Traduzione ed elaborazione degli appunti di Wu Ming 1 (scritti in inglese) per un intervento al dibattito "Semi(o)resistance", nell'ambito del festival make-world 0=YES, Monaco di Baviera, 20 ottobre 2001. L'intervento saltò all'ultimo momento per motivi di salute.
La trascrizione "originale" è disponibile qui.
Un approfondimento di alcuni dei temi affrontati - risalente agli stessi giorni e allo stesso viaggio in Germania - è disponibile qui.
Si trattava di un primo tentativo di "storicizzazione" dell'esperienza delle "tute bianche", del cui spirito di apertura e mitopoiesi purtroppo sopravvive ben poco nei gruppi organizzati che ne reclamano l'eredità.
[Premessa scritta il 15 ottobre 2002]
TUTE BIANCHE: LA PRASSI DELLA MITOPOIESI IN TEMPI DI CATASTROFE
di Wu Ming 1
E' diventata un'osservazione banale, persino ridicola, eppura è sulla bocca di tutti: dopo la distruzione del World Trade Center e la guerra imperiale contro l'Afghanistan, con l'ammontare dei "danni collaterali" che cresce a dismisura, noi tutti siamo entrati in una nuova fase delle nostre vite e del conflitto sociale.
Questa fase è pesantemente condizionata dalla paranoia, dalla propaganda di guerra, dalla voglia di censura, dall'insofferenza verso libertà civili come quella d'espressione, da un maccartismo riverniciato e da una rabbiosa marmaglia che chiede a gran voce nuove discriminazioni, sotto la cupa luce della retorica sullo "scontro di civiltà".
Eccoci di nuovo sul fronte interno. Una nuova Guerra Fredda. La chiede l'Impero.
Ad ogni modo, gli accadimenti dell'11 settembre hanno "soltanto" reso più evidente ed esplicito il fatto che già dopo Genoa eravamo entrati in uno scenario di catastrofe.
Adoperando il termine "catastrofe" non mi riferisco alla fine del mondo, ma a una nuova topologia, uno spazio creato da una brusca discontinuità.
Abbiamo varcato quella soglia in via Tolemaide, a Genova, il 20 luglio scorso. In quel luogo abbiamo provato un improvviso spiazzamento. Meno di due mesi dopo ne abbiamo esperito un secondo, come un "ripiegarsi" e una cesura dello spazio pubblico. Tutto questo ci ha costretti a ripensare il nostro approccio.
La discussione è ancora in corso e dai nostri cilindri non usciranno conigli. Voglio precisare che nessuno dei fenomeni che mi accingo a descrivere esiste ancora, almeno non in Italia e certamente non nella sua forma originaria.
Di fatto, negli ultimi giorni le uniche tute bianche visibili sui teleschermi o nei giornali avevano a che vedere con l'antrace e la guerra biologica.
Di contro, non ripartiamo da zero: non vi è dubbio alcuno che le moltitudini di persone che hanno sfidato il capitalismo globale intendano continuare a farlo. Domenica scorsa, centinaia di migliaia di persone si sono ritrovate a Perugia, in Italia, per marciare contro i bombardamenti americani in Afghanistan. A decine di migliaia hanno fatto la stessa cosa qui in Germania. Maggiori saranno i "danni collaterali" prodotti dall'Impero in Afghanistan, minore sarà il numero di scuse che la gente sarà disposta ad accettare.
Lo so, è dura, ma solo gli stupidi pensavano che sarebbe stato facile.
Quanti non siano al corrente dell'utilizzo peculiare di parole come "mito" e "mitopoiesi" diffuso nel movimento italiano potrebbero sospettare che si tratta di un mero revival del pensiero di Georges Sorel e delle sue descrizioni dello "sciopero generale" in chiave di "sindacalismo rivoluzionario".
In effetti, abbiamo cercato di mantenere tutti gli elementi utili del discorso di Sorel, al contempo sbarazzandoci di quelli più datati e pericolosi.
