Indice di /Giap/#38-39 - Di ritorno dal Quebec (numero doppio speciale) - 27 aprile 2001
 

0. Premessa editoriale e politica
1."Considerazioni da Quebec City (utili per Genova)" - di Beppe Caccia e Wu Ming Yi
2.Paura, delirio e tripudio a Quebec - appunti di viaggio di Wu Ming Yi
3. Come ricevere "Dal Messico al G8" - documento di Federico Martelloni e Wu Ming Sì - Cosa cambia in Europa dopo la Marcia della Dignita' zapatista

 
 

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Alcuni destinatari di /Giap/ (che ieri, è ufficiale, ha sfondato la quota dei mille iscritti) si sono lamentati perché, a loro dire, negli ultimi numeri si è parlato poco di letteratura, si è perso il tono "autoironico" a vantaggio di polemiche  "noiose", "stereotipate" e "da centro sociale".
Un iscritto ci ha addirittura elargito questo giudizio tranchant:


L'atteggiamento che avete scelto di adottare, ed il tono che continuate ad usare, è ormai sempre più radicalmente intollerante e fascista, benché usiate sempre più spesso questo vocabolo per attaccare i vostri avversari [...] È fascista il vostro esaltare l'azione diretta e lo scontro, benché violento, benché nemico di ogni dialettica. E altrettanto fascista è il gridare (e nascondersi) dietro slogan, simboli e frasi fatte [...] cogliete ogni occasione per erigervi a eroici paladini della resistenza. Ma siete così sicuri di resistere? A me pare che alla vanità ed al conformismo non abbiate resistito.

Va da sé che non concordiamo con questa visione: tutto quanto scriviamo su /Giap/ lo sentiamo intimamente connesso alla nostra attività di scrittori. Se la destra attacca e denuncia il nostro co-autore Vitaliano Ravagli per cose dette alle presentazioni di Asce di guerra, la cosa ci riguarda eccome, e abbiamo il dovere di riportare cosa succede. Inoltre, è notorio quanto sia peculiare il nostro essere "autori".
Di "ironia", poi, nell'accezione oggi dominante ("postmoderna", cinica, disincantata, pretesto per non appassionarsi mai a niente), ci sembra ce ne sia fin troppa, e comunque invitiamo a dare un'occhiata a tutta la nostra recente produzione da "Pantegane" a "Tomahawk".
Quanto agli stereotipi e alla noia del militantismo e del memorismo, forse, semplicemente, ci si confonde con qualcun altro: su /Giap/ si è sempre esercitata una decostruzione di certi atteggiamenti, e anche del mito della resistenza o della memoria storica (vedi /giap/#24 e /giap/#36).
Dopodiché, sono insopportabili espedienti del tipo sono-molto-deluso-ma-forse-sono-io-che-non-avevo-capito, degni di un Marco Tropea qualsiasi. Infine, è ora di finirla con quest'uso buonista e banalizzante dell'aggettivo "fascista", che serve solo a censurare e spargere bromuro etico-ideologico.
Questo numero doppio sulle tre giornate di Quebec è corposo e ci procurerà altre polemiche. Ben vengano. Ma niente predicozzi catto-scureggioni, please.
 
 

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CONSIDERAZIONI DA QUEBEC CITY (UTILI PER GENOVA)
 

