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Treptower Park 20 LUGLIO 2002: UN PICCOLO MIRACOLO LAICO
Excursus dal basso Appennino bolognese a Piazza Alimonda, passando per...

di Wu Ming 1

[Apparso su: "Giap", s.n., 24 luglio 2002; "Il Domani di Bologna", 27 luglio 2002; "L'Unità", 1 agosto 2002; "Carta", anno IV, n.30, 1/7 agosto 2002; Wu Ming, Giap! Storie per attraversare il deserto, Einaudi, Torino 2003, pagg.41-46]


"Si dicono cose solide, quando non si cerca di dirne di straordinarie."
Isidore Ducasse, conte di Lautréamont, Poesie, 1870



Nell'autunno-inverno 1944 le popolazioni dell'Appennino tosco-emiliano subirono molte rappresaglie e stragi nazifasciste. Il fronte era fermo lungo la cosiddetta "linea gotica", le montagne erano il confine naturale tra il territorio occupato dal Reich e quello già liberato dagli Alleati.
Disorientati dall'estendersi della guerriglia partigiana e ormai consapevoli di aver perso la guerra, i nazifascisti si scatenarono nella repressione più selvaggia e brutale. L'eccidio più famoso fu quello di Marzabotto, a ottobre.
A partire da dicembre e per tutto l'inverno, all'incirca cento partigiani vennero prelevati - di nascosto e a piccoli gruppi - dal carcere bolognese di S. Giovanni in Monte e, viaggiando di notte, portati su un poggio in località Sabbiuno di Paderno, nel punto più alto di un crinale che separa le valli del Reno e del Savena, nove chilometri a Sud del centro di Bologna. E' una zona di fianchi erosi e di calanchi, dove la vegetazione si alterna a fenditure argillose grigio-azzurre e a distese sabbiose e dorate.
Dal poggio, oggi come allora, si gode di una vista a trecentosessanta gradi. Al tramonto tutto diviene luminescente. Nel Pliocene inferiore, lì c'era ancora il mare, e i calanchi erano fondali profondi.
Di notte, dove l'orizzonte si apre ampie brecce, dal poggio di Sabbiuno si vede la distesa di luci di Bologna. Nell'inverno 1944, con la città oscurata per via dei bombardamenti, è probabile che non si vedesse niente.
I partigiani venivano allineati sul ciglio del burrone e fucilati.
I corpi cadevano a valle, perduti nella fanghiglia e nella neve.
Quel prolungato eccidio fu scoperto solo dopo la Liberazione. Solo 53 vittime furono identificate.
 
Bassorilievo Treptower Park I monumenti ai caduti - ivi compresi i caduti della Resistenza - faticano a commuovere e a comunicare davvero qualcosa a chi è venuto dopo (una vicinanza, una continuità delle lotte, un'appartenenza alla comunità di chi ha lottato e lotta). Molto spesso sono eccessivamente tronfi e retorici, sovra-codificati, chiusi, monologici. Con un monumento non si dialoga. Un monumento non lo si "interroga". Inoltre, i monumenti trasudano burocrazia, in qualche modo ostentano il processo di selezione (sovente inficiato da nepotismi) grazie al quale proprio quel particolare artista ha potuto realizzare la tal cosa.
A onor del vero, capita che il tempo e i cambiamenti del contesto sociale intervengano ad "aprire" un monumento, a renderlo inaspettatamente "dialogico". E' probabile che durante la Guerra Fredda il Memoriale sovietico del Treptower Park, nell'ex-Berlino est, fosse un luogo alienante e opprimente: un chilometro quadro di ridondanza guerresca e realismo socialista, bassorilievi a illustrare il contrattacco russo e la presa di Berlino, la colossale statua di un soldato che tiene in braccio un bimbo e con una spada ha appena frantumato la svastica...
Nel visitarlo in un tardo pomeriggio dell'ottobre 2001, ho trovato il Memoriale molto bello e commovente: quel soldato alto undici metri sembra aver usato la spada per rompere le catene espressive a suo tempo impostegli dalla committenza (il regime stalinista). Oggi il Memoriale non serve più ai secondi e terzi fini che stavano dietro la sua realizzazione, non deve imporre né cementare alcun semi-apatico consenso e finalmente può adempiere il suo compito primario, cioè co-memorare ("ricordare insieme") la lotta contro il nazi-fascismo, non solo in Germania ma in tutta Europa.
A essere celebrata non è più l'ideologia ufficiale di uno stato autoritario, ma il liberatorio processo di mitopoiesi scatenato dalla resistenza di Stalingrado e dalla controffensiva che ne seguì.
A pensarci bene, il Memoriale adempie anche un compito secondario, del tutto nuovo: essere una presenza scomoda e beffarda nel centro dell'Europa del capitale, oggi malferma e in recessione ma fino a ieri fanatica nell'imporre ai miscredenti la fede neo-liberistica.