Secondo Sorel, lo sciopero generale era una rappresentazione che permetteva ai proletari di figurarsi "la loro prossima azione sotto forma di immagini di battaglie in cui [fosse] certo il trionfo della loro causa". Tale immagine, o meglio tale gruppo di immagini, non doveva essere analizzato "allo stesso modo in cui scomponiamo una cosa nei suoi elementi", bensì andava "presa in blocco" come una forza storica, senza fare paragoni "tra gli effetti conseguiti e le immagini accettate dai proletari prima dell'azione" (Lettera a Daniel Halévy, 1908).
In parole povere, il mito sociale dello sciopero generale era "in grado di evocare istintivamente tutti i sentimenti corrispondenti alle diverse manifestazioni della guerra mossa dal socialismo contro la società moderna". Lo sciopero generale raggruppava tutti questi sentimenti in "un quadro d'insieme e, raggruppandoli, [portava] ciascuno di essi al suo massimo d'intensità [...] In tal modo [ottenendo] quest'intuizione del socialismo che il linguaggio non poteva restituirci con chiarezza e perfezione - e [ottenendola] in un insieme percepito all'istante". ("Lo sciopero proletario", 1905).
Il discorso di Sorel stava nel contesto di una weltanschauung tradizionalmente eroica, sacrificale e moralistica, dalla quale staremo ben lontani. Ovviamente i proletari tenevano gli "effetti conseguiti" (cioè la lotta per mangiare, per la casa, per la salute e la dignità qui e ora, non solo dopo la rivoluzione) in maggior conto di quanto facesse Sorel.
Eppure è vero che non si prosegue la lotta contro lo stato di cose presente se non si è ispirati da una qualche narrazione.
Negli scorsi decenni i rivoluzionari si sono lasciati sballottare qui e là, da un'alienante "iconofilia" e subalternità ai miti (vedi il culto cristologico di Che Guevara) a un'attitudine iconoclastica che impedisce di comprendere la natura del conflitto. Basti pensare alle superficiali posizioni "post-situazioniste" care a molti anarchici, secondo i quali qualunque avanzamento concreto sul piano della democrazia o qualunque penetrazione nella cultura popolare avrebbe per conseguenza il proprio "recupero" e finirebbe per rafforzare il cosiddetto "spettacolo".
Come recita un'espressione idiomatica italiana, evitiamo di gettare via il bambino con l'acqua sporca.
In un'intervista concessa ad alcuni redattori dei Cahiers du Cinema nel 1974, Michel Foucault tracciò una netta distinzione tra bambino e acqua sporca:
"Dietro la frase 'non ci sono eroi' si nasconde un diverso significato, il suo vero messaggio 'non c'è stata lotta' [...] Si può fare un film su una lotta senza passare attraverso la tradizionale creazione di eroi? E' un vecchio problema che si presenta in una nuova veste."
In Italia, sin dai primi anni Novanta, un gran numero di compagne e compagni ha rivolto la propria attenzione su un'ancor più nuova veste del vecchio problema, dedicandosi a un'esplorazione pratica delle mitologie, per capire se fosse o meno possibile una loro decostruzione libertaria e non-alienante, una manipolazione e un riutilizzo dei miti.
Le fonti d'ispirazione erano antiche leggende sulle gesta di eroi popolari, il linguaggio utilizzato dall'EZLN, il cinema di genere e in genere tutta la cultura pop occidentale, oltre alle molteplici esperienze di beffe mediatiche e comunicazione-guerriglia a partire dagli anni Venti.
Il sottoscritto era completamente immerso in tali esperimenti, dato che era tra i membri fondatori del cosiddetto Luther Blissett Project, forse l'impresa di "tecnici culturali" piu' disciplinata e devota a tale missione.
Luther Blissett era ed è uno pseudonimo-multiuso adottato da chiunque volesse contribuire alla reputazione sovversiva di un personaggio immaginario alla Robin Hood, il presunto leader (virtuale) di una comunità aperta che prosperava su beffe mediatiche, mitopoiesi, scritti sovversivi, performances radicali e sabotaggio culturale. Il LBP mosse i suoi primi passi nel 1994 e coinvolse svariate centinaia di persone in diversi paesi, anche se l'Italia ne rimaneva l'epicentro.
