Nandropausa #5 bis - i commenti dei giapsters - 4 febbraio 2004
0- Preambolo + raduno giapsters milanesi
1- La presa di Macallè di Andrea Camilleri
2- Antracite di Valerio Evangelisti
3- Trick Baby di Iceberg Slim
4- Avenida Revolución di Cesare Battisti
5- Via da Brooklyn di Tim McLoughlin
6- L'elenco telefonico di Atlantide di Tullio Avoledo
7- I primi 3 classificati nel progetto "La stanza mnemonica: tributo a Oscar Marchisio"
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Rieccoci con il terzo "numero bis" di Nandropausa.
All'inizio questa cosa del "numero bis" non era facile da capire... Fino a qualche mese fa c'era ancora gente che chiedeva: "Ma perché dite che Nandropausa è un semestrale se avete fatto un numero a giugno e uno a settembre?".
Ormai è abbastanza chiaro che i due appuntamenti con la newsletter vera e propria sono a giugno e a dicembre, solo che ciascun numero è seguito - a variabile distanza di tempo, in media due mesi - da un "numero bis", un'appendice coi commenti dei giapsters ai libri che Wu Ming ha segnalato.
La "doppia cadenza", tra l'altro, permette di avviare progetti di scrittura open source, lanciare giochi etc. In questo numero pubblichiamo i tre testi vincitori del gioco La stanza mnemonica - tributo a Oscar Marchisio.
Insomma, Nandropausa è uno degli strumenti (Giap, iQuindici, communal projects etc.) di cui si va dotando questa comunità in seno alla repubblica democratica dei lettori.
Cogliamo la palla al balzo per farci latori di un messaggio: c'è chi vorrebbe organizzare un incontro tra giapsters di Milano e dintorni, per conoscersi e fare quattro ciàcole. Ci sembra una buona idea, chi vive/sopravvive nel capoluogo lombardo può scrivere a zaccuri.m@libero.it
Se i/le giapsters di altre città o regioni vogliono fare lo stesso, entrambe le newsletters sono a disposizione per eventuali annunci.
E ora, buona lettura. Nandropausa, dal canto suo, tornerà a giugno.
Andrea Camilleri, La presa di Macallè, Sellerio, Palermo 2003 - 10 euro
Ho in casa La presa di Macallè, ma non l'avevo ancora letto. La quasi unanime buona recensione-segnalazione me l'ha fatto prendere in mano. Ho chiesto a mia moglie, che l'aveva letto, come fosse; e lei: orribile! Oiboh! Possibile? Mi fido dei Wu e anche di mia moglie... Ho cominciato la lettura. Brutto, decisamente: tutto in dialetto che rende difficile la lettura, talmente faticosa da correre via sulle parole pagina dopo pagina, restando graffiato da un dialetto che sembra più un linguaggio gutturale. Senza musica. L'impianto è costruito, nel senso che non è una storia, un racconto che ha nelle sue viscere una vita propria per un'altra storia e per un'allegoria; è una storia costruita a tavolino, una storia vuota con dietro un'allegoria e una storia, la Storia violenta come sono i tempi adesso e come lo erano, forse, nel '35. I personaggi sono tutti artificiosi, i personaggi di Camilleri, anche quelli più semplici, hanno sempre avuto uno spessore di umanità, qui non esiste nulla di tutto ciò; sono tutte delle orrende macchiette di una realtà da incubo: violenta, sudicia e stupida nella sua follia. Non è detto che un romanzo progettato e scritto seguendo un'allegoria sia necessariamente di valore, e il confine tra bello e brutto in realtà passa attraverso le pieghe dell'anima dei lettori. Viviamo in tempi tristi, la pirateria è al potere e anche l'arte non riesce a non essere indignata oltre ogni ragionevole livello. Questo è forse il messaggio di Camilleri: sono talmente incazzato da non essere capace di scrivere neanche un briciolo d'amore. Al di là di tutto questo non consiglio a nessuno di leggerlo.
Stefano M., 4 dicembre 2003
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Ridurre sprezzantemente il Montalbano di Camilleri a uno "sbirro buono" è un'operazione ideologica nel senso negativo del termine. Camilleri per me è un grandissimo narratore di storie, uno che ti acchiappa per i cabasisi e ti sbatte all'ultima riga dei suoi romanzi, facendoti poi pentire di averli letti così di corsa. Non tanto o non solo per le sue trame, ma per il suo modo di raccontare, che gli sbirri siano buoni o cattivi.
Ciò detto, La presa di Macallè è un libro geniale, esilarante e sfacciato, un romanzo "libero" di uno scrittore che ormai può scapricciarsi come gli pare, anche se continua a farlo con molta delicatezza (un giudizio che pochi condivideranno, a proposito di questo libro).
Tornando allo sbirro, penso che il romanzo abbia almeno due punti di continuità con la serie di Montalbano. La prima più ovvia è quella linguistica: non avrei finito questo romanzo in una giornata se lo scrittore non mi avesse lentamente insegnato il siciliano (ancorché edulcorato), e mi sa che questa cosa Camilleri l'ha pensata e ci si è divertito un casino.
