NUOVE EPICHE ITALIANE (E NON SOLO) - Pag. 1 01. Giovanni Maria Bellu, L'uomo che volle essere Perón [WM1] 02. Valerio Evangelisti - Antonio Moresco, Controinsurrezioni [WM1] 03. Luigi Guarnieri, I sentieri del cielo [WM1] 04. Giovanni De Rose, Negli occhi di chi guarda [WM4] 05. Carlo Lucarelli, L'ottava vibrazione [WM1] 06. Enrico Brizzi, L'inattesa piega degli eventi [WM2] 07. Luigi Balocchi, Il diavolo custode [WM1] 08. Massimo Carlotto, Cristiani di Allah [WM1] 09. Anilda Ibrahimi, Rosso come una sposa [WM5] 10. Duka & Marco Philopat, Roma K.O. [WM5] 11. Giuseppe Genna, Hitler [WM1] 12. Letizia Muratori, La casa madre [WM5] 13. Vanni Santoni, Gli interessi in comune [WM2] 14. Monica Viola, Tana per la bambina con i capelli a ombrellone [WM1] 15. Matteo De Simone, Tasca di pietra [WM2] TRADOTTI DA ALTRE LINGUE - Pag. 2 16. Stef Penney, La tenerezza dei lupi [WM4] 17. Sebastian Barry, A Long, Long Way [WM4] 18. Stephen King , Duma Key [WM1] 19. Richard Mason, Le stanze illuminate [WM4] 20. Horace McCoy, Non si uccidono così anche i cavalli? [WM1] 21. Eileen Favorite, Il bosco delle storie perdute [WM4] Questa non è né potrebbe essere una panoramica dei libri interessanti pubblicati in Italia negli ultimi mesi. Leggiamo per diletto quando abbiamo il tempo e la forza di farlo, e il criterio con cui scegliamo che libro leggere è un non-criterio, dipende dai tiramenti di culo del momento. Non segnaliamo mai un titolo solo perché si deve o perché "tutti ne parlano". D'altro canto, il fatto che non ne parliamo non significa che non valga la pena leggerlo. Semplicemente, noi non l'abbiamo (ancora?) letto. Su Nandropausa, salvo alcune eccezioni (sassolini tolti dalle scarpe o perplessità da comunicare), segnaliamo libri che ci sono piaciuti. A volte segnaliamo libri su cui abbiamo poche o molte riserve (e le esplicitiamo), ma che riteniamo comunque letture importanti. Le stroncature non ci interessano, il silenzio basta e avanza. Ancora: non abbiamo debiti da pagare né dobbiamo "tener buono" alcuno. Se tra gli autori recensiti figurano nostri amici, è perché abbiamo apprezzato i loro libri. Se il libro non ci è piaciuto o non lo abbiamo letto con la dovuta attenzione, niente recensione, nemmeno se l'autore è nostro gemello siamese. Ricorda che c'è un modo di leggere Nandropausa che non si attacca al lavoro del tuo oculista, e quel modo è su carta (meglio se riciclata). Stampa questa pagina con fiducia, per cliccare sui link c'è sempre tempo. |
Eracle/Ercole indossa la pelle del leone di Nemea. La belva, figlia di Tifone ed Echidna, era invulnerabile. La sua pelle non poteva essere perforata da alcuna arma. Da tempo terrorizzava e uccideva la popolazione dell'Argolide, sbranava pecore e mucche, riempiva l'aria coi suoi ruggiti. Affrontarlo fu la prima delle dodici fatiche di Eracle. Nella lotta l'eroe perse un dito, ma alla fine riuscì a strangolare la belva, e da quel momento ne indossò la pelle come armatura. L'immagine ricalca quella realizzata da Giorgio Ferrero per Astronavi sulla preistoria di Peter Kolosimo (Sugar, Milano 1972), a sua volta ispirata a un reperto trovato a Vulci, presso Tarquinia. Eracle in pelle di leone è stato adottato come simbolo del dibattito sul New Italian Epic. |
Tempus regit actum. Ogni azione, ogni creazione, ogni poiesis va vista nel suo contesto d'origine. Il tempo in cui scriviamo è segnato nel profondo dalle morti dei fondatori, dei capostipiti, dei "padri" che scompaiono lasciandoci orrende gatte da pelare. Noi siamo gli eredi di illusioni già evaporate: sappiamo che lo "sviluppo" corre su un binario morto, ma non sappiamo azionare il cambio. Le parole con cui cerchiamo di definire il cambiamento sono ancora negazioni, nate prigioniere del frame avversario ("decrescita"), oppure si limitano a definirci posteri/postumi di qualcosa: post-fascisti, post-comunisti, post-postmoderni, "seconda repubblica" etc. Tempus regit actum. Il petrolio è sopra i 140 dollari al barile, e tra non