-Uno-

Il "popolo di Seattle" è finito, al suo posto ci sono il "popolo di Okinawa", il "popolo di Napoli", il "popolo di Buenos Aires" e soprattutto il "popolo di Quebec City". Le ultime tre giornate canadesi hanno dimostrato che il movimento globale non è affatto in crisi demografica (come si temeva dopo Nizza e Davos) se riesce a far leva su specificità locali e territoriali. In concreto: si è stati in grado di valorizzare il diffuso sentimento anti-centralista e anti-imperiale del Quebec, rendendo le ragioni della protesta immediatamente comprensibili alla consistente minoranza francofona del Canada.
Diecimila dimostranti, dal primo pomeriggio di sabato all'alba di domenica, hanno assediato la cittadella proibita e abbattuto in più punti  il Muro della Vergogna. Hanno potuto farlo nuotando come pesci nel mare dei quaranta-cinquantamila partecipanti alle due manifestazioni convocate dai sindacati e dal Summit dei Popoli delle Americhe. A loro volta, tutti costoro hanno nuotato nell'oceano della solidarietà diffusa, in una città simpatetica che non si è chiusa, ha rifiutato il terrorismo psicologico e ha reagito in mille modi allo stato d'assedio.
Bar e locali aperti a poche decine di metri dagli scontri esibivano adesivi e cartelli con scritto "FUCK LE SOMMET". I cittadini del quartiere St.Jean Baptiste distribuivano acqua e bicarbonato contro i lacrimogeni. I taxisti davano consigli ai dimostranti sui tragitti più sicuri da percorrere.
Avviando dinamiche di riterritorializzazione, la pratica supera lo stereotipo mediatico e il rischio concreto dell'"esercito professionale", dei "globetrotters della protesta" che calano come barbari su città a loro estranee.
 

-Due-

Non c'è stata alcuna contrapposizione, neppure in termini di sovrapposizione temporale, tra l'azione di strada e il lavoro da "controconvegno" con la partecipazione dei delegati di associazioni e sindacati, di "esperti" alternativi etc. Mentre a Seattle sopravviveva l'illusione di un "confronto" democratico con tanto di osservatori alle riunioni del WTO, commissioni miste fintamente paritetiche, stesura di emendamenti a trattati inemendabili, a Quebec City quest'illusione è evaporata ancor prima dei gas. Anche il composito mondo di ONG, gruppi ambientalisti, trade unions e intellettuali critici ha rifiutato qualsiasi livello di mediazione e confronto, definendo l'FTAA un "progetto neoliberale razzista, sessista, distruttore dell`ambiente".
 

-Tre-

L'assenza di divisioni "a monte" non sopprime le differenze, ma determina un'assenza di divisioni "a valle". Checché ne pensino "esperti" di movimenti anti-globalizzazione che pontificano dalle loro scrivanie romane, a Quebec City non vi è stato alcuno spazio per l'oziosa, inutile, snervante controversia su violenza e non-violenza.
Una volta individuato un obiettivo comune (l'attacco al Muro della Vergogna), si è avviata una dialettica aperta tra i diversi modi di praticarlo: in questo Quebec City supera Praga con balzi da gigante. Nessuno si è dissociato dalle azioni di nessun altro o ha cercato di dare lezioni su quale fosse IL modo di praticare l'obiettivo. La stessa logica "gruppettara" delle identità predefinite (il "blocco blu" tira le molotov, il Black Bloc spacca le vetrine, il "blocco giallo" fa la disobbedienza civile e tutti gli altri sfilano il più distante possibile) è stata messa da parte perché ormai inadeguata. A migliaia si sono staccati a piccoli gruppi dal corteo sindacale, e non erano "i soliti estremisti che cercano di deviare il corso di un corteo altrimenti pacifico": molti di loro erano gli stessi attivisti sindacali che il corteo l'avevano organizzato. Molti altri erano cittadini comuni, ragazzi e ragazze delle scuole superiori etc. Ognuno ha fatto la sua parte: gruppi d'azione organizzati agganciavano con rampini e corde i pali di sostegno del reticolato, altri li coprivano tirando sassi, altri rispedivano al mittente i candelotti di gas urticante, altri ancora soccorrevano le persone colpite dai gas, una grande moltitudine faceva da "cuscinetto" e sosteneva il morale di tutti. Quest'interagire ha permesso la distruzione in più punti del muro e l'assedio permanente del summit.
Non è stata in alcun modo la recita di un copione scritto dal nemico. L'esempio del "famigerato" Black Bloc è forse il più indicativo. Criticato a Seattle (anche dal Direct Action Network) per lo sfondamento indiscriminato di vetrine, nonostante la demonizzazione continua ha saputo mettere in discussione le proprie pratiche, adottando e adattando elementi delle tute bianche europee, come le imbottiture, gli scudi di plastica e i caschi protettivi. Il fatto stesso di difendere le posizioni conquistate, contrattaccando e superando la vecchia strategia del "mordi e fuggi", li sottrae al ruolo di "schegge impazzite" e li rende una delle sinapsi di un cervello collettivo.
Non a caso, sull'Esplanade des Ameriques Françaises, il Black Bloc non ha ricevuto critiche bensì applausi.
Non a caso, uno dei cortei di venerdì era aperto da un cordone misto di tute bianche e blocco nero.
Se ne è accorto persino l'inviato del "Corriere della Sera" Ennio Caretto:

Quebec non è solo Seattle, è qualcosa in piu'. Ha un significato politico preciso: anche la gente comune si è mobilitata, il movimento non potrà più essere liquidato come una scheggia impazzita dei verdi e degli anarchici. E' destinato ad ingrandirsi, i leader saranno costretti ad ascoltarlo in tutto il mondo (22/04/2001).
 

-Quattro-

L'effetto di questo intreccio di pratiche è stato visibile a tutti: il muro divelto in più punti, tutto l'apparato di sicurezza impegnato nella difesa estrema di più varchi fino alla fine del summit. Impossibilitata a gestire sia politicamente sia militarmente un rastrellamento con arresti di massa (tipo Seattle il primo giorno) o una mattanza generale (alla partenopea), la polizia ripiegava sul conflitto "a bassa intensità". I reparti della polizia canadese si sono sottratti per quanto possibile al contatto diretto coi dimostranti, ricorrendo a un bombardamento a distanza tipo Belgrado '99, sparando a intervalli regolari centinaia di candelotti lacrimogeni, non smettendo fino alla conclusione del vertice. Mentre gli assedianti, favoriti dal forte vento del nord, sono riusciti a proteggersi con maschere anti-gas e a limitare i danni grazie al supporto di tutti, non sono mancati "effetti collaterali" sugli stessi assediati: la quantità di gas era tale da contaminare i cibi del buffet serale e far chiudere le cucine dell'Hotel Palais Royal.
 

-Cinque-

La frontiera tra USA e Canada si è trasformata in una lunga cortina di ferro presidiata da ogni genere di polizia. Centinaia di attivisti statunitensi sono stati respinti con ogni genere di pretesto. A volte è bastato il possesso di un volantino anti-FTAA. Ne ha fatto le spese anche la carovana organizzata dal Direct Action Network e da Ya Basta! di New York,  cinquecento militanti che hanno cercato invano di passare con un`azione di disobbedienza civile e l`aiuto dei mohawks della riserva di Akwesasne, tagliata in due dal confine.  Solo pochi militanti di Ya Basta! sono riusciti a entrare. A differenza di quello europeo, il movimento nordamericano non si era mai dovuto porre il problema delle frontiere e della loro chiusura. Mentre scriviamo, ormai da quattro giorni decini di militanti sono chiusi in un centro di detenzione amministrativa per immigrati clandestini. Gli attivisti della costa occidentale degli USA e del Canada, con lucidità, hanno rinunciato all'idea di raggiungere il Quebec, e hanno organizzato grandi manifestazioni sul confine tra Vancouver e Seattle e a Tijuana. E' chiaro a sempre più persone il legame tra regolazione dei flussi migratori e restrizione della libertà di movimento e del diritto di manifestare. Uno dei limiti della mobilitazione di Quebec City sta forse nel fatto che il problema della frontiera se l'è posto solo chi doveva passare e non chi organizzava in loco. Errore da non ripetere.
 

