NUOVE EPICHE ITALIANE (E NON SOLO) - Pag. 1 01. Giovanni Maria Bellu, L'uomo che volle essere Perón [WM1] 02. Valerio Evangelisti - Antonio Moresco, Controinsurrezioni [WM1] 03. Luigi Guarnieri, I sentieri del cielo [WM1] 04. Giovanni De Rose, Negli occhi di chi guarda [WM4] 05. Carlo Lucarelli, L'ottava vibrazione [WM1] 06. Enrico Brizzi, L'inattesa piega degli eventi [WM2] 07. Luigi Balocchi, Il diavolo custode [WM1] 08. Massimo Carlotto, Cristiani di Allah [WM1] 09. Anilda Ibrahimi, Rosso come una sposa [WM5] 10. Duka & Marco Philopat, Roma K.O. [WM5] 11. Giuseppe Genna, Hitler [WM1] 12. Letizia Muratori, La casa madre [WM5] 13. Vanni Santoni, Gli interessi in comune [WM2] 14. Monica Viola, Tana per la bambina con i capelli a ombrellone [WM1] 15. Matteo De Simone, Tasca di pietra [WM2] TRADOTTI DA ALTRE LINGUE - Pag. 2 16. Stef Penney, La tenerezza dei lupi [WM4] 17. Sebastian Barry, A Long, Long Way [WM4] 18. Stephen King , Duma Key [WM1] 19. Richard Mason, Le stanze illuminate [WM4] 20. Horace McCoy, Non si uccidono così anche i cavalli? [WM1] 21. Eileen Favorite, Il bosco delle storie perdute [WM4] Questa non è né potrà mai essere una panoramica esaustiva su quanto di interessante si è pubblicato in Italia negli ultimi mesi. Leggiamo per diletto quando abbiamo il tempo e la forza di farlo, e il criterio con cui scegliamo che libro leggere è un non-criterio, dipende dai tiramenti di culo del momento. Non segnaliamo mai un titolo solo perché si deve o perché "tutti ne parlano". D'altro canto, il fatto che non ne parliamo non significa che non valga la pena leggerlo. Semplicemente, noi non l'abbiamo (ancora?) letto. Su Nandropausa, salvo alcune eccezioni (sassolini tolti dalle scarpe o perplessità da comunicare), segnaliamo libri che ci sono piaciuti davvero. A volte segnaliamo libri su cui abbiamo poche o molte riserve (e le esplicitiamo), ma che riteniamo comunque letture importanti. Non abbiamo debiti da pagare né dobbiamo "tener buono" alcuno. Se tra gli autori recensiti figurano nostri amici, è perché abbiamo apprezzato i loro libri. Se il libro non ci è piaciuto o non lo abbiamo letto con la dovuta attenzione, niente segnalazione, nemmeno se l'autore è nostro gemello siamese. Ricorda che c'è un modo di leggere Nandropausa che non si attacca al lavoro del tuo oculista, e quel modo è su carta (meglio se riciclata). Stampa questa pagina con fiducia, per cliccare sui link c'è sempre tempo. |
Eracle/Ercole indossa la pelle del leone di Nemea. La belva, figlia di Tifone ed Echidna, era invulnerabile. La sua pelle non poteva essere perforata da alcuna arma. Da tempo terrorizzava e uccideva la popolazione dell'Argolide, sbranava pecore e mucche, riempiva l'aria coi suoi ruggiti. Affrontarlo fu la prima delle dodici fatiche di Eracle. Nella lotta l'eroe perse un dito, ma alla fine riuscì a strangolare la belva, e da quel momento ne indossò la pelle come armatura. L'immagine ricalca quella realizzata da Giorgio Ferrero per Astronavi sulla preistoria di Peter Kolosimo (Sugar, Milano 1972), a sua volta ispirata a un reperto trovato a Vulci, presso Tarquinia. Eracle in pelle di leone è stato adottato come simbolo del dibattito sul New Italian Epic. |
Per usare una frase a effetto si potrebbe dire che con il suo romanzo d'esordio La tenerezza dei lupi Stef Penney ha inventato un nuovo genere: il "Northern". Vale a dire la variante canadese del western, che sostituisce il deserto dell'Arizona con le distese nevose dell'Ontario. Sponde settentrionali del Lago Huron, anno 1867. In un piccolo villaggio di coloni scozzesi si consuma un efferato omicidio. Nessun indizio, eccetto una scia di impronte sulla neve che si perde verso nord. Per risolvere il mistero bisognerà seguirle fino all'ultimo avamposto nelle gelide terre settentrionali, e sarà più d'uno a tentare l'impresa. Come nella migliore tradizione, ci sono un colpevole apparente e molti colpevoli possibili. La tenerezza dei lupi è un giallo della stanza chiusa in uno spazio sconfinato. Un thriller in cui risolvendo il caso se ne risolvono altri - rimasti sepolti sotto gli strati del tempo per decenni o addirittura secoli - ma senza l'ansia o la pretesa di risolverli tutti. Difficile non innamorarsi della memorabile protagonista femminile, che riecheggia le eroine classiche della letteratura, ma con una coscienza tutta moderna. E mentre la si accompagna all'inseguimento dell'assassino ci si accorge che il romanzo del "Far North" compone il mosaico dell'altra frontiera americana. Cacciatori meticci, agenti commerciali, coloni che ancora puzzano di