Anche a Sabbiuno c'è un monumento, un monumento che non è mai stato chiuso né monologico, che non ha davvero niente di retorico né di burocratico e che al contrario del Memoriale di Treptow è sempre stato laico e inclusivo, mai appesantito dall'ideologia. Un piccolo miracolo.
Nel trentennale dell'eccidio, per co-memorare quei cento combattenti antifascisti, sul ciglio del burrone furono posati massi di piccole e medie dimensioni, ciascuno con inciso il nome di un partigiano. Quasi un intervento di "land art", leggero e armonioso, tanto perfettamente inserito nell'ambiente circostante da apparire naturale.
Col tempo, alcuni nomi si sono un po' consumati, e tra i massi sono cresciute piante, alberelli; dal 1974 intorno al monumento c'è un piccolo parco, nulla più che una striscia d'erba lungo l'orlo del baratro, larga forse dieci metri e lunga poco più di cento. All'ingresso c'è una lapide molto sobria, e premendo un tasto su una scatola bianca si può sentire una voce raccontare tutta la storia. In fondo al parco, nel punto più alto del crinale, c'è una scultura/installazione che "stona" con tutto il resto ma per fortuna è sufficientemente discosta (mitragliette allineate su un muretto di cemento).    
Macigno di SabbiunoQuei massi parlano, li interroghi e ti danno mille risposte. Su quel calanco, come a Treptow anche se in un modo completamente diverso, ti senti parte di una comunità aperta in lotta, una comunità che sfida il passare del tempo e supera in avanti persino le degenerazioni dei valori che spingono a lottare.
Il discorso fatto per i monumenti vale anche per le cerimonie, per i rituali.
Non si può prescindere dai rituali come non si può prescindere dai miti, poiché entrambi danno forma alla vita, ma ci si deve sforzare perché i rituali e i miti non si svuotino né si autonomizzino.
"Ricordare insieme" non è per forza di cose un atto impoverente, alienato e sclerotizzato (sclerotizzazione di cui è magnifico esponente il presidente Ciampi). La co-memorazione può anche essere testimonianza civile dal basso, azione propositiva nello spazio pubblico, manifestazione di una "eccedenza" simbolica che spiazza continuamente i poteri costituiti.
Un iconoclasma banale, inutile e senza fondamento porta i falliti eredi di certe avanguardie estetiche e/o politiche a demonizzare l'idea stessa di "cerimonia", salvo poi agire essi stessi secondo una ritualità misera e deteriore (vedi il micro-corteo dei "duri" il 20 luglio scorso a Genova).
A costoro ha già risposto fin troppo bene Joseph Campbell, sommo studioso di mitologia; in una conferenza del 1964 sulla "importanza dei riti", Campbell diceva:
"Tutta la vita è struttura. Nella biosfera, più elaborata è la struttura, più elevata è la forma di vita. La struttura di una stella marina è considerevolmente più complessa di quella di un'ameba, e la complessità aumenta risalendo lungo la linea evolutiva, diciamo fino allo scimpanzè. Avviene la stessa cosa nella sfera culturale umana: la grossolana convinzione che l'energia e la forza possano essere rappresentate o interpretate abbandonando o rompendo ogni struttura è confutata da tutto ciò che sappiamo dell'evoluzione e della storia della vita".