molto finirà. Il mondo conosce un'emergenza-cereali. Mancano acqua e suolo fertile. Stanno finendo i metalli: pare siano rimasti rame, piombo, stagno, zinco, antimonio e cadmio soltanto per altri sessant'anni. Il capitale, insomma, sta per toccare i suoi limiti esterni. Il "postmoderno" ci ha talmente abituati a considerare tutto già detto, fatto e vissuto, che non ci rendiamo conto di quanto sia inaudito e senza precedenti questo periodo. Qualcosa di nuovo sotto il sole. Si aprono squarci nell'eterno presente del consumo e delle sue rappresentazioni. Cedono le basi materiali, strutturali, della cultura prodotta in occidente negli ultimi decenni. Cambiano le esigenze, ci mordono le urgenze, noi scrittori dobbiamo esprimere nell'arte le necessità di cambio di rotta e rinnovamento che la crisi globale ci segnala. La fine dell'età del petrolio è appena iniziata, l'intera società andrà avanti per un bel pezzo con la sola forza d'inerzia (causando danni devastanti), ma gli artisti devono attivarsi prima degli altri, e forzare l'immaginazione verso il cambiamento. Tempus regit actum. Diverse opere scritte oggi registrano la nostra condizione di postumi, e la rappresentano in allegoria, un'allegoria profonda. Molti dei libri che ho definito "New Italian Epic" trattano del buco lasciato dalla morte di un "Vecchio", un fondatore, un leader o demiurgo. A volte proprio questo epiteto è usato come antonomasia: "il Vecchio". Non può essere una semplice coincidenza: "Il Vecchio" è morto in Manituana di Wu Ming (Sir William Johson ovvero Il Vecchio), Nelle mani giuste di Giancarlo De Cataldo (Il Vecchio), L'uomo che volle essere Perón di Bellu (Il Vecchio), Medium di Giuseppe Genna (Vito Antonio Genna) e Sappiano le mie parole di sangue di Babsi Jones (dove il fondatore morto è Josip Broz detto "Tito", e tutto ciò che accade nei Balcani ha luogo nella voragine lasciata dalla sua scomparsa). Tracimando appena dal NIE, si può includere anche Se consideri le colpe di Andrea Bajani (dove il "Vecchio" è di genere femminile), e chissà quanti altri titoli mi sfuggono. Quelli citati sono tutti libri usciti nel 2007-2008. No, non può essere una semplice coincidenza. Accorgersi della ricorrenza del "Vecchio" come personaggio-assenza è un passo lungo il sentiero di lettura che ho chiamato "allegoritmo". Di tutti questi libri, Medium e L'uomo che volle essere Perón mi sembrano occupare la postazione più "avanzata", perché vanno oltre la condizione dell'essere postumi, elaborano il lutto, usano la commistione di autofiction ed epica per avviare una terapia. Immaginando storie alternative, curano i difetti del nostro sguardo di postumi e ci preparano a immaginare un futuro. In questa sede non posso fare una lettura comparata minuziosa. Basti dire che: in entrambi i romanzi la morte del padre scatena una ricerca tra storia e leggenda, indagine internazionale su una vicenda singolare che contiene in microcosmo tutte le contraddizioni del Novecento. In entrambi i romanzi il protagonista e io narrante si confonde con l'autore (in Medium si chiama addirittura "Giuseppe Genna"). In entrambi i romanzi il protagonista svuota l'appartamento del padre morto. In entrambi i romanzi il protagonista trova un libro o più libri che accendono una scintilla, scatenano ricordi e spronano a partire, indagare, intervistare. In Medium si tratta dei libri di Peter Kolosimo, ne L'uomo che volle essere Perón di un libro-inchiesta di Peppino Canneddu sulla presunta vera identità del dittatore argentino Juan Domingo Perón, alias l'emigrante sardo Giovanni Piras. Entrambi i romanzi sono scosse di terremoto il cui epicentro è un viaggio all'estero: Giovanni Piras che attraversa l'Atlantico nel 1909, Vito Genna che visita la Germania Est nel 1981. Mi concentro ora sul libro di Bellu, una delle uscite più significative di un'annata parecchio feconda. Finora l'ho chiamato "romanzo", ma è un buon esempio di oggetto narrativo non-identificato: narrativa e saggistica, inchiesta