sentina, avventurieri bianchi che sembrano indiani e indiani che sembrano bianchi. Penney è davvero grande nel tratteggiare i personaggi uno a uno, connotandoli indelebilmente. Tutti inseguono qualcosa, gelosi delle proprie aspirazioni, tutti sono "in caccia" e proiettano la loro ombra sul fondale della macrostoria. Il processo di autonomia del Canada dalla madrepatria inglese è appena agli albori, l'economia dell'entroterra si regge in gran parte sul commercio delle pellicce pregiate, acquistate in condizione di monopolio dalla Compagnia della Baia di Hudson. Sulla piazza di Londra il frutto delle fatiche dei trapper e dei voyager viene venduto a peso d'oro, per finire sulle spalle delle gentildonne che vanno a teatro. Beni di lusso che hanno per matrice la caccia più brutale. Ma gli animali si sono fatti furbi, si spostano a ovest, e gli uomini della Compagnia devono avanzare, spingere oltre i loro avamposti, come cacciatori nomadi che seguono le mandrie. Intanto, a sud del confine, la Guerra Civile si è conclusa e sta prendendo coraggio una potenza economica che predilige i principi della libera concorrenza. Il monopolio britannico ha già sfidato una volta lo spirito d'intrapresa dei coloni americani, perdendo tutto. La storia rischia di ripetersi sotto forma di guerra commerciale. In gioco c'è un giro d'affari che dissolve gli scrupoli e scalda gli animi, offrendo il gancio alla battuta fulminante di uno dei personaggi, rivelatrice della coscienza canadese di oggi: "Cristo, ci stiamo riducendo come i nostri vicini. Finiremo anche noi come gli Stati Uniti, guerre e rivoluzioni ogni cinque minuti". La tenerezza dei lupi è un romanzo che non sembra affatto un esordio narrativo, ma l'opera matura di un'autrice esperta. Non meraviglia che i critici abbiano fatto un salto sulla sedia. Un exploit talmente riuscito che è valso a Stef Penney, classe 1969, uno dei più prestigiosi premi letterari britannici, il Costa Award, e un assegno di 25.000 sterline. Nata a Edimburgo, londinese d'adozione, l'unica cosa che Stef Penney condivide con i canadesi è la sudditanza a Sua Maestà Elisabetta II. Una scozzese che scrive un romanzo ambientato a nord dei Grandi Laghi nel XIX° secolo. E non è tutto. La cosa che nessuno - proprio nessuno - ha potuto fare a meno di notare è che l'autrice non ha mai messo piede in Canada. Per molti anni è stata afflitta da una grave forma di agorafobia che le ha impedito di allontanarsi da casa. Wikipedia definisce l'agorafobia "una sensazione di grave disagio che l'individuo prova allorché si ritrova in ambienti non familiari e teme di non riuscire a controllare la situazione, specie ove vi sia difficoltà a trovare una fuga immediata verso un luogo sicuro (di solito la propria abitazione)." E' impossibile non accorgersi che questa è precisamente la condizione psicologica dominante nel romanzo, l'atmosfera che incombe su tutti i personaggi, spinti ad abbandonare la sicurezza uterina delle proprie abitazioni per attraversare distese solitarie, vuote e inospitali. C'è un continuo gioco di contrasti tra interno ed esterno, fuoco e ghiaccio, dialogo e silenzio, claustrofobia e agorafobia. Uno psicologo da strapazzo ci potrebbe dire che l'autrice ha proiettato la propria affezione sull'habitat canadese. Uno scrittore si limita a riconoscere la maestria quando la vede, la capacità di trasferire parte di sé nella letteratura, dandole carne e sangue. La domanda che si sono fatti in molti non è inedita per chiunque scriva romanzi ambientati fuori dai confini di casa propria: - Come avrà fatto? Come si può raccontare in maniera verosimile un territorio, un paese, del tutto estraneo? La risposta di Miss Penney sarebbe semplice: si prende la metropolitana fino alla stazione di St.Pancras e si esce su Euston Road. Poche decine di metri sulla destra c'è l'ingresso della British Library. E' lì dentro che si è chiusa per scovare le storie che le sono servite a scrivere il romanzo. Documentazione, ricerca delle fonti. Ne sapeva qualcosa un signore dai baffi a manubrio che rispondeva al nome di Emilio Salgari e che in tutta la sua vita solcò a malapena le acque dell'Adriatico, senza che questo gli impedisse di scrivere romanzi ambientati nei luoghi più esotici del pianeta. Oggi abbiamo l'innegabile vantaggio di poter contare su supporti ed archivi elettronici, e soprattutto su Internet, miniera inesauribile di immagini, notizie e documenti. In certi casi non è nemmeno necessario raggiungere la biblioteca, con grande sollievo dei pigri e degli agorafobici più gravi. Il romanzo della globalizzazione