/Giap/#9, IVa serie - Stato del mondo, stato dell'unione, divenire di Wu Ming - 5 settembre 2003


1 - Stato del mondo, stato dell'unione, divenire di Wu Ming
3 - Metafore e "cattiva biologia" - discussione tra Enrico F., WM2, WM1
4 - Uso dell'inglese e biodiversità linguistica - discussione tra Paolo B. e WM1
5 - Ecologia, intellettuali, responsabilità - discussione tra Soriani, WM5, WM1


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Giap riparte, ed è necessaria qualche valutazione e "banalità di base".

Siamo al termine di un'estate di incendi, afa, black-out, mancanza d'aria e "caldo-killer" (qui vale la vecchia constatazione di Beppe Grillo: sui giornali si scrive sempre "montagna assassina", mai "alpinista coglione"), e al principio di un autunno di inondazioni (un miliardo di euro di danni in Friuli, ed è solo l'inizio), di trombe d'aria, di catastrofi ecologiche e sanitarie. Dal canto suo, il governo fa di tutto perché tali catastrofi si moltiplichino, vedasi il recente decreto in materia d'energia e centrali termoelettriche: anziché intervenire sugli sprechi, si consente alle centrali di inquinare di più e gettare nei fiumi acque di scarico a temperature più alte, tanto per dare la mazzata finale agli ecosistemi. E intanto si pianifica la costruzione di ben 150 nuove centrali.
c'è anche chi propone un ritorno al nucleare, dicendo che a suo tempo i rischi furono esagerati. Linguisti, semiologi e archeologi affermano che è impossibile contrassegnare i fusti di scorie (tempo di dimezzamento variabile tra le centinaia e i milioni di anni) con un simbolo che sia interpretabile senza equivoci da chi abiterà il pianeta nei millenni a venire. Le scorie nucleari sono armi di distruzione dei posteri (cioè dei nostri discendenti, i pro-nipoti dei pro-nipoti dei nostri nipoti), onco-bombe a tempo che ci divertiamo a seppellire qui e là . Se continuiamo a dare retta a certi politici e certi "scienziati", questa verrà ricordata come l'Età dei Pezzi di Merda. E che ce ne fotte a noi? No future!
Nel frattempo, e senza attendere i posteri, noi stessi siamo al collasso, e resi orbi da un'ideologia condivisa a destra e a sinistra, ideologia criminale che continua a ritenere centrali il PIL, la "crescita", lo "sviluppo" (purché *non* sostenibile), in una parola: la follia. Tutti a stracciarsi le vesti perché cala il PIL e calano anche i "consumi", tutti a interrogarsi su come "far riprendere" i consumi, come convincere la gente a distruggere le risorse, intasare l'ambiente di porcherie, rivendicare con determinazione il proprio diritto al cancro e, perché no, anche alle nuove epidemie (il Nuovo Che Avanza).

E invece dovremmo tutti cogliere l'occasione del calo dei consumi per interrogarci sulle nostre colpe, sul nostro "desiderio feroce" di consumare il mondo. Rendiamoci conto, ad esempio, che è demenziale lo stereo e la tv in stand-by (centinaia di milioni di led accesi in tutta Italia, ventiquattr'ore su ventiquattro), o che  negozi e banche non dovrebbero sperperare l'elettricità tenendo le luci accese di notte (svariati negozi diffondono anche musica in strada!).
Passi per la luce che segnala il Bancomat, ma per quale motivo molte banche tengono gli uffici illuminati a giorno?
Per pubblicità , dite? Vi è mai capitato di passare alle tre di notte davanti a una banca e dire: "Boia ad Dio, cum ch' l'e' be'la 'sta banca! Varda quanta lus! Adman ag spost adciora al mie' cont curent"?
Per sicurezza, dite? Ma di notte le casse sono vuote, e - per quel che riguarda il caveau - le rapine "col buco" (se ancora esistono) non si fanno dalla strada. In ogni caso, l'insegna e poche luci a basso consumo sarebbero più che sufficienti.
No, molto probabilmente ha ragione Wu Ming 5: le luci delle banche sono la versione capitalistica del cero votivo. Le banche sono le chiese dove si pregano il Dio Padre Capitale, lo Spirito Santo Denaro, la Santa Madre Borsa e tutti i santi magnati, bisogna far sapere a chiunque passi dove sta il potere spirituale. Il governo fa decreti che autorizzano a devastare l'ambiente e distruggere la biodiversità per permettere al tempio di restare illuminato, e le metafore vanno aggiornate: oggi la religione non è ... "oscurantista", anzi vuole tenere accesa ogni lampada. A sua volta, chi sta dalla parte della ragione e della laicità non è ... "illuminista", anzi, lotta per far spegnere qualche faro e qualche led.

Porre limiti al nostro desiderio feroce di consumare il mondo. Premere con forza per il passaggio a energie alternative, tanto il petrolio raggiungerà presto il picco d'estrazione. Favorire il passaggio ai veicoli elettrici, costringere le amministrazioni locali a installare nelle città le centraline di ricarica, i distributori di biodiesel etc. e nel frattempo, chi può permetterselo usi l'auto il meno possibile. Queste "banalità di base", purtroppo, non sono ancora tali. Eppure non è che il "minimo sindacale" di decenza e intelligenza richieste a una specie per sopravvivere.

Ripetiamo, questo stato di cose non è colpa solo della destra o del governo. Potremmo fare mille esempi di come la sinistra ufficiale in tutte le sue versioni condivida la medesima superstizione produttivista e incultura ambientale. L'inverno scorso, al dibattito parlamentare sulla crisi della FIAT, Piero Fassino criticò con durezza l'azienda per non aver saputo approfittare della motorizzazione dei mercati asiatici, in particolare di quello cinese. Giusto, se un miliardo e mezzo di persone reclama il motore a scoppio, perché mai non precipitarsi a venderglielo? Certo, l'effetto collaterale è la fine del mondo, ma almeno avremo dimostrato di essere bravi piazzisti, come lo dimostriamo alle grandi feste de l'Unità , piene zeppe di sfavillanti autosaloni. Del resto, non potete accusarci di scarsa sensibilità ambientale: ospitiamo anche lo stand della bioarchitettura e quello dei veicoli elettrici. è vero, a volte ci dimentichiamo di segnarli sulla mappa, ma nessuno è perfetto.
 
