’inizio dei lavori nel 2019. Una vera e propria tragedia dei “commons”.
«Se qualcuno avesse sgonfiato le gomme o dato fuoco alla Lamborghini di Roma, avrebbe salvato un bambino».
Sintesi perfetta, geniale. Grazie Tuco.
Purtroppo nessi di questo tipo sono impossibili da “vedere” coperti come sono dalle spesse mura che proteggono il mito della proprietà privata.
Torno a questo testo dopo che stamattina ho letto dell’azione di XR qui a Bologna, tre striscioni a tema Passante e Parco Don Bosco che recitavano: i fuochi sono accesi / La terra chiede aiuto / Bologna risponderà, con riferimento ai fuochi di Gondor del Signore degli Anelli (https://www.bolognatoday.it/cronaca/striscioni-tangenziale-passante-extinction-rebellion-ambiente.html). Mi ha fatto molto piacere leggere di sta cosa per due ragioni:
-è importante il sostegno tra gruppi e lotte diverse in città. Nel loro testo xr cita l’assemblea nopassante (che ha appena ricevuto l’esito negativo del ricorso al Tar che chiede come punizione per tentata lesa maestà 60mila euro) e il Comitato Besta (questo sabato 9 marzo alle 14.00 ci sarà una manifestazione per ribadire che il Parco Don Bosco va salvato e le attuali scuole Besta ristrutturate, così da non consumare altro suolo)
-la riscoperta dell’immaginario fantastico da parte del movimento ecologista bolognese continua, per ora soprattutto riprendendo Tolkien. Alcuni giorni fa, dato che ho ripreso anche io in mano Il Signore degli anelli, mi è capitato di leggere dell’arrivo della Compagnia dell’anello nel regno di Lothlòrien dove gli elfi vivono sui flet, delle piattaforme di legno montate sugli alberi. In quel momento mi stavo dondolando sull’altalena del Parco Don Bosco (Bologna) e avevo davanti a me le piattaforme costruite sui pioppi del parco per impedirne la distruzione.
Ho la sensazione che siamo solo all’inizio di questa ripresa dell’immaginario fantastico e che la lotta ecologista sia l’accesso più “scontato” per dare forza a questo processo: a vedere (e soprattutto a salire su) i flet del Parco Don Bosco l’immaginazione parte da sola e sembra di essere in un libro a metà tra I ragazzi della via Pàl e Il Signore degli Anelli.
Sì, bisogna salutare felicemente questa riscoperta, sono d’accordo. E aggiungerei: era anche ora! Tra l’altro nelle varie storie ambientate nella Terra di Mezzo ci sono critiche alla devastazione ambientale anche più ficcanti di quelle che si trovano nel Signore degli Anelli (ma va benissimo cominciare da lì). Per esempio, l’imperialismo numenoreano nella Terra di Mezzo durante la Seconda Era (cioè precedente di alcuni millenni agli eventi narrati nel SdA) ha tra i suoi moventi l’abbattimento di boschi e foreste per procurarsi il legname necessario a costruire la flotta della potenza commerciale-coloniale. E per farlo i numenoreani devono poi sloggiare le popolazioni autoctone con le quali finiscono per entrare in guerra. Espansione mercantile, nascita di colonie commerciali, attrito e scontro con gli indigeni, vanno di pari passo con la deforestazione. Il legame tra espansionismo economico-militare e abbattimento degli alberi è strettissimo nella storia della Terra di Mezzo. Questo crea le premesse per il passaggio successivo dell’impero di Numenor, che è quello di farsi sedurre da Sauron, con l’instaurazione di un regime totalitario. La merda comincia sempre dall’abbattimento degli alberi.
(Vedi “Racconti Incompiuti” – Parte Seconda – Aldarion ed Erendis: la moglie del marinaio).