e romanzo del Graal. L'uomo che volle essere Perón si svolge qualche anno fa, anche se il periodo preciso non viene mai esplicitato e va inferito da elementi extratestuali: il "segugio" Gabriele Casula, che compare come personaggio, non ha ancora pubblicato il suo libro ¿Donde nació Perón? Un enigma sardo nella storia dell'Argentina, uscito nel 2004. E poiché non vi sono cenni di alcun tipo all'11 Settembre e all'Iraq, la vicenda potrebbe svolgersi nel 2000. L'io narrante è un giornalista cagliaritano che vive a Roma, dove lavora per un grande quotidiano (Bellu scrive su Repubblica). Il protagonista/narratore è tornato a Cagliari a seguito della morte del padre, anziano avvocato di origini barbaricine (Arasolè, paese immaginario). Questo padre è un personaggio riuscitissimo: roccioso gentiluomo dal passato fascista, reduce della seconda guerra mondiale, rimasto vedovo da giovane, talassofobico quanto il Gnaziu di Maruzza Musumeci di Camilleri... Il Vecchio riempie tutto con la propria scomparsa, tanto che al narratore, in qualunque punto del libro, è sufficiente usare un pronome maschile o un aggettivo possessivo e sappiamo subito di chi stia parlando: "volevo chiedergli" (p.53), "l'impronta delle sue spalle" (p.56), "gli avevo detto (p.118). Mentre attende ai doveri di figlio e unico erede, il narratore si imbatte nelle teorie secondo cui Juan Perón era in realtà Giovanni Piras, il ragazzo di Mamoiada che partì per il Nuovo Mondo prima della Grande Guerra e poi fece perdere le proprie tracce. Un inquietante ricordo famigliare - frase enigmatica detta dal padre nel 1973, davanti alla tv - collega (e addirittura identifica) l'elaborazione del lutto all'inchiesta su Piras/Perón. Da qui in avanti c'è un esplodere di piani temporali: il narratore scrive a inchiesta appena terminata; all'indietro, ci racconta il nascere e farsi dell'inchiesta stessa; durante l'inchiesta, torna costantemente agli anni Sessanta e Settanta del rapporto padre-figlio; nel tempo dell'infanzia e adolescenza, c'è un continuo rimando al passato militare e fascista del padre; Ancora: durante l'inchiesta, partono incursioni immaginifiche nel Dopoguerra (es. un giovane Licio Gelli gira la Sardegna compiendo piccoli raggiri); poi, com'è d'uopo, c'è il primo Novecento, con le peripezie dell'emigrazione sarda in Argentina. Infine - e anche in questo è forte l'analogia con Medium di Genna - si scavalcano i millenni. Nell'appendice a Medium Genna andava in avanti, visualizzando il futuro remoto; qui Bellu va all'indietro, al Neolitico, ai giorni in cui venne istoriata Sa Perda Pintà, la "pietra dipinta" trovata a Mamoiada nel 1997. Empatia con lo sconosciuto ("l'uomo con lo scalpello") che 4-5000 anni fa lavorò quel blocco di granito. Tentativo di comprendere i suoi sentimenti, le sue paure. E' precisamente ciò che intendo quando parlo di "sguardo obliquo" sul mondo, sul tempo, su quel che percepiamo come il continuum: Era quasi senza forze, ma se avesse scolpito tutti gli orizzonti possibili, nulla più avrebbe potuto sorprenderlo. Cominciò a contarli continuando a picchiare, finché lo scalpello gli cadde di mano. Allora poggiò la fronte sul granito, sentì sulla schiena l'abbraccio del sole e un'insopportabile arsura. Raggiunse carponi la fonte, affondò la faccia nella polla, bevve con le mani sul fondo e le dita strette nel muschio. (p.350) In mezzo a questo andirivieni: viaggi, depistaggi, fraintendimenti, burle, dissonanze cognitive, "brevi cenni sul mondo"... L'uomo che volle essere Perón è una delle uscite più importanti di quest'anno, che pure è prolificissimo. Giovanni Maria Bellu ha scritto una storia falsa e vera, locale e planetaria, australe e boreale, mediterranea e transatlantica, terricola e di mare, peculiare e nello spirito dei tempi. I tempi che regunt actum. I nostri tempi. E il nostro actum. [WM1] LINK Giancarlo De Cataldo recensisce L'uomo che volle essere Perón Da L'Unità del 20/05/2008. Giovanni Maria Bellu presenta L'uomo che volle essere Perón a Fahrenheit, Radio 3 Conduce Marino Sinibaldi, 29/05/2008. MP3, 96k, 27:12. |