I due più grandi processi distruttivi in corso sono l'effetto serra e il disboscamento. Ciascuno è causa e conseguenza dell'altro, e insieme sono cause congiunte tanto di afa/siccità /desertificazione quanto di inondazioni, trombe d'aria etc.
Sull'effetto serra vi sono ancora scienziati (per fortuna sempre meno) a libro paga dei petrolieri che s'arrampicano sugli specchi, ma sul disboscamento non c'è storia, è dall'800 che si sa quali sono le conseguenze. Le osservazioni del Sirmoni sul rapporto tra disboscamento e piene dell'Arno sono del 1872. Abbattere gli alberi causa maggiore erosione e minore tenuta idrica del suolo (con conseguenti frane e alluvioni) e minori ostacoli fisici alla formazione di trombe d'aria. Eppure ogni anno ci sorprendiamo, cadiamo giù dal pero, la strada e la casa si riempiono d'acqua, interi paesini vengono spazzati via, ci sono morti e feriti, e noi: "Perdiana, quale mai sarà la causa di cotanto disastro?". Dire che il problema è la mancata pulizia del sottobosco da sterpi e detriti è una mezza fregnaccia (al contrario, è una fregnaccia tutta intera  l'ipotesi del ministro Pisanu - divenuta certezza in alcune edizioni del TG1 - sulle responsabilità di "ecoterroristi" negli incendi dolosi).

Su scala planetaria, l'aspetto più terribile del disboscamento concerne le foreste secolari. I dati (alcuni li abbiamo inseriti nello scorso numero di Giap) fanno piangere. Dal 1950 è andata perduta più della metà delle foreste secolari del pianeta. Confinate in aree sempre più ristrette di foreste, molte specie della fauna africana (a partire dai primati) sono ormai avviate all'estinzione. La situazione dell'Amazzonia è catastrofica.
Su quest'ultimo punto è doverosa una piccola rettifica: sull'ultimo Giap scrivevamo che "il governo Lula non ha ancora fatto nulla di concreto per fermare l'ecocidio". Pochi giorni dopo è stata diffusa la notizia di un'importante vittoria di Greenpeace e altre associazioni in Amazzonia: la demarcazione, da parte del governo federale, della terra degli indios Deni: 3,6 milioni di ettari nel bacino del fiume Purus. In quell'area, le compagnie del legname non potranno abbettare alberi. Speriamo che tale conquista non sia puramente formale, e che davvero si faccia qualcosa per bloccare le mafie ecocide, e comunque non scordiamoci che l'area demarcata corrisponde soltanto all'1% (uno-per-cento) della giungla amazzonica rimasta.

Chi sono i colpevoli di questi crimini contro l'umanità e tutte le altre specie, di questo olocausto del quale tardiamo a renderci conto che è peggiore di quello nazista, perché stermina tutti quanti e non solo gli "uentermenschen"?
Si tratta delle multinazionali del legname, dell'agroalimentare e della zootecnia (foreste secolari distrutte per far pascolare le turbo-vacche etc.). Inutile ribadire qui le colpe di colossi come McDonald's, che per fortuna sta subendo un sensibile calo di profitti: speriamo ardentemente che tutti i dirigenti finiscano (quantomeno) a dormire sotto i ponti, e perché ciò avvenga siamo disposti a ricorrere al Voodoo, all'Obeah, al Candomble' e alla Regla de Palo Monte.

Tuttavia l'elenco è ancora incompleto: manca l'industria della carta. E qui è un po' anche colpa nostra, intendiamo di noi scrittori e lavoratori dell'editoria. Ne abbiamo parlato diffusamente nell'ultimo Giap, qui ribadiamo il nostro impegno per i mesi e gli anni a venire. Ogni nostra presentazione di Giap sta iniziando con un intervento sul problema della carta ecosostenibile, con annessa lettura dell'"Appello congiunto degli autori italiani". Gli scrittori devono esercitare sui loro editori qualunque tipo di pressione (compreso il ricorso alle arti magiche di cui sopra) perché adottino carta ecosostenibile o riciclata.
Non sappiamo se attenderci o meno risultati a breve/medio termine, comunque è sicuro che ci faremo sentire. 

Almeno nell'editoria c'è qualcuno che si pone il problema, ma altrove? Ovunque regna lo sperpero idiota e sociopatico. La carta è una delle cose che si spreca nella maniera più spensierata: posta-spazzatura, pubblicità , depliants, flyers, confezioni e imballaggi esagerati, scartoffie burocratiche negli uffici, il vizio di stampare qualunque pagina web si visiti con l'intento di leggerla in seguito (poi non si legge mai un cazzo e si butta via tutto)... Di nuovo, il governo ci prende per i fondelli con un bel decreto: poco tempo fa il ministro dell'ecocidio Altero Matteoli ha decretato che d'ora in poi nella pubblica amministrazione si userà il 30% di carta riciclata. Che cazzo significa? E il restante 70%? I giornali riportano (a stento) queste notizie senza colpo ferire, senza mai fare o farsi una domanda. Niente è vero, tutto è accettabile.

Abbiamo intenzione di occuparci sempre di più di questi problemi, perché sono i problemi. Ci dicono che come divulgatori (come "riduttori di complessità ") non siamo malaccio, e allora mettiamo questa nostra qualità al servizio della causa. Sentiamo questa responsabilità .
Proprio sul tema della responsabilità si sono confrontati Wu Ming 5, Wu Ming 1 e il giapster Sergio Soriani nello scambio di e-mail che riportiamo in calce. Lo scambio tra Wu Ming 2, Wu Ming 1 e il giapster Paolo Fanti, partendo dalla "cattiva biologia" imperante, tocca il problema della responsabilità , stavolta la responsabilità di quali metafore utilizzare. Lo scambio tra Wu Ming 1 e il giapster Enrico B. parla di biodiversità , ma partendo dal problema delle lingue in via d'estinzione.

