[Nota del 2 marzo 2006. Pubblichiamo un racconto intitolato "1954", scritto sette anni or sono dall'anconetano Luca Pettinelli. Di seguito, la premessa dell'autore, dove si spiega perché lo pubblichiamo.]
1954: UN RACCONTO, UNA COINCIDENZA di Luca Pettinelli Mi è stato giustamente (e, aggiungo, cortesemente) chiesto di redigere una nota introduttiva al racconto per dare conto in qualche modo della sua genesi e delle motivazioni che mi hanno spinto a scriverlo. Dato che non sono uno scrittore affermato con un pubblico dotato di aspettative, non credo di deludere nessuno dicendo la pura e semplice verità e cioè che non so perché l'ho scritto. Giusto o sbagliato che sia, nella mia testa è nato così come lo leggete, come un bambino che venga al mondo già con baffi, basette, jeans e camicia. D'altronde però, come per altre mie cose, ricordo abbastanza bene il momento in cui l'idea si affacciò e i sentimenti che devono aver contribuito al suo formarsi. Questo per dire che probabilmente niente è privo di una spiegazione ma quelle che leggerete qui sono state dedotte in seguito. Correva l'autunno del 1999. Era sera, si fumava, parlava e beveva fuori da un locale del centro approfittando degli ultimi avanzi di calore nell'aria. Dall'altra parte della strada incombeva un palazzone umbertino di proprietà di qualche ente pubblico, un fabbricato di quattro piani in disuso almeno da quando ho memoria di me. Senza quasi accorgermene mi estraniavo dalle chiacchiere che si accatastavano pigre e inconsistenti una sull'altra e tentavo di attribuire un significato qualsiasi a quel monumento al degrado. Immaginavo vite lontane animare le stanze e i corridoi nascosti dietro le imposte ormai corrose, passi leggeri di ragazze varcare i battenti del portone oggi malamente accostati e mantenuti chiusi da un catenaccio arrugginito, parole, gesti, gioie e dolori di un'umanità che per decenni doveva essersi mossa là dentro senza poter prevedere che di loro non sarebbe rimasta traccia se non nell'immaginazione (per la verità un po' fomentata dal whisky) di uno che in quel momento non aveva di meglio da fare. Un attimo dopo avevo in mente la storia: potevo vedere questo ragazzo di tanti anni prima fuori da una sala da ballo, un ventenne come avrebbe potuto essere allora mio padre, fermo su quello stesso marciapede con la sigaretta tra le dita a chiedersi se tra dieci anni sarebbe stato ancora lì a fare le stesse cose o se la vita gli avrebbe riservato qualcosa di diverso. A parte alcuni cugini di una nonna partiti per le varie americhe agli inizi del secolo, non ho precedenti di emigrazione in famiglia. Più che un pur ovvio desiderio di maggiore benessere economico, la scelta del giovane protagonista di raggiungere il fratello in Svizzera ha un valore simbolico di recisione netta dei legami affettivi, un voler ricominciare da capo in un posto che non si conosce e dove non si è conosciuti come se questo potesse tirare una riga su un passato per lo più oscillante tra noia e dolore. Anni dopo ho capito che forse la sua partenza cercava di compensare il mio ritorno nella provincia sonnolenta dopo una estenuante e improduttiva stagione di studi universitari in una grande città. "Vattene" ci dicevamo l'uno con l'altro io e la mia creatura "Qui non c'è più niente per te". Lui alla fine parte, io invece sono rimasto. Chi mi ha invitato a scrivere queste righe ha giustamente trovato curioso che nel 1999 vari cervelli stessero elaborando contemporaneamente l'idea di una narrazione ambientata nel 1954, ma se la scelta dei Wu Ming è stata dettata dall'esigenza di plasmare le vicende dei protagonisti sulla storia di quegli anni, la mia è stata, più semplicemente, in parte funzionale e in parte estetica. Funzionale perché mi serviva un periodo che giustificasse la giovane età del protagonista rispetto al suo essere ancora