può essere scritto da ogni punto del pianeta e può sfruttare la consapevolezza che ogni storia ci riguarda, che l'estraneità data per scontata è in realtà soltanto apparente. La storia americana è storia europea, fatta da gente che emigrò oltreoceano proveniendo da ogni angolo del Vecchio Mondo. I personaggi del romanzo di Stef Penney sono scozzesi, francesi, irlandesi (e ovviamente nativi). Di lì a pochi decenni sarebbero arrivati tutti gli altri, inclusi gli italiani. Gli americani siamo noi visti in uno specchio deformante, che esaspera i nostri tratti, o forse li rende più essenziali. Non deve meravigliare che l'autrice di questa storia viva sulla sponda orientale dell'Atlantico, perché solo la distanza concede il distacco necessario per raccontare all'America la nostra storia condivisa. Ci consente di guardare le cose con disinvoltura, senza ipocrisia e sensi di colpa, senza il "peso" di essere americani, anche se, appunto, non possiamo non sentirci almeno in parte tali. Ad esempio c'è una cosa che salta agli occhi in questo romanzo e che tradisce la sua matrice europea (forse quella del Canada stesso). E' l'assenza di Dio. Il Dio del Vecchio Testamento che accompagnò i coloni del sud nella conquista del continente. I canadesi che popolano le pagine della Penney sono ancora fortemente legati alla vecchia Europa, scevri dalla retorica di una Terra Promessa, fosse anche solo per la desolazione che li avvolge per metà dell'anno. Il rapporto con il Grande Nulla nevoso, la solitudine dell'uomo davanti alla natura, non rimanda a nessuna trascendenza. Non ci sono Padri Pellegrini o Padri Fondatori che hanno bisogno di Dio per giustificare la propria missione storica. C'è piuttosto la fede nel calore umano strappato al gelo circostante, c'è l'amore, tutto terreno, corporeo, tiepido contatto di membra o passione bruciante - Amore di vita, si intitolava una vecchia raccolta di racconti di Jack London, ambientati negli stessi paesaggi. C'è l'inesorabilità del cammino, incessante, attraverso un continente che potrebbe racchiuderli tutti, migliaia di miglia, milioni di storie portate negli zaini lungo piste inesplorate. "[...] ci disperdemmo dagli approdi di Halifax e di Montréal come i tributari di un fiume, scomparendo a uno a uno nelle regioni ancora incolte. La terra ci inghiottì, ed era ancora affamata. Facevamo largo alla terra in mezzo alle foreste, e davamo ai nostri posti nomi che nascevano dalle cose che vedevamo - uccelli, animali - oppure dal ricordo delle nostre vecchie città natali; memorie sentimentali di luoghi che non nutrivano alcun sentimento per noi. Ciò dimostra che non ti puoi lasciare niente alle spalle. Porti tutto con te, che tu lo voglia o meno." E' l'Estremo Occidente, l'Europa nella terra dei lupi. I lupi che danno il titolo al romanzo e che da sempre simboleggiano la selvatichezza, la minaccia della natura, spada di Damocle su chi si avventura nell'entroterra. Predatori per antonomasia, che nel corso del racconto vengono continuamente evocati, ma restano ombre al margine del campo visivo, fantasmi appena intravisti in mezzo agli alberi, e finiscono per essere tenere presenze, innocui demoni che accompagnano i viandanti. Perché il vero predatore è piuttosto un altro, cammina su due zampe e sa essere molto più spietato di qualsiasi belva a cui dia la caccia. Soltanto quando riesce a liberarsi da questa avidità omicida, può finalmente apprezzare l'importanza del percorso, lo spazio vivo che attraversa; che non è pura distanza o appunto Grande Nulla, ma possibilità di un cammino condiviso. In cerca della felicità possibile. [WM4] [Apparso su "L'Unità" del 23 aprile 2008] |
Prima di parlare di A Long Long Way, il bel romanzo di Sebastian Barry, viene spontanea una premessa. Non sono molte le opere narrative recenti che affrontano la Prima Guerra Mondiale. Forse perché nel nostro immaginario quel conflitto è schiacciato da quello successivo. La Seconda Guerra Mondiale ci sembra quella "vera", con i bombardamenti sulle città, le portaerei, i grandi sbarchi, e conclusa dal gesto più criminale compiuto dall'uomo dopo la Shoah: il lancio di bombe atomiche su due città indifese. Si tratta però di un difetto di prospettiva, che ci porta a esaltare l'importanza del conflitto più recente a discapito di quello che l'ha preceduto. Gli studi storici degli ultimi decenni hanno dimostrato che la Prima Guerra Mondiale non è stata affatto un conflitto meno cruento o più circoscritto della Seconda. Sui vari fronti combatterono uomini che provenivano dai cinque continenti, e se le città vennero