Luigi Guarnieri, I sentieri del cielo, Rizzoli, pp.326, € 19 Da narratore, il Risorgimento mi ha sempre fatto fatica. Ammantato com'è di cattiva retorica, soffocato com'è dal tedio degli anni scolastici, mi è sempre parso troppo difficile metterci le mani per cavarne qualcosa. Come fa notare Valerio Evangelisti nella sua premessa a Controinsurrezioni, persino certe opere di storiografia prodotte oggi sono ammantate di cattiva retorica, come fossero state scritte all'epoca. Il mito risorgimentale è enfatico, pesante, e appesantisce anche la sua messa in discussione. Negli anni Sessanta e Settanta una parte di cultura marxista - il cui testo di riferimento era Proletari senza rivoluzione di Renzo Del Carria - criticò duramente il Risorgimento, ne parlò come di una rivoluzione tradita e pervertita, durante la quale le classi subalterne furono illuse, tradite e represse dai loro capi (i futuri "padri della patria", Garibaldi compreso). Dopo un secolo e più di trombonate e verità ufficiali, era naturale la tendenza a "iper-compensare", e all'epoca si credevano le masse inevitabilmente "più a sinistra del partito". La questione è certamente più complessa. Solo che oggi si è "contro-ipercompensato": l'oscillare del pendolo ci ha riportati alla vecchia oleografia, e chissà che ci toccherà sentire nel 2011, centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia. Le cause sono diverse: c'è stato un "eccesso di legittima difesa" contro la retorica secessionista della Lega, e c'è una ritrovata voglia di pistolotti patriottardi, dopo anni in cui la maggioranza della popolazione sembrava immune a tale morbo. Comunque sia, il Risorgimento (e dintorni) mi ha sempre fatto una gran fatica. Poi, lentamente, diversi colleghi si sono messi al lavoro, a tentoni, cercando di mettere a fuoco, di lanciare occhiate sghembe, riuscendoci in tutto, in parte, per niente, poco importa. Importa che si stia sperimentando. C'è chi si concentra su episodi di rivolta di popolo, come Antonio Scurati che narra le cinque giornate di Milano (Una storia romantica) e Valerio Evangelisti che mostra l'agonia della Repubblica Romana (Controinsurrezioni). C'è chi azzanna alla gola un padre della patria, come Fausta Garavini che, nel suo In nome dell'Imperatore, demolisce Silvio Pellico. C'è chi narra la ferocia repressiva e colonialista del nuovo stato sabaudo, come Luigi Guarnieri nel suo incubo calabrese datato 1863 (I sentieri del cielo). C'è chi, come Antonio Moresco in Controinsurrezioni, mette insieme episodi di violenza reazionaria e inconcludenza rivoluzionaria, inscena la scrittura del poemetto leopardiano Paralipòmeni della batracomiomachia e si sposta febbrilmente nel tempo e nello spazio, per concludere che cercare di fare la rivoluzione in Italia è come scopare su "un set porno tutto pieno di morti". Sono tutti libri usciti nel periodo 2007-2008. Anche in questo caso, come in quello della morte del "Vecchio" (cfr. la mia recensione del libro di Bellu) e in quello del "ritorno" al Corno d'Africa (cfr. Wu Ming 2 sull'ultimo Brizzi), difficilmente può trattarsi di una mera coincidenza. Controinsurrezioni è un ircocervo: due introduzioni + un racconto di Evangelisti (titolo: "La controinsurrezione") + un "qualcosa" di Moresco, trattamento per un film che non verrà girato (titolo: "L'insurrezione"). Evangelisti segue gli spostamenti del garibaldino Giovanni Lanzoni in una Roma assediata e piena di macerie. Dopo cinque mesi di governo rivoluzionario, l'Urbe sta per essere espugnata dai francesi e riconsegnata al Papa (luglio 1849). Le vie sono cosparse di triboli, oggetti di ferro acuminati il cui scopo è fermare le cariche di cavalleria, solo che gli assediati hanno esagerato, e si fatica persino a camminare. La sconfitta è densa, fango gelido che ricopre i volti, è piena estate ma fa freddo. Nemmeno nel dittico sul Messico, grande architettura brechtiana, Evangelisti aveva conseguito un simile straniamento: la rivoluzione non ci appartiene più, è il sogno di qualcun altro, in un altro tempo. "I pochi cavalieri e i molti fanti sparirono nel buio. Più che a un'altra destinazione, parevano essere diretti a un'altra epoca, meglio pronta ad accoglierli." (pag.52). Chi invece rimane è destinato a dissolversi nel nulla, come accade a Lanzoni.