La seconda è che ambientando la storia a Vigata lui ci sta parlando della stessa Sicilia fascista nell'essere mafiosa o mafiosa nell'essere fascista di oggi, coi personaggi avviluppati nel loro quotidiano piccolo piccolo, pecoroni per comodità e pigrizia, tutti fascisti nel '35, tutti forzisti nel 2000. E' questa continuità spaziale (che diventa temporale) a raddoppiare la forza del messaggio, con ogni tanto qualche affondo da oscar (pagina 108 è un capolavoro).
A essere pelo-uovisti, ho trovato una forzatura eccessiva il fatto che Michelino ci mettesse così tanto a prendere consapevolezza sessuale, che fosse così lento a capire... non credo che i bambini siano così poco maliziosi e soprattutto penso che abbiano un loro istinto animale-uomo che li guida nella comprensione di certe cose, ma forse l'autore ha consapevolmente usato questa cosa come artificio comico.Monica M., 5 gennaio 2004
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Con questo libro Camilleri esce definitivamente dal genere da lui prediletto (il poliziesco) e anche dal racconto storico. La presa di Macallè è decisamente un romanzo erotico. E' il romanzo di formazione sessuale di un bambino iperdotato, nella Sicilia mussoliniana del 1935. Ed è un romanzo scritto in siculo, interamente, come mai prima Camilleri aveva fatto. Soldato di Gesuzzo e del Duce, Michilino è avanti a tutti i suoi coetanei. Studia privatamente perché è veloce di apprendimento. Va da solo a piedi dalla maestra. Ma soprattutto si conquista l'ammirazione di tutti grazie al suo "accidruzzo", decisamente spettacolare per un bimbo di sette anni.
All'oscuro delle più elementari regole della convivenza civile e delle relazioni sessuali (cose vastase), Michilino si crea una morale tutta sua, basata sulla contaminazione delle regole del moschetto e dei dieci comandamenti. E' "piccato" ammazzare un comunista? Basandosi sulle poche informazioni che ha, decide che no, non è peccato. Ma la realtà che gli passa davanti agli occhi e che, piano piano, comincia a comprendere, è sempre più complessa: il maestro che fa le "cose spartane" con lui, la mama' che fa "cose vastase" con il prete. Il papà che le fa con la cameriera. Il pedofilo nel cinema, la cugina Marietta (che dorme con lui)... Troppe sono le cose vastase e in contrasto con gli insegnamenti di Gesù e del Duce.
E' così che Michilino la farà finita.
Se all'inizio il romanzo di Camilleri piò dare fastidio, un po' per l'eccesso di dialetto siciliano, un po' per la trama decisamente "pornografica", andando avanti esce fuori la potenza della "Presa di Macallè". Questo libro ha la capacità di trasportare il lettore nel 1935 e di fargli assaporare, in tutta la sua follia, la situazione di ignoranza e indottrinamento del ventennio. Quale personaggio migliore di un bimbo per dare la sensazione della scoperta progressiva? Michilino è un po' Accio Benassi (il fasciocomunista) 20 anni prima. Ché se Accio fosse vissuto a Vigata nel '35, avrebbe fatto la fine sua. La sua storia è come quella di "Autobiografia di un picchiatore fascista" (libro degli anni '50 di Salierno) o "American History X" (film in cui Edward Norton è un neonazista americano). E' la storia di come si diventa fascisti.
E', nonostante le pagine "erotiche" che dòminano il racconto, un libro d'impegno politico e di denuncia. Un libro antifascista. Da leggere tutto d'un fiato e senza sperare che vi siano paesaggi africani, come il titolo lascerebbe pensare.Lorenzo Cassata, 29 gennaio 2004
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L'ho divorato, finito in due giorni, anche se non è un libro facile, anzi. E' un piccolo libro con tantissimo dentro, la storia di un bambino che, a furia di parole e retorica, si trasforma in assassino, convinto di diventare così un balilla e un soldato di Cristo perfetto (il che significa, ma non solo ai suoi occhi, la stessa cosa). E convinto di poter addrizzare un pò un mondo ormai irremediabilmente storto, convinto che le parole che i grandi dicono contengono verità, un bambino capace si di uccidere, e di farlo anche più volte, ma totalmente incapace di interpretare, capire, quello che la retorica cattolica, di regime, di paese, dice o nasconde. Convinto che le parole abbiano un solo significato, e che quel significato, preso alla lettera, valga per tutti... un bambino dal destino segnato, insomma.
Un romanzo che non fa sconti, che non tace nulla, pieno di pathos, emozionante, commovente, ma che sa anche essere divertente (la scena di sesso con la cugina è da lacrime). Ma anche una pesante accusa contro la retorica di regime, imposta grazie alle responsabilità della chiesa, e una critica verso un modo cieco di crescere, senza vederli mai veramente, i figli...