Alla fine del 1995 il LBP pubblicò un pamphlet intitolato Mind Invaders, il cui primo capitolo era una dichiarazione di poetica per quel che riguardava la mitopoiesi. Quest'ultima era legata alla vita, ai desideri e alle aspettative di una comunità "aperta" e dai confini indefiniti. In quel capitolo, in un certo senso, si preconizzava l'ascesa del nuovo movimento globale.
Non intendo raccontare nei dettagli la storia del Luther Blissett Project, non sono né diventerò mai un blissettologo. Una grande quantità di materiale utile e interessante è reperibile in rete, soprattutto al sito <www.lutherblissett.net>. In questa sede mi limito a far notare che alcune scoperte teorico-pratiche di "Luther Blissett" sono state utilizzate - forse istintivamente all'inizio, poi facendo espliciti riferimenti - dalle "tute bianche". Ciò non dovrebbe sorprendere, dal momento che entrambi i fenomeni erano ispirati dallo zapatismo, e che in seguito si sono ispirati a vicenda.
In particolare due "comandamenti" furono tramandati:
1) Non ti curare delle antinomie (visibilità-invisibilità, legalità-illegalità, violenza-nonviolenza, statico-dinamico);
2) Dividi ciò che è unito e unisci ciò che è diviso, per creare strane sensazioni di prossimità e distanza.
Su una famosa maglietta, lo slogan "Peace & Love" era associato all'immagine di un violento scontro tra manifestanti e forze dell'ordine.
Sovente le "tute bianche" scatenavano una sorta di sommossa nonviolenta, che aveva luogo in un'intersezione dello spazio pubblico che non apparteneva né al "legale" né all'"illegale". I compagni avanzavano verso lo schieramento di polizia, mani aperte e alzate, sapendo che sarebbero stati manganellati eppure cantando sull'aria di "Guantanamera":"Stiamo arrivando / Bastardi, stiamo arrivando!".
So che fuori dall'Italia riesce difficile capire il background e le tattiche delle "tute bianche". Ciò è dovuto al fatto che vedete una catena a cui mancano tre anelli.
Il primo anello è l'evoluzione del movimento della cosiddetta "autonomia", a dispetto della repressione dei tardi anni Settanta e delle difficoltà degli Ottanta e Novanta. Probabilmente Toni Negri è il teorico più noto, ma non è certo l'unico. Di recente si è parlato molto di Impero, l'ultimo saggio scritto da Negri insieme a Michael Hardt, che è diventato una sorta di libro sacro. Impero è un compendio teorico e una riscrittura divulgativa di concetti che hanno modificato il nostro DNA politico sin dagli anni Ottanta.
Il secondo anello è la collaborazione diretta con gli zapatisti del Chiapas, e l'influenza sul movimento italiano delle loro strategie e del loro linguaggio, anche grazie alla rete di associazioni Ya Basta!. E' impossibile fare in questa sede un completo resoconto di tutte quelle innovazioni, ciò che importa sapere è che gli zapatisti ci hanno fornito materiale mitologico che non aveva niente a che vedere col tradizionale terzomondismo feticistico, o col turismo rivoluzionario.Marcos non era un leader eroico ma soltanto un portavoce e un "subcomandante", il che dice molto sull'approccio ai miti: nell'ambito di una certa cultura popolare messicana, Emiliano Zapata è ancora vivo e cavalca da qualche parte, nei boschi o sulle montagne. Alcuni indios lo considerano addirittura parte della mitologia maya, una sorta di semidio pagano. Gli zapatisti contemporanei sono stati in grado di comunicare all'intera società da un'intersezione tra folklore e cultura pop. In un certo senso, il vero Comandante è ancora Zapata. Un modo per dire: "Che importa di me? Non sono il vostro eroe mascherato, la nostra rivoluzione è impersonale, è nuova ma è la stessa di sempre, Zapata cavalca ancora". E' quello il vero significato dei passamontagna: la rivoluzione non ha volto, chiunque può essere uno zapatista, tutti siamo Marcos.