-Sei-

Sciacquare la tuta bianca nelle acque del St.Laurent.
Non possono darsi forme d'azione di piazza che non siano traduzione diretta di un allargamento del consenso e della partecipazione, di una maturazione dell'agire politico. Nulla di quanto è successo per le strade di Quebec City è stato fine a se stesso o appartenente soltanto a una dimensione "militare". Ciò riguarda da molto vicino la questione della "disobbedienza civile all'italiana": non è una tecnica del "tenere la piazza", ma una proposta politica, quella di un metodo in grado di produrre conflitto radicale, di comunicarlo, di costruire consenso intorno ad esso. Non uno schema fisso (peraltro decodificabile e neutralizzabile dal nemico), ma una dinamica che, proprio partendo dal radicamento locale, guadagna nuovi terreni.
L'obiettivo è scelto e condiviso, praticato in forme differenti, conseguito non da questa o da quella "componente" del movimento, ma da una moltitudine in un territorio amico. Questa moltitudine ha legittimato ogni pratica utile ad assediare il summit, buttare giù il muro, difendere chi agiva in prima persona. Sarà dura per i corvi che già gracchiano su Genova svolazzare sui cieli del Quebec.

Beppe C & Wu Ming Yi
Upper East Side, Manhattan, New York
h.1.00 am del 23 aprile 2001
 
 

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Un'esplosione di gioia e potenza, difficile da comprendere per chi ha potuto leggere solo il "Manifesto" o le annacquature di "Repubblica" (ottenute ricicciando i dispacci delle agenzie e per il resto tirando a indovinare).  Anche Indymedia (www.indymedia.org/ftaa/) non poteva rendere la complessità e l'esaltazione, perché ha dovuto appiattirsi sulla cronaca della repressione, gli arresti, le detenzioni amministrative, i feriti. Alle considerazioni scritte con Beppe ne vanno aggiunte altre.
 


L'arresto di Jaggi Singh

Paura, delirio e tripudio a Quebec

Viaggio sfibrante: noleggiata una Ford Escort al JFK Airport di New York, stravolti dal volo e dal jet-lag, per niente abituati al cambio automatico, una tirata di più di 300 miglia fino a Burlington, Vermont, dove ci si concentrava per l'azione di Akwesasne. Si cercherà di attraversare il confine pacificamente, con una carovana di veicoli aperta da una delegazione degli indiani mohawk. Disobbedienza civile annunciata ai media, all'europea. Funzionerà?

Primavera ancora molto lontana, niente gemme sui rami, laghi ghiacciati. Dopo sette ore di guida, ci fermiamo nel parcheggio di un motel. Scendo, fosse solo per sgranchirmi le gambe. Un'auto della polizia inchioda dietro di noi, e voce dal megafono: "STEP BACK IN THE VEHICLE AND SHUT THE DOOR!!!". Da un momento all'altro mi aspetto la sventagliata di mitra. Anche gli altri hanno le portiere aperte, sbirro ripete l'ordine. Rientriamo in macchina. Sbirro è panzuto e baffuto, come nei film. Eccesso di velocità, per stavolta non ci fanno la multa (non c'è dubbio che l'avremmo pagata, da Bologna o da Venezia), ma ci avvisano: "You don't step out of the car in the United States!". Sennò si sentono autorizzati ad aprire il fuoco.

Arrivati a tarda notte, tensione, l'iniziativa è messa a repentaglio da scazzi tra diversi clan dei Mohawk: gli Orsi vogliono aiutare gli attivisti a passare il confine, i Lupi pare siano più chiusi, diffidenti se non ostili. O e' il contrario?

Ci accoglie Moose, di Ya Basta! Stravolto da una riunione di dieci ore con la tribù. Sulla terra indiana saremo ospiti, niente atteggiamenti irrispettosi o offensivi, niente domande inopportune, niente gettare cartacce, le donne non dovranno mettere in mostra troppa pelle (a -2 gradi!) etc.