In un suo intervento sul New italian Epic intitolato Literary Opera, Evangelisti ha scritto che le opere NIE intercettano |
Deserto di Hermanas, New Mexico, 12 luglio 1917. Una distesa riarsa, costellata di cactus, i binari della ferrovia che si perdono all'orizzonte in entrambe le direzioni, avvoltoi che roteano su in alto, in attesa di un lauto pasto, serpenti a sonagli che sibilano sotto i sassi. Potrebbe essere la scena iniziale di un film western. Ma non è completa. Bisogna aggiungere un migliaio di disperati che si trascinano in mezzo alla polvere e alle sterpaglie. Non hanno acqua, né cibo, sono logori e stremati. Gli uomini dello sceriffo della contea di Cochise, Arizona, li hanno prelevati all'alba nelle loro case e chiusi dentro vagoni bestiame. Li hanno deportati in mezzo al deserto e li hanno abbandonati. E' questa la scena madre del romanzo di Giovanni De Rose, Negli occhi di chi guarda, ed è anche un fatto storico, uno di quegli "scivoloni" che costellano la storia americana con tale frequenza da diventarne pilastri, spesso e volentieri rimossi dalla retorica a stelle e strisce. Di sicuro è un Far West molto diverso da quello che ci hanno raccontato i grandi registi di Hollywood. Sì, perché quei mille deportati (1186, per la precisione) non sono indomiti Apaches, né prigionieri di guerra. Sono – erano – 229 messicani, 167 statunitensi, 80 serbi, 70 finlandesi, 67 irlandesi, 40 austriaci, 32 inglesi, 8 italiani, e poi montenegrini, canadesi, croati, olandesi, russi, spagnoli, fino a raggiungere 35 diverse nazionalità. C'è un pezzo di mondo globalizzato, quel giorno torrido d'estate, nel deserto del New Mexico. Ci sono i lavoratori emigrati in America da ogni continente, disposti a essere pagati meno dei colleghi americani, a ricoprire le mansioni più umili, più rischiose, nel ventre della terra, in fondo alle miniere d'argento e di rame. Il rame che serve per la guerra, lontano, in Europa, dove gli Stati Uniti combattono al fianco dell'Intesa. Ma può capitare, ed è capitato, che i sindacalisti itineranti dei primi anni del secolo, i Wobblies, gli agit prop dell'IWW, riescano a raccontare a quei poveracci una storia diversa, a far filtrare l'idea che può esistere un eguale diritto per tutti, che l'unione di classe fa la forza ed è un'arma importante. Ecco chi sono quei 1186 uomini che stanno morendo di sete nel deserto di Hermanas. Scioperanti. Operai delle miniere di Bisbee, Arizona, capaci di bloccare i profitti di una grande impresa mineraria e rivendicarne una piccola parte per se stessi, sotto forma di paga migliore, maggiori misure di sicurezza, turni meno massacranti. Chiedevano questo e avevano talmente ragione che c'è voluta la forza per spegnere le loro voci. Adesso possono blaterare quanto vogliono... agli scorpioni e ai serpenti. Ma la storia comincia molto tempo prima e molto lontano da lì. Per l'esattezza in un paesino della Calabria, tra le montagne e il mare. Perché questa è la storia di Iennaro, che ebbe "due madri, tre nomi e quattro padri", a cui un giorno chiesero se credesse nella poesia e dovette andare fino in America per trovare la risposta. Una risposta già implicita nelle pagine del romanzo, di una densità poetica rara per un esordio letterario (perché di questo si tratta), ma anche spia luminosa per il lettore: questo non è solo un romanzo di fatti e cronache trasposti in narrativa, non è un romanzo storico classicamente inteso. Bisogna stare attenti a non fidarsi troppo della memoria del vecchio Iennaro che, ottantenne, ci racconta la sua storia dal punto d'arrivo, che