Ed eccoci al terzo anello, vale a dire il lavoro sulla mitopoiesi a cui ho accennato qualche minuto fa.
Le "tute bianche" non erano né una "avanguardia" del movimento né una "corrente" o una "frangia" di esso. La tuta bianca nacque come riferimento ironico agli spettri del conflitto urbano, poi divenne uno strumento, un simbolo e un'identità aperta a disposizione del movimento. Chiunque poteva indossare una tuta bianca finché rispettava un certo stile. Una frase tipica era: "Indossiamo la tuta bianca perché altri la indossino. Indossiamo la tuta bianca per potercela un giorno togliere", il che significa: "Non dovete arruolarvi in nessun esercito, la tuta bianca non è la nostra 'divisa', il dito indica la luna, e quando le moltitudini guarderanno la luna il dito svanirà. Il nostro discorso è concreto, facciamo proposte pratiche: più persone le accetteranno e metteranno in pratica, meno importanti diventeremo noi".
Fortunatamente, decidemmo di smetterla e di toglierci la tuta bianca poco prima di Genova, dal momento che era diventata un tratto identitario, e noi volevamo perderci nelle moltitudini. Se fossimo stati riconoscibili come "tute bianche" durante la caccia all'uomo di venerdì 20 luglio, oggi avremmo ancor più lutti da elaborare. Se la tuta bianca fosse davvero stata una divisa, altri sarebbero morti insieme a Carlo Giuliani.
Nell'autunno del 1994 il sindaco di Milano Formentini, appartenente al partito razzista Lega Nord, si rallegrò dello sgombero del centro sociale Leoncavallo e dichiarò che, da quel momento, solo spettri si sarebbero aggirati per la città. La sua metafora fu apprezzata e messa in scena nel corso di una grande manifestazione, quando innumerevoli "spettri" in tuta bianca attaccarono le forze dell'ordine e diedero vita a scontri nel centro di Milano. Ce n'etait qu'un début.
In seguito, le tute bianche divennero il servizio d'ordine del nuovo Leoncavallo, ma cominciarono ad accadere strane cose: alcuni opposero retoricamente la tuta bianca alla tuta blu della classe operaia tradizionale, tanto che la prima divenne un simbolo del nuovo lavoro postfordista - "flessibile", precario, temporaneo -, quel lavoro a cui era impedito di godere dei propri diritti sociali e sindacali.
Di conseguenza, nel biennio 1997-98 alcuni compagni iniziarono a indossare la tuta bianca per occupare o presidiare agenzie di lavoro interinale. Accadde a Roma, Milano, Bologna e nel Nord-Est.
Poi scoppiò la guerra in Kosovo. Se non ero, la "azione diretta con protezioni" fu inventata quando i centri sociali del Nord-Est decisero di "invadere" la base NATO di Aviano. Quanti di voi fossero ancora ignari di cosa sto parlando, sappiano che si trattava di indossare corpetti imbottiti, parastinchi, caschi, maschere antigas e scudi di plastica, e di avanzare dietro barricate mobili fatte di camere d'aria gonfiate rivestite di plexyglass o gommapiuma.
Nei mesi seguenti, la tattica della "testuggine", una delle più utilizzate dalla polizia antisommossa, venne ritorta e utilizzata contro quest'ultima.Grazie a tali innovazioni, il numero di feriti ai cortei calò percettibilmente. Venne inoltre resa molto difficile la caccia all'uomo, dato che la "testuggine" incoraggiava i manifestanti ad avanzare e prendere le botte tutti insieme. All'inverso, a molti parve che fosse cresciuto il numero di poliziotti contusi, dato che le forze dell'ordine non erano preparate a fronteggiare una tattica del genere. A volte capitò che la testuggine si aprisse e lasciasse che alcuni celerini, nell'impeto, ne penetrassero le file, rimanendovi intrappolati, per la gioia di chi avesse voglia di prenderli a calci.