Grazie per il consiglioLoredana, 15 febbraio 2004
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Io non concordo con una cosa detta da WM nella recensione, cioè secondo me questo non è il capolavoro di Camilleri. Non so quale sia, del resto non li ho letti tutti, nè i montalbani, nè gli altri. La presa di Macallè l'ho preso perché parlava di un periodo storico che studio all'università e che mi interessa. Della guerra in Etipia se ne parla anche in "Debrà Libanòs" di L. Marrocu, anche se il risultato non è (per me) pienamente soddisfacente. In questo libro, invece, tutto grida odio e squallore. Il linguaggio, più difficile da comprendere rispetto ai montalbani, ma secondo me decisamente più vivo, dopo che ci si è fatta l'abitudine. Le prime pagine, umide, dei rapporti tra i cuginetti, degli amori consumati in fretta, del calore in mezzo alle gambe. E viva è, infine, l'epoca storica, viva anche se osservata da un punto di vista che concede poco all'amore, di sicuro, e anche alla tranquillità, ma che dice tutto quello che uno scrittore può dire su quel periodo. Più che gli aspetti da "minchiata sullenne" della parata, mi hanno colpito le parti in cui il ragazzino protagonista dialoga con un Gesù Cristo il cui amore si consuma e realizza nel fuoco, coi preti che nel migliore dei casi si scopano sua madre. Per finire col mito di Sparta decostruito a suon di inculate in improbabili lezioni di storia in cui, decisamente, val più la pratica della grammatica.
Fabrizio D,, 27 gennaio 2004***
Un nuovo Camilleri si è presentato nel panorama della narrativa nazionale: dopo averci abituato alle gesta del commissario Montalbano, dopo aver apprezzato il saggista e l'autore di splendidi romanzi d'ambientazione storica, ci ritroviamo a sgranare gli occhi davanti al Camilleri di "La presa di Macalle'" romanzo irriducibile ad ognuno dei generi in cui finora si espresso. Sconvolgente, apocalittico antifascista ma soprattutto anticlericale il nuovo romanzo di Andrea Camilleri ci accoglie con la stessa leggerezza dei precedenti romanzi: quel linguaggio misto di italiano e siciliano che ne ha fatto il tratto stilistico inconfondibile. Ma a poco a poco attraverso gli occhi di un bambino di 5 anni scivoliamo negli orrori che genera una precettistica ecclesiastica fatta di obbedienza, ignoranza e terrore del peccato di cui il regime fascista è solo un figlio e purtroppo non l'ultimo (come dimenticare l'abbraccio di papa Woytila al dittatore fascista Pinochet?)
Camilleri ha il grande merito, di ricordarci o di farci capire quali sono le cause che si celano dietro certi effetti. Un libro che gronda sangue e sesso, un libro che ha qualche eco del "Il Re di Girgenti" ma dove il sesso non è gioia e scoperta ma è squallido e greve. Così come in quello la religiosità rimandava ad un atmosfera magica, sudamericana, alla saga di Garabombo di Manuel Scorza o a Figlio di Uomo di Augusto Roa Bastos, qui la religiosità assume toni apocalittici. E' veramente un pugno nello stomaco questo libro, si potrebbe ancora dire molto, ci sono molti temi che stimolano la riflessione di sicuro non è un libro gratificante o consolatorio. Di sicuro c'è anche che se dovessero dare il premio Nobel della letteratura ancora ad un italiano costui dev'essere senz'altro Andrea Camilleri.Er Ciriola, 31 gennaio 2004
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Ho letto questo libro in due giorni, complice una lieve indisposizione. Confesso di amare Camilleri e i suoi personaggi, Montalbano compreso; mi piace il suo modo lieve di raccontare cose terribili e, soprattutto, l'uso che fa del dialetto. Fatti e misfatti possono essere raccontati in varie forme, qualcuna azzeccata e qualche altra no. Le storie che Camilleri racconta vengono meglio in dialetto: sono storie di gente comune ambientate in posti comuni, quindi è comune anche il linguaggio, la stessa contaminazione tra lingua colta e lingua parlata che, chi più chi meno, facciamo.
Così è anche per questo "La presa di Macallè", storia di un "picciliddru" ambientata nell'Italia del duce e della guerra d'Africa; figlio della buona borghesia, quella fascista, quella che conta, Michilino è apparentemente un bimbo fortunato. Amato e coccolato. Ma Michilino in realtà è un bimbo solo. Dal mondo degli adulti apprende solo le regole e le proibizioni, il senso del peccato e della colpa; nessuno che si preoccupi di fargli comprendere quello che gli viene insegnato, nessuno che gli trasmetta il senso della morale, l'etica, la com-passione. Anche perché in quel mondo la com-passione non c'è. E' un mondo in bianco e nero, che lascia spazio solo alla retorica e all'ipocrisia, dove quello che conta sono le apparenze, meglio se benedette da una religione svuotata di ogni contenuto e asservita al regime.