poi è lo stesso punto di partenza. La poesia è, appunto, negli occhi di chi guarda, cioè nel legame immateriale tra chi racconta e chi ascolta. La poesia accosta cose inaccostabili, vive di paradossi e di magia. Ecco, questo è un romanzo che ha più a che fare con il realismo magico che con i manuali di storia. Eppure illustra un'epopea di carne e sudore, concreta come la puzza di corpi ammassati, come la fatica. Perché questo è stata l'emigrazione verso l'America, e questo è ancora l'emigrazione verso quell'America che è oggi l'Europa per molti disperati nel mondo. Allora, nei primi anni del Novecento, erano i nostri bisnonni a gettare il cuore oltreatlantico, rischiando tutto. I ruoli cambiano, ma le storie sono le stesse. Impossibile non leggere questa avvicente odissea dei pezzenti senza avvertire la sua immediata attualità. E' lenta la maturazione della partenza da un mondo piccolo e arcaico, cattolico e pagano al tempo stesso, caldo come l'utero materno, da cui però presto o tardi bisogna uscire. Almeno questa è la pulsione di Iennaro, spinto dalla propria voglia di vedere altro, ma anche dall'incontro con un padre putativo capace di capirlo e incoraggiarlo. Il viaggio è impresa, avventura, sofferenza, stipati come bestie nell'imbuto di Ellis Island, l'Isola delle Lacrime, dove le speranze di molti si infrangono ancora prima dell'approdo nel Nuovo Mondo. Devi essere sano, devi essere giovane e forte, devi poter lavorare. Altrimenti non servi, quindi non passi. Tuffarsi nelle acque gelide davanti a New York, cercare di attraversare da clandestini il braccio di mare che separa dalla terraferma, è il gesto disperato di pochi che non avranno fortuna. Il paese che Iennaro troverà oltre oceano è fatto di molti paesi, molti angoli di mondo, una terra frazionata dalle diverse genti che arrivano in America con le proprie vite, credenze, superstizioni. L'America è ancora lontana, forse solo un'idea, uno scatolone vuoto da riempire con tutti i colori della terra. Ecco perché Iennaro, diventato Jimmy, dovrà andare a verificarla di persona la vastità di quell'ipotesi, il sogno del Grande Paese, spingendosi a ovest, come i pionieri prima di lui. Il suo viaggio decennale gli farà incrociare la strada di alcuni personaggi epocali, come il gangster John Dillinger e gli uomini della sua banda, in un'ucronia talmente plausibile da passare inosservata fino alla fine, quando sopraggiunge l'illuminazione che la vicenda narrata non è altro che un poema. La canzone di un migrante che ha voluto vedere con i propri occhi e trovare la poesia a tutti i costi, la felicità oltre la sofferenza. "E dove non c'ero riuscito speravo che rimediassero gli anni. Il tempo, infatti, può avvolgere in un velo di sentimento ogni cosa, e può renderla migliore". E' così, con l'istinto del cantastorie, che il vecchio Iennaro romanza la propria biografia, popolandola di leggendari banditi e cowboy; ladri gentiluomini, più generosi di qualsiasi persona dabbene; grandiose puttane discendenti di Kit Carson; cavalcate nel deserto; tesori nascosti; perfino un grande libero amore, capace di stagliarsi oltre ogni pregiudizio. E' questa l'America che Iennaro ha voluto riportarsi a casa, il sogno rocambolesco da far sopravvivere oltre la più crudele sconfitta, concretizzatasi all'alba di un giorno di luglio, quando è stato caricato a forza su un treno insieme ai compagni di lotta. Proprio come in una favola western, alla fine arrivano i "nostri". Il XII° Cavalleggeri dell'esercito americano giunge a salvare i minatori di Bisbee. Ma quella che viene offerta è ancora una salvezza parziale, condizionata dalla scelta tra essere espulsi o guadagnarsi il permesso di soggiorno fornendo carne da cannone per le guerra in Europa. Un'opzione valida ancora oggi per molti che aspirano alla Carta Verde, e che per Iennaro segna comunque la via del ritorno. Ritorno a un vecchio continente sconvolto da un conflitto sanguinoso, decimato dalla guerra e dalle epidemie. Un ritorno che agli occhi caparbiamente eroici, poetici, del protagonista esige di diventare lieto fine, in barba alla cronologia, forse anche alla plausibilità. "Ero partito per cercare una risposta, e cercandola avevo anche imparato che bisognava inseguire la felicità; e io l'avevo fatto e qualche volta mi era capitato di raggiungerla, e di camminare al suo fianco." E' quello che in fondo tutti speriamo e che suona come un augurio, fatto sull'ultimo miglio, a coloro che proseguiranno il viaggio. [WM4] LINK La pagina dedicata al libro sul sito dell'editore |