Tutto ciò avveniva di fronte a innumerevoli videocamere e macchine fotografiche, alla presenza di cronisti e troupes televisive. Gli smacchi della polizia erano trasmessi e amplificati. Spesso i giornalisti erano costretti a far notare che i manifestanti si erano limitati a camminare verso l'obiettivo, che non avevano tirato sassi o molotov, che nessuna vetrina era stata infranta etc. Tutto ciò attirava le simpatie di molte persone alla ricerca di un modo per contestare, ma che non avrebbero mai preso parte a scontri tradizionalmente intesi.
Il fatto che molte persone mettessero a repentaglio i propri corpi, senza nulla concedere all'ideologia del martirio, riportò alla mente di certi osservatori le analisi di Foucault (e Deleuze) sulla "biopolitica" e il "biopotere". Alcuni parlarono con entusiasmo di un "ritorno dei corpi", di corpi usati per sfidare l'ordine del discorso imposto su di essi, per sfuggire al controllo. Potrebbe trattarsi di un'esagerazione, e in ogni caso è un po' fuori tema.
Dopo alcuni mesi, i più intelligenti funzionari di polizia capirono che l'unico modo di affrontare tale tattica era con una strategia di "contenimento", che poteva includere il compromesso e la trattativa coi manifestanti minuto per minuto. Iniziammo a vedere pubblici ufficiali aprire e sventolare mappe delle città e propinarci una strana miscela di linguaggio di strada, ragionamenti machiavellici e ci-siamo-capiti:
"Bene, ragazzi, noi non possiamo permettervi di arrivare qui, ok?, dobbiamo per forza caricarvi perché è il nostro lavoro, però, capiamoci, possiamo arretrare di cento metri, così vi facciamo arrivare... qui, proprio a questo incrocio, vi può andare bene? Ma se fate un solo passo in più a noi tocca caricarvi. Però lasciateli indietro quei cazzo di gommoni, non ce n'è bisogno, perché voi siete tranquilli, noi siamo tranquilli... E' tutto a posto, ci siamo capiti? E dite ai giornalisti di non mettersi in mezzo, loro che c'entrano? Ce la vediamo noi e voi, va bene? Voi siete tranquilli, noi siamo tranquilli, e allora che problema c'è?"
Inutile dire che le tute bianche facevano sempre quel passo in più, che i celerini non erano mai molto tranquilli e che i giornalisti si mettevano in mezzo regolarmente. A trarre vantaggio da tutto questo erano unicamente le tute bianche, che potevano perfezionare la strategia, al contempo ottenendo risultati concreti. Il nuovo approccio "negoziale" degli sbirri veniva sfruttato con grande consapevolezza mediatica, e le tute bianche finivano per trovarsi dove i media e le autorità non si aspettavano di vederle. Ciò che è più importante, le tute bianche mettevano in scena una narrazione zapatisteggiante sulla disobbedienza civile e le moltitudini che "soffiavano contro l'Impero". Non erano in alcun modo regolamenti di conti tra compagni e polizia, ma messaggi alla società civile.
Solitamente le tute bianche annunciavano pubblicamente il loro scopo e quali tattiche avrebbero impiegato, per "ricattare" le autorità. Dicevano: "Non c'è nessun segreto, faremo la tal cosa, poi faremo la tal altra, è questa la cornice. Non ci assumiamo la responsabilità di quanto dovesse accadere al di fuori di tale cornice. E' compito della polizia mantenere la calma. Sapete quali tattiche impiegheremo ed è vostro dovere affrontarci senza andare fuori di testa!".
Eppure le tattiche erano sempre impiegate in modo imprevedibile, il che sorprendeva la controparte, c'era chi effettivamente andava fuori di testa, ma a quel punto non poteva fare troppi danni. Nel corso del 2000, questo schema portò a risultati concreti.
Quello che sto per leggere è lo stralcio di un documento scritto prima di Genova da alcuni compagni, e messo in circolazione via rete. Gli autori intendevano chiarire alcuni punti e ribattere a certe calunnie e distorsioni messe in giro da sedicenti rivoluzionari:
"Conseguimmo un risultato concreto a Milano in via Corelli, nel gennaio 2000, quando ci scontrammo con la polizia e riuscimmo a entrare in una zona vietata anche ai giornalisti, cioè il centro di detenzione amministrativa per migranti 'clandestini', un vero e proprio campo di concentramento. Vincemmo la resistenza della polizia, la stampa potè accedere al posto e descrivere la scena. In seguito l'attività del centro fu sospesa.