Il giorno dopo siamo cinquecento, ci accolgono con un buffet e alcuni "orsi" (rasati alle tempie e sopra le orecchie, dietro la nuca la cresta diventa una treccia) improvvisano comizietti, grazie per essere qui, siamo solidali con voi, i nativi americani sono i più danneggiati dal "libero mercato", tutto dovrà svolgersi tranquillamente, everything's gonna be very peaceful, nei giorni scorsi si è detto che vi avremmo fatti entrare in Canada attraversando clandestinamente il fiume, queste sono idiozie, e poi non so nemmeno se abbiamo barche a sufficienza per tutti voi, applauso, everything's gonna be very peaceful (reprise), si parla di Leonard Peltier, si cantano ballate, mio fratello è in galera per aver partecipato agli scontri coi federali etc. e si conclude con: everything's gonna be very peaceful.
( Il giorno dopo, nel bel mezzo della guerriglia urbana, vedremo questo stesso indiano tirare pietre agli sbirri, assieme ad altri della tribù, tutti in mimetica. "'Mbeh?" E lui: I'm not on my land here, I don't need to be peaceful.
)

Il confine naturale è il fiume S. Lorenzo, lo stesso che bagna Montreal e Quebec City. Mentre la carovana (cento veicoli) si avvia sul ponte, noi ci sganciamo e guidiamo fino a un altro posto di frontiera. Della carovana non sapremo più nulla per quasi 48 ore (in Vermont i cellulari non prendono). Tutti respinti, alcuni proveranno a passare ad altre stazioni, svariate decine rimarranno in stato di detenzione amministrativa fino a lunedì, a vertice concluso.


St. Bernard de Lacolle, confine USA-Canada. Ci bloccano, ci interrogano per due ore (separatamente), bagagli perquisiti. La versione ufficiale: siamo turisti, stiamo andando a Montreal e poi a vedere i parchi nazionali. Secondo loro siamo un team diretto alle manifestazioni anti-FTAA. Basta vedere che lavoro facciamo: uno scrittore, una fotografa, un'urbanista, una studentessa di scienze sociali e un ricercatore di storia delle istituzioni politiche. Complimenti, Poirot. In realtà è una combinazione casuale e non infrequente in epoca di cognitariato. Alla fine ci rompiamo i coglioni, Beppe dà una gran manata sul bancone, minaccia di telefonare all'ambasciatore, urla in itanglish: "Did you come to Italy and stop two hours at the border? Try! If you want to come to Italy and see the country you can do it! This is abuse, I want to call the embassy and maybe the Italian government will talk to the Canadian government and we see what happens!". Capiscono che siamo dei rompicoglioni. Ci fanno passare.

Prima della nostra partenza, un noto "quotidiano comunista" romano ha chiesto un pezzo a Beppe. Lungo il tragitto chiamiamo il giornale, venendo a sapere che la copertura (si fa per dire) dell'evento l'ha M. F. (che è a Roma, non a Quebec City). M.F. non sa dirci quante righe dobbiamo scrivere, e in ogni caso vuole che dedichiamo il pezzo alle conclusioni del Summit dei Popoli (cioè il controvertice, il momento "politico") e soprattutto che non facciamo "cronaca militare". Miopia incurabile.
Presi in mezzo al tumulto (eccezionale arrivare agli scontri in taxi!), intossicati dalle nubi di gas, atterriti da un'assemblea noiosissima all'università (vedi sotto), riusciamo a metterci al computer solo sabato, in un bed and breakfast di Beauchatel. Nel frattempo il giornale ha bucato in pieno la notizia degli scontri, riportata invece dal resto della stampa italiana. Evidentemente dovevano anna' a magna' la pajata, appuntamento improcrastinabile che ha impedito loro di apprendere la notizia. 
Alle tre del pomeriggio di sabato, ora italiana, chiamiamo in redazione. M. F. non è ancora arrivata. Finalmente la troviamo, ci dice che ancora non sa quante righe abbiamo (!!!), che non hanno ancora disegnato le pagine, scrivete pure qualcosa che poi io ho altre fonti a Quebec City e tiro fuori qualcosa. Quoi? Ci incazziamo, dato che il pezzo lo hanno chiesto loro, o lo pubblicano o non lo pubblicano, niente remix o ricicciamenti. Va bene, fa lei, scrivete ottanta righe poi vi faccio sapere se riusciamo a pubblicarle su domani o se lo facciamo su martedi' (!!!!!).