risparmiate dalle bombe, la piressia portata a casa dalle trincee causò tra i civili un numero di morti incalcolabile, che probabilmente raddoppiò i decessi causati dalle armi. Inoltre stiamo pur sempre parlando dell'evento che ha plasmato il Secolo Breve, quello che Hosbawm fa iniziare proprio nel 1914. A long long way è un romanzo che richiama volutamente le grandi autobiografie narrative di chi combatté nel primo conflitto mondiale. Vengono in mente titoli come Addio a tutto questo di Robert Graves, Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque e Addio alle armi di Ernest Hemingway. Barry però è irlandese, e mentre ci racconta le avventure del soldato Willie Dunne, sbattuto in prima linea direttamente dai vicoli di Dublino, coglie l'occasione per parlarci anche della nascita dell'Irlanda libera. Mentre combatte nelle pianure del Belgio, Willie Dunne si trova tagliato fuori dalla lotta d'indipendenza irlandese, che scoppia negli stessi anni e stravolge il suo Paese, fino a renderlo irriconoscibile, fino a rendere impossibile un ritorno a casa, laddove "casa" non esiste più. E' una riflessione sottile sull'alienazione umana, su come la guerra possa trascinare gli uomini fuori dal corso degli eventi, proprio mentre chiede loro di morire in nome di inoppugnabili ragioni storiche. La vita al fronte li trasforma in disadattati, impiegati in un compito sempre più unidimensionale, senza passato né futuro. Barry riesce a farci affezionare al soldato Dunne, alla sua ingenuità, alla sua voglia di capire cosa sta diventando l'Irlanda, mentre la lotta di liberazione nazionale cancella il senso di quello che sta facendo in trincea, le ragioni per cui dovrebbe combattere: la patria, la libertà. Ma quale patria? La libertà di chi? Domande alle quali Willie non troverà risposte, sempre più frastornato e separato dalla storia d'Irlanda, orfano di un mondo sgretolato dalla guerra, circondato dalla morte di amici e compagni, impegnato nell'unico compito di rimanere vivo. Ma ancora: vivo per cosa, per chi, se nessuno è più in grado di capirlo? Gli unici che potrebbero riuscirci sono forse gli stessi contro cui combatte, condannati come lui al limbo delle trincee e alla reiterazione della morte inflitta e subita ("C'erano lupi là davanti? O c'erano soltanto pecore contro pecore?"). Alla fine non resta che l'ultima impresa, quella per cui serve più coraggio: conservare un barlume di umanità in un'esistenza ridotta al lumicino. Sforzarsi ancora di apprezzare un tramonto, un canto sul far del giorno, il tepore "leopardiano" della condivisione di una sventura comune. Perfino perdonare un amico che tradisce. E anche se - per dirla con De André - il nemico non ti ricambia la cortesia, perché la macchina bellica è più forte del singolo, è proprio quella piccola luce a rendere possibile la speranza in tempi di guerra eterna. [WM4] [Apparso su "L'Unità" del 2 marzo 2008] |
Più di due anni fa, recensendo Colorado Kid di Stephen King (L'Unità, 16/12/2005), scrissi: "Se di una storia tolgo il capo e lascio solo la coda, o lascio il capo ma tolgo la coda, eppure la storia continua a comportarsi come se avesse un capo e una coda, come quando dopo un'amputazione si prova prurito a un arto fantasma... cosa cambia nel rapporto di fiducia tra chi racconta e chi ascolta? Come reagisce il lettore quando il libro allunga la mano per grattarsi e si vede che la gamba non c'è più... eppure la storia sta in piedi?" Come potevo immaginare che proprio il prurito a un arto fantasma sarebbe stato al centro di un futuro romanzo del Re? Duma Key, pubblicato negli USA da Scribner e in corso di traduzione in Italia, è la storia di Edgar, imprenditore edilizio che dopo un gravissimo incidente si ritrova claudicante, con un'anca ricostruita e il braccio destro amputato. Non solo: ha riportato lesioni cerebrali, il suo rapporto con memoria e linguaggio è cambiato per sempre ed è soggetto a imprevedibili scatti di collera, istanti in cui - letteralmente - "vede rosso". La sua condizione mette a rischio l'incolumità di chi gli è vicino, a partire da sua moglie, che infatti chiede il divorzio. Su consiglio del suo psichiatra, Edgar torna a coltivare la passione del disegno abbandonata da ragazzo. Per dedicarvisi in santa pace, adotta la strategia del buen retiro: lascia il Minnesota e affitta una casa rosa salmone (la ribattezza "Big Pink") su Duma, isolotto quasi disabitato delle Keys, arcipelago della Florida. Quasi disabitato, perché in un'altra villa lungo la spiaggia vivono la padrona di casa (e praticamente di tutta