Michilino è un bimbo usato da questa ipocrisia; stretti in un modo di vivere ottuso e bigotto, gli adulti si sfogano su di lui, bimbo innocente e proprio perché bimbo. Considerandolo una non-persona, si crede che con lui ci si possa comportare liberamente, come mai ci si sognerebbe di fare in presenza di un altro adulto e quindi di una persona, in grado di giudicare e di essere giudicato. Ma Michilino è un bimbo sveglio e ben presto impara a difendersi dagli altri; purtroppo, non da se stesso. Proprio perché in lui è assente il senso etico della vita, dispone come meglio crede della vita attorno a sé.
E questo è il punto centrale, a mio avviso. Camilleri racconta una storia che ci parla della necessità di dare un senso etico e morale alle nostre azioni; della necessità di avere rispetto, anche per il "nemico". Perché spesso, a ben guardare il "nemico" non c'è, è solo una costruzione della nostra paura. Paura del diverso. Senza il rispetto, tutto diventa una "minchiata sullenne": nel manicheismo imperante (e quando imperante? Nell'Italietta fascista oppure oggi?) non c'è nulla di buono. Ma, soprattutto, Camilleri ci parla della necessità di aver rispetto dell'infanzia – i bambini, troppo spesso considerati solo un grazioso giocattolo col quale divagarsi ogni tanto. Sembrerebbe che la nostra cultura, il nostro mondo di adulti sia tutto teso alla tutela del minore e alla sua cura; in realtà dietro tale apparenza si nasconde una realtà fatta di indifferenza, di solitudine, di video-sitter e, peggiore di tutti, di silenzio. Troppo facile, dopo, gridare al most! ro.Ciao a tutti.
Daniela T., 2 febbraio 2004
Valerio Evangelisti, Antracite, Strade blu Mondadori, Milano 2003 - 15 euro
Sono stato tentato di acquistare l'ultima fatica di Valerio Evangelisti appena l'ho vista in libreria, poi ho deciso di attendere un'edizione economica. Pochi giorni dopo mi trovavo in libreria per la spesa periodica, la mano si è mossa contro la mia volontà, ha ghermito una copia del libro, messo appositamente in bella vista vicino alle casse per "indurmi in tentazione", e l'ha infilata sotto quello che avevo già preso per nascondermela. Non ho potuto far altro che pagare, tornare a casa e ovviamente iniziare da questo libro.
Ovviamente l'ho divorato perdendo ore di sonno, anche se non è l'opera di Evangelisti che ho preferito. La scelta dell'epoca e dei fatti trattati è stata molto interessante, visto che l'unica altra occasione in cui mi sono imbattuto nei Molly Maguires e nei minatori della Pennsylvania dell'ottocento è stata la visione notturna di un vecchio film di Martin Ritt "I cospiratori", molto superficiale e con un risultato sicuramente inferiore.
Ho trovato che Pantera avesse una capacità di comprensione e analisi dei fatti che andasse ben oltre l'analisi dei fatti da lui conosciuti e alle informazioni dategli dal nganga; sono conscio che il protagonista non solo è diverso dal mondo in cui vive, ma, in qualche modo, superiore anche se destinato a soccombere all'avanzata dei topi, del carbone, del metallo etc..., ha un contatto diretto con alcuni spiriti, ma resta un uomo coi suoi limiti e alcune conclusioni che trae sembrano inventate e non supportate dalle informazioni in suo possesso (anche se mi sento un po' come Watson quando si sentiva apostrofare "Elementare, dott.W.").
Quello che mi affascina maggiormente di questo personaggio è la sua coerenza. Ha una morale che non sempre è condivisibile ma vi si attiene scrupolosamente, quasi senza fatica, almeno visibile; una coerenza che difficilmente è riscontrabile oggigiorno.
(attenzione a chi non ha letto il libro: rivelo alcune cose sul finale ----->) Il finale tronco, mi ha lasciato perplesso; sembra che ci sia una doppia lettura. Nessuno penserebbe che il protagonista, armato solo di una pistola, e Kate, armata di disperazione e senza la possibilità di avere un'infanzia, possano cavalcare verso le mitragliatrici dell'esercito schierato e attraversarle incolumi; così penserebbe chiunque, ignaro del consiglio di Wu Ming, si fosse avvicinato con questo romanzo alle avventure di Pantera. Chi invece ha seguito dalle origini le sue avventure è al corrente che non è destinato a perire sotto i colpi dell'esercito. Ho pensato a lungo al significato di questa doppia lettura fino a scoprire che non era voluta ma dovuta alla mancanza di tre capitoli per il rispetto delle scadenze editoriali. Cosa che ci costringerà ad attendere il prossimo libro per sapere come si svilupperanno le vicende e in quale maniera Pantera è riuscito a sfuggire ai proiettili delle temibili mitragliatrici, già simbolo del progresso, positivo e negativo, in numerose pellicole: da Leone fino Zwick, non sempre con lo stesso risultato.Muriel, 2 febbraio 2004
Iceberg Slim, Trick Baby, ShaKe, Milano 2003 - 15 euro
Traduzione di Giancarlo CarlottiLa società e statunitense è razzista? Profondamente. Quei pochi (o dovrei dire molti?) disinformati che considerano ancora gli Stati Uniti come il grande crogiolo di razze, l'impasto armonico di etnie, il totem della democrazia dai tanti colori diversi, tutti quelli che continuano ad intonare la vecchia cantilena del "Dobbiamo prendere esempio da loro" dovrebbero invece leggere "Trick Baby" di Iceberg Slim.