A Bologna, l'11 marzo di ogni anno si ricorda Francesco Lorusso, ucciso dai carabinieri nel 1977. Francesco fu ammazzato nella fase discendente del grande ciclo di lotte iniziato nel '68. E' vero che i moti del '77 annunciavano nuove soggettività, nuovi comportamenti, nuove pratiche di comunicazione, cionondimeno la fase era terminale, dopo vennero la repressione e il carcere, poi la caduta nella marginalità, l'eroina, il riflusso, la Reaganomics e il craxismo, la desertificazione sociale e per alcuni la resistenza disperatissima nelle nicchie delle città.
Per tutti gli anni Ottanta e Novanta, nonostante la generosità e gli sforzi soggettivi di chi organizzava, tutti gli "11 marzo" si sono svolti sotto un cielo color ematoma.
Il primo anniversario della morte di Carlo Giuliani ha avuto in sorte un cielo diverso, in tutti i sensi. Ne sono fermamente convinto: Carlo è stato ucciso all'inizio di un ciclo. Questa cosa a Genova si respirava a pieni polmoni. In Piazza Alimonda si è svolto un altro piccolo miracolo laico, una commemorazione semplice ma emozionante, poco zavorrata dall'ideologia, commossa ma non sconsolata, incazzata ma non obnubilata dall'odio.
Guardando quei palloncini salire e allontanarsi, partecipando a quell'applauso lungo mezz'ora, ho pensato a Sabbiuno.  Mi sono reso conto che stavo vivendo la stessa esperienza di chi, dopo la Liberazione, si ritrovò su quel ciglio per assistere alla posa di quei massi. Ricordo di aver detto a Luca: - Che bella cosa...
Come a Treptow meno di un anno prima, ho pensato a mio nonno, al lavoro fatto per gli ultimi due libri, a Vitaliano... Poi mi sono venuti in mente tanti nomi, nomi di morti e di vivi, vittime del grilletto facile e del grilletto stronzo: Soriano Ceccanti, Giannino Zibecchi, Anna Maria Mantini, Mara Cagol, Francesco, Giorgiana Masi...
Ormai i palloncini erano più piccoli di granelli di sabbia, e l'applauso continuava, nessuno voleva smettere.
Poi qualcuno ha rotto l'incantesimo, lanciando uno dei soliti slogan, di quelli scontati, che fanno incartapecorire l'aria: "Carlo è vivo e lotta insieme a noi etc." poi "Hasta la victoria siempre", e un terzo che non ricordo. Qualcuno li ha ripetuti, ma l'applauso si è di nuovo insinuato, è ripartito ed è durato ancora qualche minuto.
Mi è venuta in mente la scultura delle mitragliette su a Sabbiuno: superflua, sovra-codificata, proprio come quegli slogan... ciò non toglie che è per interrogare i massi che si continua a salire su quel ciglio. Ed era per partecipare a un piccolo miracolo che siamo tornati a Genova.
Nel grande serpente che era il corteo, sia detto senza offesa, era facile distinguere chi era stato in piazza Alimonda da chi veniva da altre piazze tematiche: noi camminavamo a mezzo metro d'altezza.
Mi dicono che qualche sedicente "duro e puro", imbolsito dal proprio desiderio di sconfitta, si è indignato vedendo un corteo felice: "cosa c'è da festeggiare? è una vergogna!".
A Sabbiuno, costoro non vedrebbero che aride pietre. A Treptow, vedrebbero solo il fantasma di Stalin. A Vallegrande, in Bolivia, vedrebbero solo buchi nel terreno.
Le moltitudini, dal canto loro, sanno interrogare il mondo, e sono ancora in grado di stupirsi delle risposte.