l'isola), l'ultra-ottuagenaria Elizabeth detta "Libby", e il suo domestico/badante Wireman. Wireman è un ex-avvocato, ha perso moglie e figlia in due distinti incidenti - rievocati in un capitolo straziante - e invano ha tentato di uccidersi sparandosi alla tempia. Il lungo, elaborato "rituale di avvicinamento" tra i due ultracinquantenni è la parte più bella del libro, come sempre sono belle le storie di amicizie costruite con fatica, un passo dopo l'altro sul terreno comune del trauma, alla timida ricerca di un nuovo inizio. La vecchia Libby, dal canto suo, fa i conti con l'Alzheimer e i lasciti di un'infanzia oscura, remota eppure incombente, passato lontano che è futuro prossimo. Libby è custode di un segreto di morte riguardante Duma, la sua spiaggia e la giungla tropicale che ricopre buona parte dell'atollo, un rimosso maligno che torna evocato dall'arte, per colpa dell'arte: quando Edgar sente un intenso prurito al braccio fantasma, l'unico modo per farlo passare è dipingere, furiosamente, fino a raggiungere uno stato di trance. Nei quadri e nei disegni appaiono oggetti incongrui, animali "sbagliati", sagome di sconosciuti, il tutto accostato come in un rebus. Con distesa lentezza, dettaglio dopo dettaglio, scivoliamo nel genere horror e l'arcano da svelare concerne un personaggio mitologico: Persefone, moglie di Ade, sovrana dell'Oltretomba. Come ha scritto Beppe Sebaste - non a caso grande ammiratore di King - nel suo romanzo H.P. L'ultimo autista di Lady Diana (Quiritta 2005, Einaudi 2007), il piacere che si prova leggendo un libro così "non coincide con i momenti culminanti, con le peripezie o le rivelazioni del senso, la scoperta della verità [bensì] coi momenti morti, la bonaccia della storia, i fatti banali e quotidiani, le ripetizioni del già noto". In molti romanzi di King, a rapire il lettore è proprio il racconto della "bonaccia", il ritmo della vita quotidiana, o meglio: il tentativo di tornare a quel ritmo, di riconquistare una quotidianità dopo che un dramma ha distrutto la vecchia vita. E' questo il vero eroismo dei personaggi di King (Mike Noonan in Mucchio d'ossa, Lisey Landon in La storia di Lisey, Edgar Freemantle e Jerome Wireman in Duma Key), non il fatto che affrontino fantasmi, psicopatici o morti viventi. L'eroismo del quotidiano rende Duma Key un romanzo memorabile, tanto che dispiace quando la storia, dopo tanti indugi, si abbandona all'extra-ordinario, al soprannaturale. Intendiamoci, il patatrac e la corsa contro il tempo delle ultime cento pagine sono più che godibili, e il finale è uno dei migliori scritti da King (autore sempre a rischio di anticlimax), ma sono i primi 3/4 del libro a rimanere impressi. L'ultima parte è rideclinazione del già-narrato, lavoro sui clichés nel tentativo di "riaccenderli". King, del resto, lo annuncia già a pag. 57, quando Edgar confessa: "Sapevo che i tramonti erano clichés, per questo li dipingevo. Mi sembrava che, se fossi riuscito a sfondare anche una sola volta il muro del già-visto-già-fatto, forse sarei arrivato da qualche parte." In Duma Key le brecce nel muro non mancano, ed è merito della lingua. King scrive sempre meglio, con una felicità di soluzioni e un nitore assenti dalle sue opere di gioventù, quelle tanto rimpiante dai fans più conservatori. Alcune frasi sono versi, con effetti di lirismo e melodia che, seppure talvolta stucchevoli, sovente lasciano ammirati. Anche chi non sa l'inglese può riconoscere la bellezza di frasi come: "More orange tile - the roof of the mansion inside - rose in slants and angles against the blameless blue sky". Tuttavia, questo è solo uno degli aspetti della lingua di Duma Key. C'è un continuo sforzo di "risemantizzare", di aprire le parole a sensi nuovi, il che rende questo romanzo, come molti di King, intraducibile o quasi. Tutti e tre i personaggi principali hanno lesioni al cervello, in particolare ai centri del linguaggio. Nel caso di Edgar, King coglie ogni occasione per "incidentare" le frasi riempiendole di errori, invenzioni dislessiche, anagrammi: beath-ded al posto di death bed; l'esortazione offensiva "eat your shirts" ("mangiati le camicie") al posto di "eat your shorts" ("mangiati i calzoncini"); frasi fatte che divengono astrazioni, come "mettere il danno [harm] davanti alla forza [force]" anziché "il carro [cart] davanti al cavallo [horse]". La maestria stilistica di King sta nell'inventare calembours in modo non casuale ma attento ai significati: la mano di un personaggio [hand] diventa un prosciutto [ham]. Quel personaggio sta vomitando [throwing up], e King ricorre a un verbo