Il libro mi è piaciuto molto soprattutto perché questa volta, nel ghetto nero di Chicago, non ci sono insegnanti bionde, scopritori di talenti hip-hop, onesti poliziotti di quartiere o fratelli maggiori pentiti che piombano dal cielo per ridare la speranza in un mondo migliore e insegnare la tolleranza al protagonista invischiato in problemi razziali. Hollywood arriverà parecchi anni dopo.
Qua c'è solo Johnny O'Brien/Trick Baby/White folks (a seconda che a chiamarlo siano sua madre/nemici bianchi/amici neri) ovvero un giovanotto sveglio, inchiappettato da un destino beffardo che gli ha fornito pelle bianca, occhi azzurri e un'anima afroamericana nera come la pece.
Brutto affare negli States dei primi decenni del secolo scorso, dove le cosiddette leggi "Jim Crow" sancivano e tolleravano misfatti da far invidia a quelli dei peggiori maiali in divisa sudamericani. Quella mentalità fondata sul disprezzo e sull'odio non era però a senso unico: i neri stessi l'avevano assimilata come unica arma disponibile per difendere un'identità ancora incerta e una libertà spesso formale. E' questo che mi ha stupito, il fatto che in America esistano discriminazioni anche all'interno della stessa comunità afroamericana, spesso relative a diverse gradazioni nel colore della pelle.
Per questo Johnny O'Brien è insultato e discriminato nel ghetto dove è cresciuto insieme alla mamma di pelle scura. Quando questa impazzisce in seguito ad uno stupro di gruppo (la componente sessuale, specie del tipo "interracial" è presente in tutto il libro e ricorre spesso come lo stupro nell'immaginario e nelle paure razziste americane), Johnny non ha dubbi sul fatto che il suo destino è comunque in mezzo ai "fratelli" neri, nonostante le ingiurie e gli sguardi ostili. L'unico capace di intuire il vero colore della sua anima è Blue Howard, un truffatore di strada con l'istinto paterno che accoglie il ragazzo in casa sua, lo assume come socio e gli insegna tutti i trucchi per spennare i polli col portafogli pesante. La storia prosegue verso il troppo prevedibile epilogo, tra le spassosissime cronache dei colpi messi a segno dalla strana coppia e le ricorrenti e drammatiche crisi d'identità di White Folks, comprensibili vivendo sempre a ridosso della "colored line", quella barriera simbolica ma dalle conseguenze terribilmente reali che, per tanti anni, è stata uno sfregio sulla guancia dello Zio Sam e che ancora oggi rimane una cicatrice chiusa male.
Complessivamente il libro è altamente godibile, fila come un treno grazie allo stile che prende, senza intellettualismi e moralismi forzati (visto anche il curriculm vitae di Iceberg) e uno slang che strappa sempre il sorriso. Dopo qualche capitolo avevo già assimilato qualche battuta e la usavo con gli amici!
Inoltre può essere anche l'occasione buona, come lo è stato nel mio caso, per iniziare qualche ricerca in più sul periodo "Jim Crow" e accostarsi agli altri libri della collana "BlackPrometheus" editi sempre da Shake Edizioni.Giulio, 31 gennaio 2004
Cesare Battisti, Avenida Revolución, Nuovi Mondi Media, Bologna 2003 - 13,5 euro
Ho terminato a fatica questo romanzo di Cesare Battisti, e confesso che non l'ho davvero trovato un romanzo filosofico... è si il diario di un viaggio (anche se secondo me ben poco iniziatico), il resoconto allucinante e allucinato di una esperienza di frontiera, ma nel complesso mi è sembrato abbastanza deludente.
La storia dell'incontro tra il protagonista (Casagrande) e il suo sosia (Trombetta) è un pò tirata per i capelli, con il sosia-scrittore che, salvato da affogamento sicuro dal povero ragioniere, ha comunque la fortuna di aver salvato il suo passaporto, e la prima cosa che fà è regalarlo, anzi prestarlo, al ragioniere.
Ragioniere che è un perdente, uno sconfitto, e lo sarà fino alla fine, anzi soprattutto alla fine: dopo che lo scrittore si è appropriato del romanzo che lui aveva scritto e della sua donna, l'unica scappatoia che trova è quella di suicidarsi, sperando così di colpire il Trombetta, che, per una serie di equivoci, potrebbe essere accusato di averlo eliminato... insomma torna ad essere quello che è sempre stato, lo sconfitto di turno, incapace di adeguarsi alla realtà, e questo mi ha fatto decisamente incazzare. Ed è per questo che non ho visto in questo romanzo nessun viaggio iniziatico, nessuna catarsi, anzi, l'ho trovato decisamente "deterministico": il Casagrande è un fallito a Milano, e neppure dall'altra parte del mondo riesce ad essere altro, anche se per un pò aveva fatto sperare diversamente. Ma in realtà lì non era lui, cioè era lui ma era anche il Trombetta, lui si scrittore famoso, impegnato politicamente (e in realtà di ben misera dignità e correttezza, anzi gran stronzone visto che ha rubato donna e romanzo al Casagrande), ma quando il gioco si scopre, lui torna ad essere il ragioniere che è sempre stato, e da sconfitto trova l'unica via d'uscita possibile, il suicidio.