Evidentemente la seconda opzione (non pubblicare) e' prevalsa. Al giornale hanno seguito la cosa leggendosi Z-net e consultando le agenzie. Noi siamo sempre (stati) in mezzo al casino, il nostro era un resoconto di prima mano. Forse temevano di doverci pagare. Riletto oggi, anche se copre solo il primo giorno di "zizza", il pezzo mi sembra buono e rende l'atmosfera, quindi lo propongo qui sotto. Noterete che alcune parti le abbiamo riadattate al documento, ma ci sono molti riferimenti interessanti che integro più sotto.
 

Roberto Bui, Beppe Caccia
Quebec City, 21 aprile 2001

Sulla barriera di cemento armato e reticolato d'acciaio che chiude la cittadella proibita di Quebec City cingendola per quattro chilometri, nei giorni scorsi qualcuno aveva scritto: "BERLIN 1989", come a dire: ve lo buttiamo giù. E così accade: alle 4.00 pm del 20 aprile, sotto la pressione di migliaia di manifestanti, il Muro della Vergogna viene abbattuto. Festosi rulli di tamburi, grida di gioia: "The Wall of Shame was ripped down!".
Il popolo di Quebec City svela il paradosso di questo summit e del progetto dell`Area di Libero Scambio delle Americhe: si abbattono le barriere per le merci e gli investimenti, ma se ne alzano tra le persone, le classi, le etnie, i generi, nel cuore stesso delle metropoli. Lo hanno spiegato per un'intera settimana quelli del Summit dei Popoli, 2300 delegati di gruppi ambientalisti, ONG, sindacati, centri di ricerca sociale ed economica di tutto l`emisfero americano. Il loro documento si conclude con una condanna senza appello: non è possibile alcuna mediazione, il FTAA deve saltare in quanto "progetto neoliberale razzista, sessista, distruttore dell'ambiente". Non hanno accettato alcun confronto coi rappresentanti dei governi e delle grandi corporations, niente emendamenti né contentini. A Seattle, qualcuno ancora coltivava simili illusioni. Oggi non più, ed è evidente la sintonia tra l'azione di strada e i seminari tenutisi nelle aule dell'università.
Proprio dal campus di Laval partono i tre cortei. I diecimila manifestanti sono prevalentemente canadesi, e quasi tutti del Quebec. La frontiera tra USA e Canada si era trasformata in una lunga cortina di ferro presidiata da ogni genere di polizia. Centinaia di attivisti statunitensi sono stati respinti con ogni genere di pretesto. A volte è bastato il possesso di un volantino anti-FTAA. Ne ha fatto le spese anche la carovana organizzata dal Direct Action Network e dal collettivo Ya Basta! di New York,  cinquecento militanti che hanno cercato invano di passare con un'azione di disobbedienza civile e l'aiuto dei mohawks della riserva di Akwesasne, tagliata in due dal confine.  Solo pochi militanti di Ya Basta! sono riusciti a entrare. A differenza di quello europeo, il movimento nordamericano non si era mai dovuto porre il problema delle frontiere e della loro chiusura.
La giornata del 20 vede in piazza le componenti più radicali. Colpisce la giovanissima età dei manifestanti. Sfilano volti imberbi, tanti studenti universitari ma anche adolescenti delle high schools, negli spezzoni dei non-violenti del GOMM, tra le tute bianche di Toronto e altre città che salutano a mignolo alzato, tra i libertari della CLAC (Convergence des luttes anticapitalistes) e nel "famigerato" Black Bloc. L`esempio di Praga si è rivelato contagioso: per la prima volta in terra americana si vedono caschi, corpetti da hockey, parastinchi e paragomiti. A differenza di Seattle, nessuno infrange vetrine, e nessuno si dissocia dalle azioni degli altri. Abbattere le mur de la honte è l`obiettivo comune, condiviso anche da alcuni steelworkers dei sindacati e dai mohawks di Akwesasne. La reazione dell'antisommossa non si fa attendere: la manifestazione viene dichiarata "une émeute", un tumulto, e irrorata di gas urticanti e stordenti. E` la versione urbana del bombardamento "chirurgico": dopo una prima, violenta carica con tanto di idrante, la polizia si attesta lungo la breccia e spara centinaia di candelotti senza mai venire a contatto. Una piccola banda di tamburini dirige e scandisce i contrattacchi dei dimostranti, che armati di una catapulta rispediscono i candelotti al mittente. L`inizio del summit è ritardato di due ore, George Bush Jr. è costretto a lasciare in aeroporto la limousine e raggiungere con l'elicottero militare la cittadella assediata. Lo scontro prosegue per ore, finché la polizia non comincia a sparare proiettili di gomma, e parte il rastrellamento. Intorno alle 7.00 pm si contano 38 arrestati, 12 feriti e una manciata di "dispersi". Fa scalpore il caso "alla cilena" di Jaggi Singh, leader del movimento quebecchese, aggredito da poliziotti travestiti da dimostranti, picchiato e trascinato via in un furgone. Per ore il supporto legale del movimento non riesce ad avere sue notizie.
Piccoli gruppi di affinità si ricompattano e continuano ad attaccare il perimetro fino a tarda notte.
Solo poche ore dopo affluiscono in città migliaia di lavoratori della Centrale des syndicats du Quebec, per il grande corteo unitario di sabato. La presidente della CSQ Monique Richard denuncia "le eccessive misure di sicurezza e il clima di paranoia collettiva" e dichiara: "Non ci spaventano, oggi marceremo anche contro la violenza istituzionalizzata dell'FTAA".
Mentre scriviamo, l`afflusso sulla Grande Allée e al porto vecchio sembra confermare e addirittura superare il pronostico di 30.000 partecipanti al corteo.