Quand'ero bambino, trent'anni fa, c'erano ancora anziane signore di nome "Adua". Nel 1896 i loro padri avevano combattuto la più celebre battaglia del colonialismo italiano, subendo una sconfitta apocalittica, proverbiale, da parte di un'immensa orda di "selvaggi": l'esercito del Negus abissino Menelik II. Ciascuno di quei padri aveva lasciato in Africa un'intima parte di sé (talvolta in senso letterale); esser tornati in Italia, vivi e in grado di procreare, era già una bella vittoria. Le loro figlie erano prove viventi del ritorno dagli inferi. Adua fu un preludio a eventi-chiave del Novecento quali la rotta di Caporetto, la battaglia di El Alamein e la presa di Dien Bien Phu (primo atto della fine dei colonialismi europei). Oggi è un fatto storico studiato a scuola distrattamente, familiare solo ai patiti di storia militare, eppure l'eco di quel disastro continua a farsi sentire. Per dirla con un personaggio de L'Ottava vibrazione, lungamente atteso romanzo di Carlo Lucarelli: "credevamo di imporci a quattro beduini da comprare con le perline e invece siamo andati a rompere i coglioni all'unica grande potenza africana... Ci siamo andati impreparati, fidando nella nostra fortuna, nell'arte di arrangiarsi e nella nostra bella faccia. Lo abbiamo fatto... perché il presidente del Consiglio deve far dimenticare scandali bancari e agitazioni di piazza. Ma perché le facciamo sempre così, le cose, noi italiani?". Qualunque riferimento a eventi più prossimi è, ça va sans dire, del tutto casuale. Lucarelli torna al respiro del romanzo dopo quasi un decennio di digressioni multimediali, e lo fa mettendosi in gioco, cimentandosi in un'opera grande e complessa, libro che "scarta" rispetto alla sua produzione giallistica, tanto che i fan più indolenti potrebbero aversene a male, manifestare rigetto per una mossa che non li rassicura in alcun modo, non va incontro a nessuna delle loro aspettative. Ciò vale a Lucarelli un primo encomio. L'Ottava vibrazione si svolge a Massaua e dintorni, nei mesi precedenti il disastro di Adua. L'Eritrea è colonia italiana da appena dieci anni, e nella città costiera si muovono soldati, spie, funzionari intrallazzoni, fattucchiere, puttane, uomini d'affari brianzoli, giornalisti embedded e - forse - un assassino di bambini. Diverse sottotrame scivolano l'una accanto all'altra senza mai intrecciarsi davvero; ciascuna va incontro al proprio climax (o intenzionale anticlimax), e molti dei personaggi del libro non arriveranno mai a conoscersi. Le vicende individuali hanno luogo in un tempo sospeso, stagnante; l'afa rallenta ogni movimento, ventole appese ai soffitti rimestano l'aria senza portare refrigerio ed è diffusa l'impressione che le cose "succedano sempre da un'altra parte". Saranno le picche degli Etiopi a bucare il palloncino. Tematica e ambientazione valgono a Lucarelli il secondo encomio: è importante fare i conti con la cattiva coscienza d'Italia, tornare a occuparsi delle "nostre" guerre coloniali, di quel che abbiamo fatto in Libia e nel Corno d'Africa in un cinquantennio di aggressioni, angherie, massacri. E' una delle grandi rimozioni di questo paese, sgabuzzino chiuso a chiave nel pericolante edificio della memoria pubblica. Ogni volta che la ricostruzione di quegli eventi esce dall'ambito specialistico (quello di storici come Angelo Del Boca), la censura interviene a infrangere lo specchio, affinché gli "Italiani brava