indecifrabile, sowing up, che evoca sì la semina [to sow] ma, posto subito dopo il prosciutto, richiama alla mente una scrofa [sow]. Il campo semantico è insomma quello della macellazione, e infatti il personaggio è una vittima predestinata. Sovra-interpreto? Forse, ma forse no. Anche il linguaggio di Wireman è balordo: attacca una frase in inglese ma non può fare a meno di slittare nello spagnolo (la lingua della moglie morta), e in ogni discorso infila compulsivamente versi di canzoni dei suoi anni verdi ("quando credevo che Jerry Garcia potesse cambiare il mondo"). Pochi giorni fa il New York Times ha definito "irritante" il modo di parlare di Wireman. Può essere vero, ma come critica è fuori fuoco: Wireman ha una pallottola incastonata nel cranio. C'è chi scambia la propria moglie per un cappello, figurarsi se non possiamo tollerare qualche "muchacho" e "amigo" di troppo. Infine Libby: dopo aver sbattuto la testa da piccola, è rimasta letteralmente senza parole, tabula rasa terminologica, e ha dovuto ricostruire tutto. Oggi parla quando si alzano le nebbie dell'Alzheimer, e si esprime in modo criptico e allusivo. A ponti fitti, per il traditore italiano (Delio Tubner) saranno pazzi da pagare. A un certo punto, per il tramite di Edgar, King descrive la mente di una persona malata come fosse uno stato-nazione, un paese sotto dittatura, e conclude: "La guarigione è una rivolta, e tutte le rivolte riuscite sono iniziate in segreto". Nei giorni scorsi non una recensione ha omesso di ricordare il celeberrimo incidente subito da King nel 1999. Eccetto l'amputazione del braccio e i danni cerebrali, il referto medico era quasi sovrapponibile a quello di Edgar: gamba destra fratturata in nove punti, colonna vertebrale lesa in otto punti, anca deragliata, un polmone collassato, lacerazioni del cuoio capelluto. A seguire: operazioni chirurgiche, lunga convalescenza, difficoltà a stare seduto, ripresa fisica grazie alla pratica (toh!) della scrittura. Duma Key non è il primo libro in cui l'autore fa tesoro di quell'esperienza: ce l'ha raccontata in On Writing; ne abbiamo sentito l'eco - e anche qualcosa di più - in Buick 8, ne L'Acchiappasogni e in Cuori in Atlantide; l'incidente è addirittura entrato nel plot de La Torre nera. Eppure mai come in questo libro King ha raccontato il dolore dell'infermità, la tenerezza per le parti del corpo che non funzionano più come prima (o addirittura non esistono più), l'impresa di tornare a compiere gesti semplici in modo semplice, la soddisfazione al superamento di ciascuna soglia. Che questa "rivolta di guarigione" venga incoraggiata e strumentalizzata da forze malvage è un altro paio di maniche: chi legge sa distinguere le conquiste vere da quelle finte, quelle figlie di volontà e impegno da quelle realizzate in trance. Questione di sfumature, di equilibrio della narrazione. Si cammina con suole di sughero su una lama di rasoio, tutti insieme, autore e lettori. Resta da capire cosa rimarrà di tutto questo nella versione italiana. Chi può permettersi di leggere Duma Key in lingua originale, lo faccia senza indugi. Gli altri incrocino le dita. Forza Tubner, no, Dimner, no, aspettate, ce l'ho sulla pinta della cinghia, Dibber, Dapper, Dobbi-dy-duh. Ah, sì, Dobner. Tullio Dobner. Forza e coraggio. Massimo rispetto, da collega e da fan. [WM1] [Apparso su "L'Unità" del 6 marzo 2008] LINK WM1, recensione di Colorado Kid WM1 recensione di Cell WM1 recensione di La storia di Lisey WM1 recensione di Blaze |
Mia nonna mi raccontava spesso una scenetta che si sarebbe svolta tra la regina Vittoria e il suo ministro delle Colonie, quando si trattò di approvare la guerra ai Boeri. Sua Maestà, un po' interdetta, domandò: "Per quale motivo dovremmo fare la guerra ai poveri boeri che non ci hanno fatto niente di male?" E il ministro: "Maestà... in Sudafrica ci sono i più grossi giacimenti di diamanti del mondo". La regina: "In questo caso dichiariamo pure guerra ai Boeri". |