un bambino al momento della scomparsa del padre in guerra, estetica perché, per qualche motivo insondabile, pronunciare "1954" pareva riempirmi la bocca più di altri anni in quei dintorni. Chi ha avuto la pazienza di arrivare fin qui avrà cominciato a chiedersi: "Ma perché il racconto di questo tizio appare qui sopra?". Il racconto venne pubblicato, se così si può dire, nel 1999 sul gruppo di discussione it.arti.scrivere e là è rimasto sepolto in pace finché, circa un mese fa, ho acquistato una copia di "54". Mano a mano che avanzavo nella lettura prendeva piede in me l'idea frivola che qualcuno degli autori, sapendoli frequentatori della letteratura telematica, avesse tratto ispirazione del mio racconto per tratteggiare alcuni dei caratteri di Robespierre, il protagonista di "54". Giovane, di umili origini, grande appassionato di ballo, cresciuto senza padre. Pochi giorni fa la curiosità mi ha spinto a scrivere ai Wu Ming per ricevere una eventuale conferma del mio sospetto e mi è stato risposto cordialmente che no, non c'era alcun legame dato che nessuno di loro al tempo era al corrente del mio racconto. Chi mi ha risposto mi ha fatto inoltre notare, e a ragione, che nel 1954 essere spiantati, senza padre e appassionati di ballo non era certo appannaggio esclusivo di pochi (s)fortunati e che basta andarsi a leggere la genesi del romanzo per capire che si è trattato di una pura e semplice coincidenza. Va da sé che Il mio minuscolo e sconosciuto "1954" non può in alcun modo essere paragonato a "54", resta però la sensazione che entrambi abbiamo più o meno consciamente fatto riferimento a un periodo della nostra storia in cui un'Italia in macerie cercava faticosamente di rifarsi una verginità. E' in questo quadro che vivono e si muovono due giovani neanche troppo sottilmente simili. Sia il mio ballerino che quello dei Wu Ming sentono che la realtà così com'è non gli basta, che nessuna chiacchiera da bar o da balera riuscirà a dare conto di ciò che sentono agitarsi dentro, che la vita non finisce alle soglie del quartiere, che ballando e nient'altro passeranno settimane, mesi, anni e tutto resterà come prima. Non conosco personalmente i Wu Ming e quindi non mi azzardo a formulare ipotesi sui loro caratteri personali, quel che è certo è che sia nel mio protagonista che nel loro Robespierre ho avvertito queste caratteristiche che, almeno nel mio caso, raccontano piuttosto fedelmente il mio sentire di ormai sette anni fa e, credo, quello di molti altri ai quali l'adagiarsi nel ventre materno delle consuetudini e la saggezza pigra e immobile da detto popolare non sono mai bastati e probabilmente mai basteranno. Se è vero che i personaggi rispecchiano almeno in parte la personalità dei loro creatori e se il mio protagonista e Robespierre un po' si somigliano, mi arrischio ad affermare che forse anche io e i Wu Ming qualcosa in comune dovremmo averlo. In caso contrario mi riuscirebbe difficile darmi conto della similitudine tra le due intuizioni e questo voler parlare (anche) di noi e di oggi attraverso un passato che troppo spesso si vuol far passare per remoto. Ringrazio i Wu Ming per avermi dato la possibilità di spiegare l'equivoco e di presentare il racconto su queste pagine. Spero che piaccia anche solo una frazione del romanzo di cui è curiosamente coevo e omonimo. Luca Pettinelli, Ancona, 13/02/2006 1954 Gigi chiude la serranda, mi abbraccia e se ne va senza dire una parola. Adesso sono solo in strada. Questa volta non ho in mano il fagotto con dentro la tuta sporca di grasso: l'ultima sera volevo presentarmi al meglio, senza i segni della fatica. Chiavi, cacciaviti, ingrassatori, questa era la mia vita, la vita dell'officina, e questa continuerà ad essere, lontano da qui; il resto è sempre stato superfluo. Tutto tranne l'Excelsior, naturalmente, e Gigi, Sandro e tutti gli altri. |