Il romanzo nel romanzo, poi, l'ho trovato decisamente sopra le righe, scritto con molte ambizioni ma con scarsi risultati: anzi per dirla tutta, l'ho trovato inefficace e decisamente brutto.
Stavolta niente ringraziamenti per il consiglio :)Loredana, 15 gennaio 2004
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Impossibile per me leggere questo romanzo senza pensare a CHI l'ha scritto. Al di là del fatto che sì, la scrittura ha qualche piccola caduta di tono, per il resto questo bildungsroman ha uno spessore molto intenso. Fa finta di scorrere veloce su una storia ma in realtà scarnifica lentamente il senso della perdita di identità, dello sradicamento, della persecuzione, dell'esilio, del not belonging, la non appartenenza al luogo originario della propria nascita.
Impossibile non pensare alla storia personale del suo autore perché nella scrittura lui ci porta su un piano narrativo viscerale rispetto al senso della perdita/smarrimento/non ritorno/rifiuto. Il protagonista, come in "Doppio Sogno" parte per un'avventura che pensa di controllare e invece si perde in una realtà schiaffeggiante alla quale decide sorprendentemente di adeguarsi, intuendo che il vero viaggio cominci piuttosto nel contrattempo che non in ciò che è pianificato.
Il Ragionier Casagrande scambia quasi per gioco la sua identità con quella di uno scrittore e lo scambio si trasforma in perdita, diventando una trasfigurazione del sé. Non è però un cambiare personalità quanto un'emersione di una parte furiosamente libera che sa esprimere pulsioni primordiali. Quindi all'angoscia kafkiana di annichilimento si sostituisce lentamente una capacità di accogliere le esperienze, che fanno del suo soggiorno forzato a Tijuana un'iniziazione alla vita della strada, e a quella del suo mondo interiore. Più il protagonista si sradica dalla sua vita (e più è costretto a sporcarsi le mani con la realtà), e più si riappropria della sua energia sopita, senza che il tono sdilinquisca mai nonostante lui diventi una specie di eroe popolare. Ma la situazione paradossale in cui il Caso l'ha gettato non basta ancora per l'elaborazione: è necessario un passo successivo, un "play within the play", il romanzo che il Ragionere inizia a scrivere nel quale emerge sempre più l'inconscio e la trasfigurazione della realtà. Il suo –brutto- romanzo è un'avventura squinternata in un'inquietante Milano del futuro, una storia fantasy per elaborare la realtà in maniera simbolica, una metafora sul presente anzi, un eterno presente di oppressione e sopruso pan-geografico. La Milano dell'autore ha perso ogni rispecchiamento di "casa" e diventa un luogo quasi ostile, al quale non sembra più possibile fare ritorno.
Ecco, quest'ultima cosa è molto forte e fa respirare l'anima dell'autore: l'impossibilità del ritorno. E' molto triste questo senso di rassegnazione alla lontananza, senza quasi più neanche la nostalgia, come se anche un ritorno, dopo tutto, avesse perso di senso.Monica M., 26 gennaio 2004
Tim McLoughlin, Via da Brooklyn, Marsilio Black, Venezia 2003- 12,15 euro
Traduzione di Lea Maria Iandiorio"We' ve got to get in to get out", cantava Peter Gabriel in The Carpet Crawlers (The Lamb Lies Down On Broadway - 1974) che era un concetto per me surreale fin quando circa 2 settimane fa a Fahreneit - Radio 3 Rai - un disegnatore/urbanista (Pericoli credo si chiamasse) presentando un suo libro sulla geografia urbana di New York spiegava tale concetto: il centro di New York è vuoto contrariamente al resto delle città del mondo dove il centro della città è il luogo di massima concentrazione di attività e persone. New York no, ha deciso che il suo centro fosse un luogo dove andare quando si vuole andare fuori. Non si capisce New York e i suoi abitanti se non si coglie questa apparente non senso: questo centro che è il central park di quest'isola che non sembra un'isola che è Manhattan. Chiaro che poi la geografia urbana influisce sul modo di essere dei suoi abitanti.
Via da Brooklin l'avevo appena iniziato e non l'avrei letto nello stesso modo: un libro di geografia urbana con il protagonista che fa il tassinaro abusivo e si sofferma ad illustrare i percorsi ed il paesaggio delle avenues e delle streets numerate ma anche ci ricorda che le successive ondate migratorie hanno spostato verso l'interno degli states i vecchi abitanti lasciando il posto a nuove etnie. Una New york che cambia velocemente e che coglie questo diciannovenne Mike al passaggio cruciale della sua vita tra il mito del self made man che si arricchisce anche illegalmente e la prospettiva dell'americano medio laureato - sposato- impiegato.