Che malattia è quando in ogni storia, in qualunque epoca sia stata scritta, leggi in allegoria la situazione italiana di oggi? Ed è un problema mio o un punto di forza del libro? E' l'opera a essere "invecchiata bene" o è la realtà a riprodursi miseranda, stagnante (anzi, stagflattiva) e ogni volta scimmiottante se stessa? Di certo, la riedizione del romanzo più famoso di Horace McCoy ha un timing perfetto, da nuoto sincronizzato. Nuoto nella melma, ovviamente. Nei recessivi anni Trenta americani, McCoy (1897-1955) attinge alla propria biografia e racconta di illusi, derelitti e illusi derelitti, uomini e donne provenienti da ogni dove che, per le strade di Hollywood, mendicano spiccioli di attenzione e sovente vanno a finir male. McCoy sa di cosa parla: già eroe della Grande Guerra, ex-dandy finito in malora, scrittore di racconti per le riviste pulp e sceneggiatore precario di B-movies, all'età di quarant'anni ha già fatto il pieno di frustrazioni (proprie e altrui). Fra i mestieri assurdi che s'è trovato a fare, anche quello di buttafuori durante le maratone di ballo. Proprio quel mondo ispira il libro, che Simone De Beauvoir definirà "il primo romanzo esistenzialista apparso in America". Le maratone di ballo: gare di resistenza a tempo di musica, antesignane dei futuri reality. Coppie di disperati, per un premio in denaro contante, si sfidano a chi danza più a lungo. Si balla tutto il giorno e tutta la notte, per intere settimane, con pause di pochi minuti per fare i bisogni, mangiare, dormicchiare. Il pubblico pagante si gode tutto: le acrobazie per radersi in piedi senza smettere di muoversi a tempo, gli scontri tra volontà e membra, gli sforzi per tener duro fino al prossimo break, lo spegnersi dell'ultima scintilla di vita nelle gambe, gli svenimenti. Con stile asciutto e paratattico McCoy racconta di Robert, spiantato aspirante regista, e Gloria, che non aspira nemmeno più a fare l'attrice, è spossata per la vita che ha condotto e ha esaurito la sua quota di sogni. I due non fanno in tempo a presentarsi che subito, per zittire lo stomaco, decidono di iscriversi a una maratona. Mal gliene incoglie. Sadismo, claustrofobia, pulsione di morte: l'autore non risparmia nulla al lettore, e smuove nella mente analogie, dejà vus, dejà foutous. Nel romanzo si agitano molti dei fantasmi che tormentano l'oggi: crisi, precarietà, assenza di prospettive, voyeurismo di massa, marketing senza scrupoli. Ci si avventura persino nel dibattito bioetico, quando il libro diventa una riflessione – più che mai discreta - sul suicidio assistito. Allude proprio a questo il titolo originale, They shoot horses, don't they? ("I cavalli li uccidono, no?"). Compaiono anche i comitati di bigotti, le associazioni per la tutela della morale, i Moige che, allora come oggi, propongono soluzioni sbagliate (la censura codina e sessuofobica) a problemi reali (l'invadenza dei media, la riduzione a merce di ogni aspetto della vita). Da questo romanzo, nel 1969, Sidney Pollack trasse l'omonimo film con Jane Fonda e Michael Sarrazin. Leggendo il libro e rivedendo la pellicola ho pensato: cos'è il tran tran degli spossessati di sogni, dei precari in tutto, dei proletari senza rivoluzione se non una maratona, una gara di resistenza al suono di orchestrine da quattro soldi, un tener duro fino al prossimo break, spuntino, sonnellino e di nuovo in pista? La tensione è repressa, è repressa ma sale, sale e si gonfia, finché un giorno uno scoppio non costringe l'orchestra a fermarsi, nessuno balla più, ci si riconosce mutualmente come umani. L'ordine verrà ristabilito, il tran tran riprenderà, ma è in quelle interruzioni che brilla la vita. E' per farne esperienza che vale la pena tener duro. Per non finire come cavalli azzoppati. [WM1] [Apparso su "L'Unità" del17 marzo 2008] LINK Il sito ufficiale di Terre di mezzo |
Non saprei dire perché certi editori italiani hanno l'abitudine di cambiare i titoli dei romanzi stranieri, invece di limitarsi a tradurli. Immagino sia perché credono che quelli scelti dagli autori non siano abbastanza pop per il mercato nostrano. Con una certa disinvoltura decidono quindi di sbizzarrirsi con titoli più "invitanti" - che spesso, per la verità, sono solo più lunghi. Salani e Tropea sono dei campioni in questo sport: ne sanno qualcosa alcuni loro autori come Philip Pullman, Jutta Richter, Paco Ignacio Taibo II e perfino la signora J.K. Rowling. Questa premessa mi serve per esprimere una certa perplessità sul titolo italiano del romanzo d'esordio di Eileen Favorite. Se l'autrice ha scelto di intitolarlo The Heroines, "Le Eroine" - per un motivo immediatamente intuibile da chiunque legga la quarta di copertina - perché si è sentito il bisogno di trasformarlo in Il bosco delle storie perdute? Un titolo assonante con talmente tanti altri da scivolare via senza fissarsi in testa... Tanto più che le storie a cui si fa riferimento nel romanzo sono tutt'altro che "perdute". Anzi, si tratta delle opere più famose della letteratura occidentale, quelle conosciute perfino da chi non le ha lette. Sì, perché l'espediente dell'autrice è quello di fare interagire la sua protagonista narrante, Penelope "Penny" Entwhistle, con