Prima di dare spazio a questi dibattiti, dobbiamo però aggiornarvi su come ce la passiamo. Durante il mese d'assenza di Giap molti di voi avranno sentito parlare di noi e saranno in attesa di chiarimenti. Vi sono stati anche due lanci ANSA.
Si è diffusa la falsa notizia che *Q* sia entrato nella rosa dei candidati al Guardian First Book Award "prima ancora della sua pubblicazione in Inghilterra". In realtà Q è uscito in Gran Bretagna l'1 maggio scorso, (qui le recensioni: http://www.wumingfoundation.com/italiano/rassegna/Qreviews.html) e ha già venduto 15.000 copie, cosa del resto specificata nell'articolo del Guardian che riportava la nomination: http://www.wumingfoundation.com/italiano/rassegna/guardian_prize_Q.html
Riguardo alle non-dichiarazioni di Mr. Blissett, ci siamo espressi qui:
Chi ci segue da qualche anno e ricorda come ci comportammo nei confronti dello Strega 1999, sa che dei premi letterari non ci frega granché , e tendiamo a evitarli. Ci dicono però che in questo premio siamo i primi e gli unici rappresentanti dell'Europa continentale, e allora diciamo: "Meglio noi di B*********!". Chi vivrà vedrà .

Le notizie davvero grosse, a nostro avviso, sono altre:

GRAN BRETAGNA - Heinemann/Random House (l'editore di Q) ha comprato i diritti di traduzione di 54 per 80.000 euro, cifra che ci dicono altissima e inusuale per un libro italiano. Ringraziamo il comandante Heriberto Cienfuegos. Ovviamente, non tutti quei baiocchi ci verranno in tasca, trattandosi di cifra lorda da dividere con Einaudi e infine da dividere tra di noi. Probabilmente, ciascuno di noi ne vedrà il 10%. "Buttali via!". Ricordiamo che in Gran Bretagna Q è già pubblicato su carta ecosostenibile.

ITALIA - In meno di cento giorni, Giap! ha superato le 14.000 copie vendute. La media è di circa 150 copie al giorno, compreso agosto. è un dato impressionante, per il quale ringraziamo di cuore soprattutto i giapsters, il loro passaparola, il loro senso di comunità . A proposito, siamo quasi 4.400.
Per noi è l'ennesima conferma dell'esattezza delle valutazioni (nostre e altrui) sul copyleft: tutto il materiale contenuto nell'antologia era ed è già presente sul nostro sito. Secondo l'ottuso Pensiero Unico sul copyright, ciò avrebbe dovuto rappresentare un freno alle vendite. Invece, come dovrebbe essere ovvio, è proprio il contrario. Per qualunque approfondimento, rimandiamo alla sezione tematica "Omnia sunt communia", su wumingfoundation.com

OLANDA - L'editore olandese di 54, Vassallucci, ha deciso di pubblicare e diffondere GRATUITAMENTE un libro sul copyleft, con traduzioni di pezzi nostri e altrui. Le idee e le pratiche cominciano a farsi strada.

Concludiamo ricordandovi che a fine settembre spediremo il numero di NANDROPAUSA coi giudizi di lettrici e lettori sui libri che segnalammo all'inizio dell'estate. Se volete rinfrescarvi la memoria, li trovate qui:


Ed ora, spazio ai botta-e-risposta.


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Paolo Fanti, 25 luglio 2003:

<<Solo ora trovo il tempo di leggere alcuni arretrati di Giap. Nel quasi/Giap del 5 luglio, trovo un'osservazione di WM2 su Dawinks e Dennett, nonché un invito a tornarci sopra, qualora interessi.
A me interessa discutere di biologia ed ideologia, anche se rinvio subito la palla a fine agosto, perché sono sull'orlo delle vacanze e potrò controllare in maniera troppo erratica i messaggi di posta elettronica.
Ho quindi solo il tempo di lanciare una provocazione (in senso spero "costruttivo"), provocazione rivolta in primo luogo a WM2, ma ovviamente estesa a chiunque sia interessato.
Credo (senza nessuna particolare originalità in questo) che il Dawkins-Dennett pensiero sia cattiva biologia e, soprattutto, pessima ideologia.
Quando me la voglio cavare con una battuta, solitamente mi riferisco al Dawkins-pensiero come "biologia buona per Maggie Tatcher". Poiché trovo interessante e importante il progetto Wu Ming, vorrei invece discuterne in maniera più seria.
Mi turbo un po' , infatti, quando mi accorgo che "a sinistra" la battaglia contro il determinismo biologico e i suoi annessi e connessi (ideologici, filosofici e politici) e'  ferma e vigile sulla porta, ma lascia aperte varie finestre.
Ora, lanciato il sasso, ritiro la mano (almeno per qualche settimana), ma spero che il tema susciti interesse.>>


[Wu Ming 1:]

Caro Paolo,
il nostro vecchio libro Lasciate che i bimbi* (1997) conteneva una lunga tirata contro il biodeterminismo e la sociobiologia, te la riporto in calce a questo messaggio. Sullo specifico di Dawkins etc., ti risponderà WM2 perché io non ho letto quei libri e ho una conoscenza solo superficiale della teoria dei memi. A quanto ne so, l'uso che se ne è fatto nella cultura alternativa/underground è puramente allegorico, nessuno prende alla lettera quella teoria (fino a qualche minuto fa pensavo che anche Dawkins ne facesse un utilizzo di questo tipo), la si evoca perché può aiutare a "visualizzare" certi meccanismi di trasmissione della cultura. Certo pecca un po' di idealismo.
[segue lungo estratto da Lasciate che i bimbi, paragrafo "I nipotini di Mengele" del cap. intitolato "La castrazione chimica", pagg. 92-97  - il libro è sotto sequestro giudiziario ma è scaricabile ai link indicati qui:


Paolo Fanti, 26 luglio 2003:

<<Non conosco buona parte della produzione di Luther Blissett perché in quel periodo vivevo in Texas (pensa mò ben), ma non avevo dubbi sulla posizione "conscia" di Wu Ming e antecedenti in proposito. A posteriori, devo dire "niente male" come analisi, tenuto conto che spesso anche settori consistenti del movimento tendono a "incartarsi" su certi aspetti.
Per il resto, so bene che gran parte della fascinazione per la memetica  nasce dagli usi allegorici e metaforici che se ne fa. Ma, come dice il
proverbio, Dio (o il demonio, a seconda delle preferenze) si nasconde nei dettagli. E allegorie e metafore, tu mi insegni, sono piene di trappole.
Pensa all'uso della metafora "iscritto/fa parte/e' nel nostro (=della classe operaia/della cultura mediterranea/di quel cazzo che ti pare) DNA". Per quel che sono stato capace di ricostruire, il primo che ne ha fatto uso "pubblico" è stato l'Armando Cossutta al congresso di scioglimento del PCI ("non è nel DNA del movimento operaio..."). Perché non si è aperta la portiera un secondo prima...? 
E così una metafora che ha lo stesso valore semantico dell'espressione "avido come un ebreo" oppure "indolente come un messicano" ha finito con il diventare espressione di moda di parte della sinistra, persino delle sue teste più fini (of course, non l'Armando). Non ti dico come mi incazzo quando la ritrovo sulle pagine del Manifesto. E te lo dice uno che ci ha messo anni a liberarsi dell'abitudine (assai comune a Bologna, almeno fino alla metà degli anni settanta) di dire "rabbino" anziché "griccio forte".
Beh, bona le', sto partendo in logorrea, e, almeno adesso, non ne ho il tempo. Volevo suggerire una "bio-nandropausa", ma visto che già sei anni fa citavate "Dick" Lewontin non  credo abbiate bisogno delle mie cinque (vecchie) lire sull'argomento.
Comunque ritengo centrale discutere di meccanismi di trasmissione della cultura, di memetica, di biologia e di ideologia soprattutto in relazione al progetto Wu Ming e rilancio la palla.>>


[Wu Ming 2:]

Ti ringrazio per aver sollevato il problema, dandomi lo spunto per qualche precisazione in più.
In primo luogo, non sono un conoscitore sistematico delle teorie di Dennett e meno ancora di quelle di Dawkins. Anzi: il mio rapporto con questi due figuri si esaurisce nella lettura di Consciousness Explained (Coscienza, Rizzoli, 1993), per quanto riguarda il primo, e Il gene egoista, a proposito del secondo. Inoltre, avendo letto Coscienza per secondo, è molto probabile che i miei ricordi a proposito di memi e quant'altro, siano filtrati dalla presentazione che Dennett ne fa nel suo libro. Questo, tuttavia, non mi esime dal rispondere alle tue osservazioni.
Per quanto riguarda questi due testi - e limitatamente ad essi - credo se ne possano utilizzare le suggestioni senza con questo lasciare aperta la finestra a "cattive ideologie", nello stesso modo in cui si possono maneggiare certe intuizioni di Eliade anche senza il busto di Codreanu sulla scrivania.
Dirò di più: nella nostra esperienza ci siamo trovati molto spesso a maneggiare teorie e autori "pericolosi", che richiedevano mascherina, guanti di gomma e finestre sigillate, sforzandoci di ricavarne quel che ci interessava senza che la scimmia ci restasse attaccata sulla schiena...
Tornando a Dennett e a Dawkins, i loro testi contengono alcune intuizioni preziose, molto feconde, che non mi sembrano contaminate da determinismo biologico. Al contrario, una delle convinzioni di Dennett è che cervello e apprendimento si influenzino l'uno con l'altro: il software che gira nelle nostre teste modifica l'hardware che lo sostiene, e viceversa. L'evoluzione culturale è un elemento fondamentale di evoluzione biologica (e questo, per quanto contestabile, mi pare tutt'altro che una forma di determinismo).
Riassumendo al massimo, Dennett combatte l'idea della coscienza come teatro, dove continue rappresentazioni vengono messe in scena per essere giudicate da un unico spettatore. A questo modello contrapponne le cosiddette Molteplici Versioni, che non solo mi pare più adatto, per quel che ne posso capire, a spiegare tutta una serie di strani fenomeni e malattie cerebrali, ma si presta molto meglio a descrivere la idee come un prodotto di intelligenze collettive e la creatività come una specie di lotta per la sopravvivenza tra diverse narrazioni abbandonate alla corrente di flussi continui.
Qui entrano in gioco Dawkins e la memetica. Sono d'accordo con WM1: se c'è una critica che si può muovere al suo approccio e di essere un tantino idealista, trattando le idee come qualcosa di indipendente, entità in cerca di cervelli, e non viceversa. Mi pare invece che Dennett elimini questo problema, legando software e hardware nel modo che ho illustrato prima, senza con questo rimettere in piedi il Teatro Cartesiano in cui varie compagnie di giro mettono in scena i loro spettacoli, cosė che la Mente possa scegliere quali rappresentare all'esterno. Non c'è alcun palcoscenico: e quella Mente che dovrebbe giudicare è , allo stesso tempo, il prodotto del cervello su cui gira e delle idee che lottano tra loro (e senza bisogno di un giudice esterno) per trovare spazio tra le sue pieghe. La discriminazione tra le varie idee/rappresentazioni/contenuti avviene in maniera distribuita, asincrona, a molti livelli e per molte ragioni (non tutte "coscienti").
L'esempio di come Dennett affronta il problema del linguaggio mi pare abbastanza illuminante su tutto il suo percorso.
La questione è : qual è la vera fonte degli atti linguistici che siamo soliti attribuire a un soggetto? Se non c'è il Teatro Cartesiano e l'Autore Centrale che dà il suo imprimatur, come nasce una qualsiasi espressione di senso compiuto?
Passando per l'analisi di lapsus, tic linguistici ed errori grammaticali di vario tipo, Dennett elabora il cosiddetto "modello pandemonio", attraverso il quale il soggetto non trova le parole giuste ( e gli dà il suo imprimatur) per esprimere ciò che già pensava, ma arriva a dire qualcosa di soddisfacente  grazie a una disposizione mentale non ancora completamente determinata e al contributo fondamentale delle parole stesse, che si presentano come possibili candidate e 'lottanò per essere scelte. Come dice Marvin Minsky: "Qualunque cosa vogliamo dire, è probabile che ciò che diremo non sarà esattamente quello". O, come disse E.M.Forster: "Come posso dire che cosa penso, finché non sento che cosa dico?"
Questi, in estrema sintesi, sono gli spunti che più mi stanno a cuore di entrambi gli autori. Per quanto posso vedere e capire, non mi sembrano presupporre, né tanto meno implicare, un approccio da determinismo biologico. Se però hai un'idea più precisa  delle eventuali infezioni in questo senso, sarò lieto di riparlarne e di aprire gli occhi.