Beh, qui i miti americani e in particolare il mito del self made man va decisamente in crisi e come ne La 25a ora di Spike Lee c'è la riscoperta se non la rivincita dei padri: i giovani si accorgono che per tirarsi fuori dalla merda devono ricostruire un rapporto con le generazioni precedenti.
Chi l'avrebbe mai detto?
Mike decide comunque di "andare a vedere" entrando nella criminalità ma sempre con l'idea di uscirne (di nuovo mi viene in mente il ritornello di Peter Gabriel). Come per tanti libri americani sembra però già pensato per una trasposizione cinematografica e questo è un pò il limite. Il miglior capitolo è senz'altro quello di una giornata in tribunale: considerando che l'autore lavora in tribunale deve essere senz'altro una testimonianza diretta.
Questo è il romanzo d'esordio di Tim Mc Loughlin - La lettura di qualche nostro autore tipo De Cataldo penso gli aprirebbe la possibilità di scrivere qualche romanzo spettacolare.Er Ciriola, 31 gennaio 2004
Tullio Avoledo, L'elenco telefonico di Atlantide (Sironi, Milano 2003 ed Einaudi, Torino 2003)
Gli ingredienti che mi ossessionano sin dalla notte dei tempi c'erano tutti: i Nazisti e gli ebrei, i mondi paralleli alla P.K. Dick, la musica di un walkman come colonna sonora di una vita che tenta d'ispirarsi al miglior cinema, il complotto templare del Pendolo di Foucault, uno dei miei libri preferiti (anche se per motivi opposti a quelli denigratori di Eco).
Quindi ho divorato le prime 99 pagine, esattamente sino al fatidico capitolo sul ristorante cinese La Grande Muraglia, denso delle mille banalità che sono solite venire al mondo quando gli amici maschi decidono di trovarsi soli tra di loro: brutto indizio, ora la vita rifletteva il peggior quotidiano. Di banalità in banalità si giunge a descrivere il rapporto di coppia: lui che non tromba più lei, perché c'è di mezzo un bambino e il classico calo del desiderio, descritto in stile giornale femminile con borsettina in regalo. Colpo di genio, soluzione ardita della trama: il protagonista tradisce la moglie con una collega di lavoro (chi avrebbe mai potuto pensarlo?). La trama esoterica sembra evaporare sempre più velocemente, abbattuta dalla descrizione sempre più fitta della mediocrità politica di una fantomatica provincia italiana.
Come un film che non sa scegliere il suo finale e li prova tutti (il regista s'è intrigato nell'orto, diceva mio nonno in dialetto ferrarese), assistiamo attoniti a scenette thriller ridicole e colpi di scena che non scongiurano i colpi di sonno.
La coda finale ci dovrebbe spiegare il titolo eccentrico del libro, così viene tirata in causa anche la fantascienza e gli Urania Mondadori: siamo d'accordo, tutto quello che abbiamo letto è stato solo un sogno, un incubo per l'esattezza ed uno spreco di carta temo non riciclata.Marco B., 1 febbraio 2004
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Iniziamo con un dato di fatto: il libro esiste in due versioni differenti, diversa casa editrice, diverso formato, diversa copertina e diverso prezzo. Il libro è assolutamente lo stesso, a voi la scelta. Qualcuno dice (WM1 in Nandropausa 5# 3 dicembre 2003) di strappare le ultime tre pagine ad inizio lettura, altrimenti lo si farà alla fine, perché rovinano tutto. Ve l'ho detto, e come tutti, se affronterete questo libro, non strapperete quelle pagine, anzi leggerete tutto aspettando il fatidico epilogo.
Io non sono rimasto deluso, anzi, ormai stavo per archiviare la storia ed invece....sorpresa. Bello, mi piace cambiare prospettiva, trovarmi in mezzo alla strada con un pigiama addosso, freddo a parte, pigiama a parte e strada a parte. Preferisco stare a letto con il mio bel pigiama, o toh, sul divano in cucina, ma tant'è essere spiazzato mi piace, certo magari Avoledo lo fa in modo troppo repentino e tutto sembra quadrare anche se ci sarebbe da fare qualche appunto. C'è del bello anche in questo, niente da dire, se inizi a discutere di questi particolari vuol dire che il libro ti ha preso, e, per carità, Avoledo è uno di quelli che te la raccontano, e tu non ti stanchi, anche se a volte ti chiedi dove voglia andare a parare. Il libro è pervaso da un buon ritmo, che prende, cresce pian piano, si intensifica negli stretti spazi dei dialoghi, botta e risposta a cui, a volte, mancano solo le risate in sottofondo stile Friends ma che nel complesso sono divertenti ed in alcuni tratti memorabili.
Dall'ordinario allo straordinario in un attimo.
Solo andata.