celeberrime eroine letterarie. Se da ragazzi avete sognato almeno una volta di incontrare il protagonista del vostro romanzo preferito, se avreste voluto parlarci, sottrarlo per un momento al flusso della narrazione e offrirgli ricovero, una buona tazza di té o di brandy, perfino entrare nella sua storia e stargli al fianco, condividerne le avventure, be', allora leggete questo romanzo. Siamo nella campagna dell'Illinois, nell'estate del 1974. Ogni sera, in tv, va in scena lo spettacolo della fragorosa caduta di Nixon. Il Vietnam è una spina che l'America sta piano piano sfilandosi dal fianco. Le immagini del mondo esterno scorrono in sottofondo e non possono turbare l'atmosfera incantata della prateria e del bosco intorno alla fattoria degli Entwhistle, che la madre di Penny ha adattato a B & B. Penny è una ragazzina cresciuta senza padre e senza amici, costretta da sempre a condividere il segreto della sua famiglia tutta al femminile (una sorta di triade matriarcale). Da quando ha memoria, periodicamente alla fattoria giungono giovani donne sconvolte, inseguite dal destino che un romanziere ha incollato loro addosso. Si chiamano Rossella O'Hara, Anna Karenina, Emma Bovary, Hester Prynne (direttamente da La lettera scarlatta), e così via. Arrivano e se ne vanno. La crescita relativamente isolata di Penny è scandita dagli incontri brevi e intensi con questi straordinari personaggi. Il segreto si conserva da due generazioni grazie a una semplice regola aurea: i due mondi, quello reale e quello letterario, non devono mai confliggere. E' proibito intromettersi, sfruttare la conoscenza del finale dei romanzi per consigliare o mettere sul chi vive le protagoniste. La minima trasgressione potrebbe modificare irrimediabilmente l'andamento della trama. Ne va della sorte dei più importanti romanzi della storia letteraria. Va da sé che sarà proprio la violazione della regola a innescare il rocambolesco intreccio di eventi che dà vita alla vicenda, durante la fatidica estate del '74. Questo porta Penny a scontrarsi con la durezza del mondo esterno e con la violenza dell'istituzione totale, che cercherà in tutti i modi di sedare la sua "psicosi". La lezione non lascia scampo: la confusione tra i mondi, il caos, va curato con ogni mezzo necessario, siano anche il valium e la torazina in dosi da elefanti. Troppa fantasia letteraria è pericolosa per la società. Gli eroi convocati (titolo di un bellissimo racconto di Paco Ignacio Taibo II) devono tornare tra le pagine dei loro romanzi. Ma la fortuna di Penny è proprio quella di non poter essere curata, di poterli chiamare a sé, quegli eroi e quelle eroine, per essere liberata, per tornare alla foresta, luogo archetipico di incantesimi e magie letterarie e, ovviamente, all'immancabile castello, dove c'è sempre un letto e una buona colazione ad attendere i viandanti. Solo così la ragazzina può risolvere l'enigma nell'enigma, ovvero il romanzo della propria vita, il mistero della propria origine, anch'essa intrisa d'inchiostro, chiuso a chiave in un vecchio armadio, lassù in soffitta. Il bosco delle storie perdute è uno di quei libri che sedimentano pian piano, anche giorni dopo che hai finito di leggerli. Le storie e i personaggi ti riverberano in testa e ti ritrovi a pensarci involontariamente. Ti dici che l'autrice è stata brava, davvero brava. Perché scrivere un romanzo avvincente sul rapporto con la lettura, dove il lettore stesso si guarda allo specchio e finisce con l'interrogarsi su quello che sta facendo nel momento esatto in cui legge, be', non è una cosa da poco. Riuscire a farlo con la scioltezza di Eileen Favorite (che non a caso, forse, insegna scrittura creativa), è un'impresa davanti alla quale togliersi tanto di cappello. Leggere questo libro è come interrogarsi su quanto la letteratura influenzi il nostro immaginario e le nostre vite, su quanto siamo irrimediabilmente impregnati di narrazioni fin nel midollo. Forse - azzardo - è anche un modo di affrontare il dilemma tra sacralità del testo, coerenza filologica, e possibilità di stravolgerlo, interagire con esso, entrare nella storia assecondando la creatività della lettura. Come che sia, è davvero molto più di quello che ci si potrebbe aspettare da un romanzo d'esordio: una piccola grande prova di sapienza narrativa. [WM4] LINK Il blog ufficiale di Eileen Favorite |
Questo numero di Nandropausa è dedicato a Giuliano Bruno, che nessuno di noi ha potuto difendere. A Giuliano, sapendo che come lui cadranno altri. Straziati dal Paese Semplice. Chiuso in redazione alle ore 14.00 del 15 giugno 2008 |