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Enrico D., 7 agosto 2003:

 
<<[...] l'utilizzo di alcuni termini, come copyleft, feedback, open source... Non dico che non debba essere evidenziato il luogo di origine di determinati percorsi, anche ripetendoli nel loro idioma di partenza, ma credo sia importante lavorare anche sulla capacità della terra di partenza di trovare nomi e formule per abbracciare la complessità del reale... Ben vengano i dialetti, le mescolanze tra registri e stili differenti, ma perché , in una frase in italiano, mi devo trovare un termine che sembra essere messo lė solo perché non si è stati capaci di inventarsi un suo corrispettivo nel linguaggio in cui è scritto il testo? E poi l'inglese, porca zozza, è considerato - a torto o a ragione, questo non è importante -  la lingua madre per la globalizzazione dell'impero, il suo tramite principale di comunicazione, data la sua sbandierata, e non poi cosė reale, semplicità ... Un altro trucco per azzerrare le differenze, le specificità , imponendo a tutti di usare una lingua che è quella di una sola parte del mondo, se vai a vedere, la più forte economicamente ( Inghilterra, Nord America, Australia )... Quanto è più libero trovarsi attorno a un fuoco e capirsi attraverso il riferirsi a segni che sono tipici di ogni cultura popolare: la lotta, l'amore, il sesso, la rabbia, la gioia, il dolore, esprimibili attraverso occhi, gesti, odori, per quello che sono, senza diluirli perché ci si deve esprimere in un idioma che non è il tuo... e ti capisci lo stesso... anzi, forse, meglio... Sicuramente più in profondità ...>>


[Wu Ming 1:]

Io sono fermamente convinto che non stiamo andando verso un'omologazione linguistica, verso una colonizzazione dell'immaginario, in parole povere verso una monocoltura anglofona. è tutto il contrario, già oggi molti linguisti parlano non di "English" ma di "Englishes" perché quello che era l'inglese si va "creolizzando", nascono continuamente varianti "pidgin" e poi creole di quella lingua, grazie ai diversi substrati linguistici che ne corrodono la grammatica, la sintassi, il lessico, i contesti di riferimento. Pensa a lingue nate dalla mutazione e ibridazione dell'inglese, come il pisin che si parla in Nuova Guinea, il bislama che si parla alle isole Fiji, il black english dei neri americani, lo spanglish dei latinos...
L'inglese non sta in alcun modo "colonizzando" l'italiano, sostituendo parole nella nostra lingua (una recente ricerca di De Mauro ha dimostrato che in italiano le parole inglesi adottate ufficialmente sono in realtà una percentuale infima); al contrario, l'uso di parole di origine inglese nella comunicazione tra italiani cambia senso a quelle parole, le storpia e le re-inventa. è l'italiano che corrode l'inglese dall'interno, e questo avviene in tutto il mondo. In inglese "footing" non vuol dire assolutamente niente; "coffee shop" vuol dire semplicemente caffetteria ma in italiano ormai indica un luogo dove vendi hashish e marijuana; "manager" vuol dire semplicemente amministratore (di qualunque cosa, anche di una sala da biliardo); un romanzo "fantasy" è un qualsiasi romanzo di letteratura fantastica mentre in Italia indica esclusivamente romanzi tipo Il signore degli anelli, con gli elfi, i maghi etc. Ti posso fare decine e decine di esempi: le parole inglesi che usiamo non "sostituiscono" affatto quelle italiane, non sono frutto di pigrizia mentale bensė di reinvenzione, improvvisazione, fraintendimento creativo. Tutte le lingue che esistono oggi sono nate cosė, compreso l'italiano e tutte le lingue romanze: sono nate da una corrosione del latino parlato come pidgin (lingua franca), scavato al suo interno dai substrati linguistici che riemergevano. Accadrà anche con l'inglese, che è il latino contemporaneo.
L'anno scorso, alla Pluriversità messa su da Stefano Benni, ho tenuto una lezione sulla "pidginizzazione" delle lingue, con particolare riferimento al pidgin English che si parla in Nigeria. Ecco, uno potrebbe pensare che l'uso dell'inglese a Lagos e dintorni sia un segno di colonizzazione, di distruzione delle radici, ma quando ti rendi conto dell'abisso che separa quell'inglese da quello ufficiale, scopri che in realtà si tratta di resistenza, riappropriazione, detournement, emergere di substrati linguistici yoruba, igbo etc.:
"How dey go dey go?" significa "come vanno le cose?";
"How bodi?" significa "come stai?" (lett. "Com'č il corpo?");
"We no see yua brake light" significa "Da quanto tempo non ti fai sentire!" (lett. "Non abbiamo visto le luci dei tuoi freni");
"Tori git k-leg" significa "La faccenda si complica" [tori=story, git=gets, k-leg = knee-knock (ginocchiata), lett. "La storia si prende una ginocchiata"].
Morale della favola: usiamo parole inglesi perché non prendiamo l'inglese troppo sul serio. In questo momento è come un bue divorato dai piranha.