Io di cortei ne ho visti un bel po', e secondo me sono più di cinquantamila persone. Il servizio d'ordine sindacale: marcantonii con mazze e spranghe di legno.
Striscioni  e cartelli molto divertenti: "Buck Fush"; "Ho paura!"; la sagoma di un cazzo a stelle e strisce che penetra un paio di chiappe coi due emisferi del pianeta; una bandiera americana con la foglia d'acero del Canada al posto dell'ultima stella e la scritta: "NO, EH!"; tizie in topless con la scritta: "Queste tette sono contro il libero commercio"; le Anarchist Cheerleaders, majorettes lesbiche di New York; un cartello di cui do la mia libera resa in italiano: "Forfecchia Temprare Archeggio Auriga: 'FTAA' non ha alcun senso!!!"; un pazzoide con questo cartello: "FEMMINISTE + MASSONI + MULTINAZIONALI = DITTATURA MONDIALE"; bandiere cubane à go go etc. etc. Quando svilupperemo e diffonderemo le foto ci sarà da ghignare.


Un italo-americano di ennesima generazione, in tuta bianca, mi chiede come si pronuncia il suo cognome ("D'Aria", lui lo pronuncia "deiria").

I proiettili: non gomma bensì plastica dura, lunghi dieci centimetri e larghi cinque. Un dimostrante se ne becca uno sulla gola ed è portato in ospedale, non so con quale prognosi. Oltre ai tamburini c'è un suonatore di cornamusa (mi sembra una di quelle irlandesi, anziché soffiarci dentro si comprime un mantice appoggiato al fianco - così eviti di toglierti la maschera anti-gas). I musicanti attirano la folla e indicano dove occorre "coprire". Una scena da battaglia campale settecentesca. Staffette in bicicletta, almeno credo siano staffette, mi sembra che trasmettano gli "ordini" da un "gruppo di affinità" all'altro.