Conseguimmo un risultato concreto dopo le manifestazioni Mobilitebio di Genova, dal 24 al 26 maggio 2000. Ci scontrammo con la polizia in un modo inedito, così i media non poterono criminalizzarci. In seguito, il governo italiano decise una moratoria sugli OGM.
Durante la manifestazione anti-OCSE di Bologna (14 giugno 2000) fummo caricati dalla polizia, quattro di noi furono strappati a forza dalla testuggine ed ebbero il cranio sfondato. Fu uno scontro duro, lo dimostrano le riprese di quel giorno: tute bianche raggomitolate a terra con branchi di sbirri che li prendono a calci e manganellate. I calunniatori dicono che era tutta una finta, che c'era un accordo con la polizia. Stronzate, e mancanza di rispetto per i compagni feriti. Comunque, i telegiornali fecero vedere che ci eravamo soltanto protetti con gli scudi, che la violenza l'aveva esercitata soltanto la polizia.
Nelle settimane precedenti il G8 sull'ambiente di Trieste (aprile 2001), la città fu invasa da migliaia di poliziotti. La stampa locale rovesciò la realtà, preparando gli abitanti a una calata di barbari pronti a mettere Trieste a ferro e fuoco. Il corteo fu protetto da scudi e pronto all'auto-difesa, ma anche pacifico, ironico, multiculturale. I telegiornali furono costretti ad ammettere che non era successo nulla di terribile, e la cittadinanza se la prese con le autorità locali per i disagi causati dalla militarizzazione.
Negli ultimi due mesi di preparativi per il G8 di Genova, le tute bianche si sono dimostrate in grado di scansare gli stereotipi, costringendo i media a interpretazioni schizoidi. I pennivendoli non sono stati in grado di etichettarci né come "buoni" né come "cattivi".
D'altro canto, è senz'altro vero che le tute bianche sono "sovra-esposte" nei media, che i loro portavoce vengono citati o menzionati anche quando non ve n'è bisogno, tuttavia [...] il problema della sovra-esposizione può essere risolto con continui cambiamenti di rotta.
Dicono che sei violento? Tu scompagini la discussione su violenza e nonviolenza proponendo tattiche che sfuggono all'incasellamento.
Dicono che sei solo una piccola minoranza, una "frangia"? Tu infiltri la cultura pop, costruisci il consenso, mandi in tilt le rappresentazioni abitudinarie.
Cambiano strategia e ti definiscono "ragionevole", per poter "mostrificare" il Black Bloc? Sposti il peso e ti sbilanci a dissipare gli stereotipi su quest'ultimo.
Tentanto di descriverti come rappresentativo dell'intero movimento, poi cercano di inchiodarti a una "trattativa" col governo? Dici che non c'è niente da trattare, che il governo può solo annullare il vertice (questa è la posizione che abbiamo tenuto sinora)."A dispetto dei nostri sbagli, credo ancora che il modo in cui le tute bianche si sono organizzate e imposte alla pubblica attenzione - evitando molte trappole e imboscate mediatiche - abbia non solo contenuto l'entità della tragedia genovese, ma abbia anche contribuito a creare consenso intorno alle prassi del movimento, facendo sì che quasi trecentomila persone accorressero a Genova per salvarci il culo sabato 21 luglio. Ciò non toglie che abbiamo commesso errori, di certo non ci aspettavamo un tanto brusco innalzamento del livello dello scontro, come non avevamo tenuto in sufficiente considerazione la rivalità tra polizia e carabinieri etc. [...]
Di una cosa sono sicuro: anche in questo scenario radicalmente trasformato dalle discontinuità, dovremmo mantenere netta la distinzione tra i bambini e le acque sporche, e fare tesoro delle nostre esperienze passate.