La trama non ve la svelo, basta sleggiucchiare la quarta di copertina, che già di suo dice troppo. Dico soltanto di aver letto il libro proprio mentre consegnavo gli elenchi del telefono, inseguendo improbabili numeri civici dispersi negli Apennini Tosco-emiliani. "L'elenco telefonico di Atlantide" mi sembrava un titolo adeguato alle mie esigenze di improvvisato uomo degli elenchi. Mi sono veramente divertito, spero possiate farlo anche voi. Divertivi, ovviamente, non consegnare elenchi.Andrea Piras, 2 febbraio 2004
PROGETTO "LA STANZA MNEMONICA - TRIBUTO A OSCAR MARCHISIO"
Ringraziamo tutt*, ma proprio tutt* coloro che ci hanno spedito versioni alternative delle pagine 79 e/o 81 de La stanza mnemonica (cfr. Nandropausa #5), misconosciuto capo d'opera del romanziere, saggista, sinologo e imprenditore Oscar Marchisio. A dirla tutta, il romanzo avrebbe anche un sottotitolo: "La consistente immaterialità della vita nella rete globale", ma crediamo sia farina del sacco dell'editore, non di Marchisio.
Quest'omaggio collettivo all'eccelso collega ci inorgoglisce e commuove. Grazie a tutti voi, il capolavoro disperso del cyberpunk italiano torna a nuova vita, e chissà mai che un editore non si decida a ripubblicarlo! Ricordiamo che, stampato nel giugno 1995, il romanzo non arrivò mai in libreria per sopraggiunto fallimento dell'editore Synergon di Bologna.
All'unanimità, la giuria ha dichiarato vincitori Giuliano Santoro, Fabrizio Giuliani e Secondo Calibano. Se ci manderanno i loro indirizzi di posta, spediremo loro il premio, vale a dire La stanza mnemonica Xerox edition. Agli altri autori non va che la nostra gratitudine.
In bianco pag.80 de La stanza mnemonica, in lilla le tre pagg.79 e/o 81 risultate vincenti.
In calce, la vera pag.81 del romanzo e un suo tentativo d'interpretazione firmato da Fabrizio Giuliani.
Ed ora, in anteprima telematica mondiale, la vera pagina 81 de La stanza mnemonica:
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La stanza mnemonica secondo me
di Fabrizio Giuliani
Ci troviamo in un’epoca in cui le vecchie concezioni dell’identità sono ormai solo un ricordo, rese obsolete come sono dalle possibilità tecniche di rendere manifesta e realizzare la vecchia idea della coscienza come palcoscenico su cui si alternano varie compagnie di teatro.
La “Stanza mnemonica” è la mente di un uomo che si sottopone di propria spontanea volontà alla rielaborazione guidata delle proprie tracce mnestiche e, con ciò, dell’idea che egli ha di se stesso. Tale rielaborazione prevede l’inserimento dall’esterno di uno storyboard che costituirà il nuovo fulcro della coscienza del soggetto. L’operazione critica per la riuscita della riforma coscienziale è l’interfacciamento del nuovo storyboard con le storie già vissute dal soggetto e quelle già presenti nella sua coscienza, a vari livelli.
Tecnicamente, la realizzazione della riforma prevede l’inserimento nella mente del soggetto di un avatar gestito da un apposito computer (rispettivamente Simul-man e la sua base hardware, Simul) che entra in contatto con altri avatar che “presentano” i loro storyboard, quelli preesistenti nella coscienza da riformare. Durante l’incontro, Simul cerca di favorire l’”incontro” del nuovo racconto con quelli degli altri, e ciò avviene sotto la forma di dialogo, e di rapporto fisico, tra coscienze simboliche (le “compagnie teatrali”); questo implica un lavoro di adattamento da compiere in tempo reale. L’incontro viene favorito dall’adattabilità intrinseca del nuovo racconto, specialmente nel “bord” (volgarizzazione di “border”), ossia nei nessi di confine che andranno ad incastrarsi con altri thread. Lo scopo finale è di far sì che i diversi storyboard si fondano l’uno con l’altro e diventino uno solo. Solo dopo che l’incontro è avvenuto e il racconto è stato modificato una prima volta, esso diventa “stocked”, ossia viene trasferito dalla Stanza, tramite Simul-man, alla memoria di Simul e può essere esaminato nella sua interezza e confrontato con altri racconti stoccati in memoria. In tempo reale, invece, se ne possono ottenere solo dei campioni.
La situazione descritta in queste pagine è nuova ed inquietante: il collettivo degli addetti all’implanting si rende conto, tramite le capacità extrasensoriali del complesso Danielle-Simul, della presenza nella Stanza di un infiltrato, che per le sue caratteristiche può solo essere il prodotto di un bio-robot, una coscienza biocibernetica (ben differente dal complesso Danielle-Simul che è invece detto ciberbiologico). Tuttavia tale presenza si distingue dai precedenti casi registrati per l’assenza dell’eco coscienziale (extra-body) dell’hacker esterno, che si limita piuttosto ad influenzare un avatar ed un racconto già esistenti.
Gli addetti all’implanting devono reagire, e presto, poiché se racconti reciprocamente incompatibili rimarranno per troppo tempo nella Stanza, il padrone di quest’ultima impazzirà.
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In data 4 febbraio 2004, Giap e Nandropausa hanno 5126 iscritt*