Paolo D., 12 agosto 2003:

<<Mi hai fornito una chiave di lettura per me inconsueta, che mi convince...mi piace...l'idea che in Nigeria o in Polinesia si mastichi la lingua ufficiale dei padroni e la si rinventi è sicuramente atto di creazione di comunità , collettività , e questo di per se' è positivo... Un unico dubbio, a te che ne sai di più, questo rielaborare e masticare questa matassa anglofona, sottrae energie e freschezza all'invenzione, che, mi sembra, da profano essere caratteristica peculiare dei dialetti? Cioè , con l'inglese smembrato si danno luogo a neologismi inventati, o a storpiature di un esistente...sembra una questione di  poco conto, ma il tuo intervento mi spinge alla curiosità ...i dialetti non hanno traduzioni letterali nelle lingue madri...o meglio, non tutte le loro forme. Boh, m'e' venuta cosė. Che rapporto c'è in Nigeria e negli altri luoghi da te citati tra questa miscela corrosiva di ibridi suoni lesivi della purezza della parola dei baronetti d'oltremanica ( ma guarda che pippone di perifrasi per non riusare la parola inglese; pareva brutto ) e i dialetti? Sono quest'ultimi vivi cantieri o stanno atrofizzandosi, come sta accadendo nel mondo  "civilizzato"?>>


[Wu Ming 1:]

La "creolizzazione" non è una semplice storpiatura delle lingue che ibrida (o dei loro dialetti: il pisin non deriva dall'inglese oxfordiano ma dal dialetto parlato dagli irlandesi che lavoravano come sorveglianti nelle piantagioni australiane, e l'inglese degli afroamericani deriva da vari dialetti anglo-americani bianchi): è una vera e propria reinvenzione, sia dal punto di vista lessicale (in pisin della Nuova Guinea "pekpek blut" significa "diarrea": "pek" deriva da "fecal", la doppia ripetizione indica gran quantità , "blut" deriva da "blood", quindi un bel po' di sangue che in realtà è merda) sia dal punto di vista sintattico/grammaticale.
John McWhorter in un suo libro riporta una frase in lingua Sranan (l'afro-inglese del Suriname): "A Hondiman dati ben bai wan oso gi en mati". Da essa, seguendo a ritroso gli adattamenti fonetici, si può risalire a questa sequenza di parole inglesi "A hunt-man that been buy one house give his mate" [Un cacciatore che stato comprato una casa dare suo amico]. La particolare sequenza sintattica è simile a quella di molte lingue africane.
Un "Pidgin" è il risultato delle trasformazioni di una lingua franca parlata da persone la cui lingua madre è un'altra e ha un substrato molto forte; un pidgin viene catalogato come lingua creola quando a sua volta diventa una lingua madre.
Anche l'Italia assisterà a una "pidginizzazione" e a una "creolizzazione".
L'italiano è già *pieno* di espressioni strane:
in inglese "autostop" non significa assolutamente nulla (si dice "hitch-hiking"). Quando all'imbocco di una superstrada leggi il cartello "no autostop", quello è puro pidgin.
Quando di un distributore di benzina diciamo che "e' un self", in inglese stiamo dicendo uno sproposito ("e' un se'-stesso") ma se mettiamo la frase nel contesto di una crescente pidginizzazione dell'inglese, la frase ha un suo senso e addirittura una sua poesia.
Tra l'altro esistono sempre più parole ibride, che oggi sembrano brutte e rachitiche, ma domani potrebbero suonare normali e addirittura belle: "risoluzione" (riferito alla qualità dell'immagine: in italiano si dovrebbe dire "definizione"), "masterizzare", "resettare"...
Quindi non ti preoccupare se in una frase ci trovi qualche parola inglese: molto semplicemente, non è inglese.


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[Attenzione: scambio bello denso :-) ]

 
Sergio Soriani, 12-14 luglio 2003:

<<Ho letto  per la prima volta l'intervista che avete rilasciato a Massimo Merletti (credo che risalga ai tempi della pubblicazione dì 54).
Vorrei dire che condivido appieno la vostra posizione rispetto agli intellettuali, alla loro vacanza più o meno allegra dalla realtà in atto (Baricco poi, a differenza di voi, non lo considero un intellettuale ma il patty pravo della nostra letteratura: interpreta abbastanza virtuosamente la nostra lingua, adoperando questo talento per scrivere cose che si dimenticano subito dopo averle lette).
Il coraggio e l'intelligenza di Pasolini mancano tragicamente. ricordate gli Scritti Corsari? Aveva già intravisto il carattere fascista, un fascismo nuovo e peggiore di quello storico - lo dichiarò senza mezzi termini - insito nella società dei consumi. Aveva intuito il volto truce della globalizzazione proprio per il suo carattere di unilateralità capillare e cogente.
Constatato il deserto, mi domando, vi domando e domando a tutti: che fare, oltre a tentare di sopravvivere nelle oasi personali e collettive?
Vi domando poi specificamente, perché siete più informati di me sullė'attuale movimento non manca a questo movimento una sponda intellettuale? per chiarire quelli del '68 avevano Marcuse e soci; quelli del '77 aveva Guattari etc.; il Movimento attuale a quale sponda teorico-critica?
Oppure, e potrebbe essere un'ipotesi interessante, si può procedere senza una bussola teorica definita attraverso un andamento sinuosoidale  di pratiche espressive e politiche [...]
Wu Ming 5 mi ha lasciato un po' perplesso; non solo e non tanto perché ripete pari pari ciò che Tolstoj sosteneva 100 e più anni fa (Wu Ming 5 aggiunge estemporanei diversificati  richiami a dati tecnico-scientifici attuali). Ripetere non è un delitto e nella fattispecie per me è un complimento, adoro Tolstoj, ma Wu Ming 5 si infila in una contraddizione marchiana: alla volontà di potenza che attraversa l'intera storia della cultura e della vita occidentale (e temo non solo), oppone una scelta etica ecologicamente orientata; benissimo: peccato che il presupposto di wu ming 5 sia appunto l'onnipotenza della volontà , la volontà che si impone sull'appetito, sul desiderio, sulla bramosia, le quali non sono componenti marziane o derivate, ma umane.  non esce dal circolo  che combatte, lo conferma. Non è un approccio ecologico, è un approccio imperativo e unilaterale in nome di contenuti ecologici.  è una chiamata alle armi per imporre un dio unico per tutti. Che si chiami ecologia, poco importa. Che si minacci la catastrofe, idem. Agisce lo schema di sempre, lo schema del potere. il potere che valorizza il proprio punto di vista e demonizza quello altrui, il potere che ti dice quanto è spaventoso il nemico e quanto è morale annientarlo. Ma  la morale non c'entra. C'entra la politica e la politica è lotta tra le parti. Wu Ming 5 sta facendo politica. Sta facendo la guerra e vuole vincerla per istituire una morale di ordine superiore.Platonizza mica male.
Wu Ming 5 poi si contraddice anche rispetto alla scienza. Da un lato la adopera per corroborare la postulata "universalità " della  propria visione in realtà parziale,  dall'altro non ne assume il paradigma, poiche'  Wu Ming 5 usa un paradigma lineare, consequenziale, meccanicistico, per cui, dati determinati presupposti, derivano necessariamente determinate conseguenze; ma il paradigma meccanicistico è superato da tempo. A quanto mi consta la fisica contemporanea stronca sul nascere ogni illusione predittiva propriamente detta. Il tono apodittico di Wu Ming 5 non  corrisponde allo stato della scienza.
Provengo dalla generazione delle macchine desideranti, del "tutto e subito". Avevamo torto perché l'essere umano non è solo desiderio. Se però ci si polarizza sulla responsabilità , sull'etica, si commette l'errore uguale e contrario:  si diventa  parimenti irresponsabili. Essere ecologici, io credo, non può prescindere dal rispetto della nostra natura che è contraddittoria. La biodiversità è dentro di noi, prima di tutto.
DOPO LA CRITICA, LA MIA PARTE COSTRUTTIVA: io milito nell'esercito della bio-diversità perché mi piace di più e perché la ritengo più corrispondente al fenomeno della vita che si manifesta come processo di differenziazione continua. ogni iniziativa, discorso e quant'altro sotto il segno della bio-diversità mi trova alleato. Giudico il liberismo in tutte le sue varianti l'attentato più proditorio alla biodiversità .>>


[Wu Ming 1:]

La questione della mancanza del faro costituito dai "Grandi Intellettuali di Riferimento" (che per me è un fatto positivo) l'ho affrontata (completamente a braccio) l'anno scorso in una trasmissione di Radio 3 che puoi scaricare alla sezione "Suoni" di wumingfoundation.
Il tema era: gli intellettuali e l'impegno. Oggi - ma già se n'era accorto il Foucault di "Ribellarsi è giusto", in quella conversazione con Deleuze in cui entrambi parevano desiderosi di suicidarsi come Intellettuali con la maiuscola reverenziale - non esiste più la figura dell'intellettuale separato, il primario della clinica di lusso che ha il buon cuore di chinarsi sul corpo riverso a terra del sociale e auscultarne il cuore, il Vate che fa calare dall'alto le sue predizioni etc. Esistono persone che provano a riproporre quel ruolo, ma sono sempre meno credibili e si stanno seppellendo da solo nelle proprie stronzate tardo-hegeliane. Oggi l'intellettuale è un tecnico del proprio "sapere pratico", che rifugge la "tuttologia applicata" ma può arrivare a un punto di vista generale partendo dall'indagine/azione sul proprio campo, che si tratti di mediattivista, programmatore, hacker, microbiologo, fiscalista, scrittore, linguista, prostituta etc.


[Wu Ming 5:]

Rispondo volentieri alle sollecitazioni anche se in maniera (temo) non altrettanto raffinata.
Quello che sostengo è che la realtà - l'Essere, nella tradizione occidentale (che per me è tutto tranne che una gabbia- semmai una modalità , una griglia interpretativa) - è una trama di relazioni. In altre parole, l'essere è molteplice. L'essere è gli esseri. O gli essenti, se preferisci una terminologia fenomenologica. Le cose, se preferisci un modo di esprimersi meno lunare. Le cose sono qui, ora. Separare oggetto e soggetto è una pratica di sopravvivenza per la specie, ma dal punto di vista intellettuale somiglia a un pregiudizio o a una superstizione. L'idea di responsabilità universale ha molto poco a che fare, in questa prospettiva, con una scelta volontaristica. Se tu ti senti cosė segnato dalla volontà di potenza che attraversa la storia dell'uomo occidentale, io mi sento attraversato dalla volontà di riconciliazione con gli esseri e le cose che viene da culture non-occidentali. Della tradizione occidentale sono un figlio degenere. Non ho nessuna ansia di imporre una "morale superiore", se questo può tranquillizzarti. Forse è il termine "responsabilità " che ti preoccupa. Forse è la dimestichezza con la tradizione intellettuale dell'occidente e la poca pratica con altre forme di pensiero a farti scorgere il platonismo dove c'è solo una presa d'atto delle condizioni oggettive, materiali, immanenti in cui ci muoviamo. In altre parole, temo che tu abbia letto male il pezzo. Grazie per l'accostamento a Tolstoi.