La polizia lancia letteralmente migliaia di lacrimogeni, fino a contaminare i cibi del buffet dentro il palazzo dei congressi, e anche il lussuoso Hotel Palace Royal deve chiudere le cucine. La chiusura del centro cittadino come oltraggio alla convivenza civile di una città. Per questo gli abitanti sono tanto incazzati.

L'unico serio limite è che gli anarchici (qui è una definizione più generica che in Europa) non hanno senso del limite: anziché capire quand'è il momento di andarsene (perché si è già ottenuto un obiettivo e non ha senso rischiare più del necessario - questa è l'impostazione delle tute bianche), il Black Bloc rimane lì piantato finché non è troppo tardi, e non è più possibile sfuggire al rastrellamento. Per questo si contano diverse centinaia di arrestati. Qualche giorno dopo, in un ristorante asiatico di St.Mark's Place, faremo notare agli attivisti locali che "Ya basta!" significa "It's enough", e you've got to know when it's enough, and back off.


Flashback. Venerdì sera all'università: evidente crisi del politically correct e del feticismo assembleare, che informano una democrazia puramente procedurale, inefficace e paralizzante. Riunioni che sembrano plenum del partito comunista mongolo. Criceti fatti di eroina corrono dentro ruote scassate, mentre fuori piove lacrimogeno e gruppi spontanei tagliano il reticolato con tronchesi. Dobbiamo buttare giù il muro in questo punto, oppure in quell'altro? Se decidiamo di buttarlo giù in più punti, come ci mettiamo d'accordo? A che altezza del percorso cerchiamo di deviare il corteo sindacale? Il ceto politico non capisce che la pratica reale è molto più avanzata. Mi giro e vedo uno schermo col telegiornale della sera: sta succedendo, ORA. Prendiamo la macchina e ci infiliamo nel tumulto notturno a bassa intensità. Tutto ciò che la gente vuole è tirare giù quel cazzo di muraglia. Domani tutto sembrerà naturale. Trotzkji (mi si conceda una citazione rétro) diceva che in una situazione rivoluzionaria le masse sono molto piu' a sinistra del partito.

Mi dicono che non tutti gli "spokescouncils" (assemblee decisionali, con tanto di votazioni) sono così mortiferi, ma io non ho mai visto assemblee italiane in cui si sentisse il bisogno di votare. Gli americani si sorprendono perché in Italia non tutte le decisioni vengono prese nel nostro equivalente degli "spokescouncils". Non c'e' un rischio di gerarchizzazione? Io rispondo che in Italia le assemblee proseguono informalmente 24 ore su 24 (in corridoio, al bar, in osteria, per telefono, in rete). Loro invece quasi non parlano di politica fuori dalle assemblee. Ma allora come si garantisce che le decisioni siano nell'interesse di tutti? Me ne esco con la frase: "la fiducia è più importante delle procedure". Io e Beppe spieghiamo che non c'è una ricetta da applicare né uno schema deciso a tavolino, non c'è nemmeno il tavolino. Il rischio di sclerosi burocratica è peggiore di quello che loro paventano (che pure esiste), e in fondo la dimensione di "informalità" avvia un processo decisionale diffuso, in cui tutti - anche chi non si sente di intervenire in assemblea - dicono la loro e alla fine qualcuno/a (non necessariamente chi i media indicano come "leader", che in realtà è solo un portavoce) produrrà una sintesi creativa.

Dedicato a Laura e Moose.
 

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La massa di appunti presi durante la Marcia della Dignità (cfr. /Giap/#32)  è diventata un documento su potenzialità e limiti dell'immaginario e del linguaggio zapatista in Europa e per l'Europa. Chi volesse riceverlo può spedirci un messaggio vuoto con oggetto: REALIDAD.