Sergio Soriani, 15 luglio 2003:

<< Non  me la sento di dire che cosa sia la realtà. Ho incontrato sinora due modelli per leggerla: a) il modello della potenza; b) il modello della relazione.  Questi modelli sono entrambi presenti anche nella cultura occidentale. ufficialmente ha prevalso quello della potenza. finora. lotto perché prevalga quello della relazione e tale prevalenza non mira a estinguere quello della potenza, ma a relativizzarlo; in politica questo si traduce nel modello parlamentare, il modello che per fortuna anima anche giap - trasformare il mondo in un gigantesco parlamento: ecco che cosa mi piacerebbe; il modello della relazione tende a promuovere la molteplicità , quello della scissione l'uniformità ;
Il modello della potenza opera e si impone attraverso la scissione che sfocia nella gerarchia, quello della relazione attraverso la circolarità delle espressioni che non concludono ma che generano altre espressioni differenti;
se affermi di prendere atto delle condizioni obiettive della realtà , ti infili dritto dritto nel modello della potenza;
se affermi che,  dato un problema, esiste una sola risoluzione- dato il problema ecologico, esiste solo la risoluzione della responsabilità - tu ti inscrivi nel modello della potenza; in realtà credo che la definizione dei problemi e dellle loro soluzioni si costruisca sul piano delle opzioni e non solo delle opzioni razionali;
e' vero: ignoro sostanzialmente le culture extra-occidentali, tranne che per quegli aspetti che hanno fecondato la cultura occidentale a partire dall'antichità fino all'odierna new-age; ti domando, però: è possibile per un occidentale conoscere le culture extra-europee dal punto di  vista delle culture extra-europee stesse? può un occidentale identificarsi nelle culture extra-occidentali oppure la via da battere è quella dell'incontro tra soggetti differenti? incontrare senza colonizzare, deve essere pure possibile: è il mio tentativo;
a me non importa che tizio abbia un impianto platonico, sempronio un impianto prometeico e caio un impianto induista. la questione essenziale è se ci si possa permettere un impianto; secondo me no perché delle due l'una: o siamo di fronte a problemi vecchi e allora si può ricorrere a impianti conosciuti oppure siamo di fronte  a problemi nuovi; se vale questa seconda ipotesi, e per me vale questa, noi non ci troviamo nella condizione di chi possegga le risposte, ma nella condizione di chi deve cercarle; perciò non sono d'accordo con te non per la qualità della tua risposta, ma perché pensi di averne una, attinta da culture diverse dalla nostra; la mia proposta invece è diversa: consiste nell'accettare di entrare in una dimensione di ricerca radicale a partire dal raffronto delle molteplici e anche contraddittorie narrazioni circolanti, comprese certamente anche quelle extra-occidentali;
ti ho accostato a Tolstoj e ora sono costretto ad accostarti a Schopenauer: è lui il primo che ha cercato le chiavi fuori della cultura occidentale, riscontrandole in quella orientale, se ricordo bene. curioso è che abbia insistito sul tema della volontà ; quindi, come vedi, non sei solo, anzi; oltretutto a me sembra ben nutrita la schiera degli occidentali che privilegia altre culture; insomma, temo che in questo proiettarti fuori dell'occidente tu sia abbastanza up to date piuttosto che reietto; per me non è disdicevole, a scanso di equivoci;
sono sicuramente condizionato dai miei trascorsi nel sospettare l'etica: feci in tempo ad afferrare la coda del '77. da vecchio ragazzo di parco lambro tutto sbilanciato sul desiderio (Guattari, Deleuze: macchine desideranti) ho il riflesso della ribellione più che quello della responsabilità ; è un limite, sicuramente; tuttavia mi ha salvato da 20 anni di restaurazione liberista;
 dici che ho letto male il tuo pezzo; è possibillissimo e se è cosė  me ne dispiaccio; ma il fatto che il tuo pezzo sia discutibile, e lo è perché io lo discuto, è un pregio (del pezzo), non un difetto;
ancora sulle culture extra-europee: accolgo volentieri che non siano culture della potenza, tuttavia per il poco che  so della storia di quei popoli, anche lė guerre, soprusi, gerarchie; come è 'sto fatto?
Anni '70: ribellione generalizzata che ho sostenuto; Anni '80-'90: restaurazione che ho avversato; dal 2000: il Movimento No-Global (lo chiamo cosė per brevità ), un Movimento che va contro la Restaurazione; un movimento nuovo la cui istanza non può quindi  che piacermi, ma che si presenta con codici che non posso tradurre se non interloquendo criticamente coi suoi esponenti, cosė come sto cercando di fare anche ora con te. MOTTO: NO ALL'ECOLOGIA CONFESSIONALE, Sì ALL'ECOLOGIA LAICA.>>


[Wu Ming 5:]

Vengo subito al punto tre: quello che dici è vero. "Condizione obiettiva" è un concetto... come dire, un po' leninista ed è in contraddizione patente con una visione relazionale della realtà . La visione della realtà che propongo non è dogmatica: credo nondimeno che occorra, in maniera transitoria, se vuoi, senza affezionarcisi troppo, certo, averne una. Cangiante, mutevole. In costante divenire, ma...
fondamentalmente coerente. Intendevo sottolineare il fatto che quella che tu interpreti come spinta etica è un tentativo di analisi entro il dominio dell'essere comune. Semplicemente perché , per me, un dover essere non esiste.
Non sostengo che di fronte al problema dell'ecologia c'è solo una risposta: ma credo che le risposte possibili abbiano in qualche modo a che fare con l'idea di responsabilità personale. L'idea di responsabilità personale può essere concepita in modo razionale, ma ci si può arrivare attraverso l'emotività , il sentimento, la visione o il delirio. Non esiste una via privilegiata.
Quando alle culture non-occidentali, credo che il pensiero cinese o indiano siano semplicemente strumenti. è pur vero che guerre, sopraffazioni e violenze si sono prodotte a tutte le latitudini, ma è certo che è la cultura occidentale ad essersi specializzata nella guerra, nell'omicidio e nel genocidio. Sono pratiche nelle quali siamo, come dire, più competenti di altri. è fecondo l'incontro tra tradizioni: non si deve tentare un sincretismo, credo, ma una sintesi personale. Il pensiero Indiano o Cinese è terapeutico. Questo lo rende cosė consonante con le mie (e le tue, credo) preoccupazioni attuali.
Non cerco risposte in culture diverse dalla mia: cerco di allargare la consapevolezza e di cogliere punti di vista possibili. Cerco di illustrare e condividere il frutto della mia visione, una visione, con altri esseri umani. Credo che questo sia il mio ruolo, al momento. Se lo svolgo in maniera troppo "profetica" o saccente me ne scuso.
Cercherò di migliorare.


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Iscritt* a Giap in data 6 settembre 2003, h. 20:07: 4366
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