gente" non possano vedersi per quel che sono. In Italia non sono arrivati nelle sale film come Il leone del deserto (sulla resistenza anti-italiana in Libia), né la RAI ha mai trasmesso sul segnale terrestre - pur avendolo acquistato - il documentario inglese Fascist Legacy (sui crimini di guerra italiani in Africa e nei Balcani). L'ignoranza sul nostro passato coloniale spiega molte cose dell'oggi, compresa la leggerezza con cui ci accodiamo a qualunque sfilata in tuta mimetica, impegnando forze armate in dubbie missioni "di pace". Ci infiliamo in un ginepraio dopo l'altro senza averne la minima cognizione, convinti di aver sempre ragione noi, e quando - come c'era da attendersi - viene ucciso un nostro soldato, siamo capaci soltanto di vittimismo e melensaggini, straparliamo di "eroi", e ve lo facciamo vedere noi come muore un italiano. Senonché un italiano muore esattamente come chiunque altro: il cuore si ferma, il corpo marcisce e i vermi mangiano. Tutti i romanzi, anche quelli storici, parlano di adesso, l'adesso in cui il lettore li affronta. Ne L'Ottava vibrazione Lucarelli non si adagia su allegorie troppo facili, corrispondenze dirette tra passato e presente, ma i riverberi con l'oggi non mancano. Ad esempio, è un caso che si salvino dal carnaio solo i personaggi che hanno sposato il meticciato e si pongono oltre gli antagonismi tra culture e civiltà? No, certo che no. Ancora: la classe dirigente che aggredì l'Africa era la stessa che aveva fatto il Risorgimento. Il presidente del consiglio Francesco Crispi era un garibaldino, reduce della spedizione dei Mille. Le aggressioni imperialistiche dei nostri giorni (dai Balcani all'Iraq passando per l'Afghanistan) le scatena una classe dirigente transnazionale, formata da baby boomers che hanno fatto il '68. Riflettere su tale parallelismo ci allontanerebbe troppo dal libro, e questa è pur sempre una recensione, per cui fermiamoci qui. Il terzo encomio Lucarelli se lo guadagna per il coraggio stilistico e strutturale. Non tutte le soluzioni convincono pienamente, ma è indubbio lo sforzo di usare una lingua non banale. Per prima cosa, c'è uno slittamento continuo dei tempi verbali, dal presente al passato remoto e viceversa, anche all'interno della stessa frase. Sulle prime la scelta confonde, appare arbitraria, ma proseguendo nella lettura ci si abitua e si coglie il senso: il passaggio al presente avvicina la scena, scuote il lettore, lo costringe a rimettere a fuoco. E' una secchiata d'acqua fredda in piena faccia. L'autore vi ricorre un po' troppo spesso, ma è un peccato veniale. C'è anche lo stratagemma narrativo opposto: la presa di distanza. Lucarelli alterna ai capitoli di narrazione testi non numerati, descrizioni minuziose di fotografie d'epoca. Tutto si ferma e arretra nel tempo, diviene reperto, si "storicizza". Da notare anche il tentativo non soltanto di rendere la pluralità linguistica con frasi in diverse lingue e dialetti (tigrino, arabo, francese, veneto, toscano, umbro, romagnolo, milanese), ma anche di comprendere aspetti dei rapporti tra lingue e culture. I personaggi si interrogano più volte sulla traducibilità di una parola, su corrispettivi e sinonimi, su come si esprima il medesimo concetto in due lingue lontane tra loro. Ad esempio, il fatto che in tigrino non si trovi un esatto corrispettivo di "frocio" (o "checca", "finocchio", "ricchione", "culattone") aggrava la crisi d'identità di un personaggio che, scoprendosi omosessuale, deve ricorrere a un altro idioma (l'arabo) per deprecarsi in modo più incisivo. Lucarelli è un narratore molto abile nel cosiddetto foreshadowing, l'anticipazione (esplicita o implicita) di sviluppi del plot. Una fugace considerazione sul deserto ("nel deserto i rumori e gli odori non sono inutili, se ci sono è per un motivo concreto, unico ed essenziale") descrive con molti capitoli di anticipo l'inizio della scena madre. Sarà un odore percepito all'improvviso ad annunciare l'onda umana portatrice di morte. Ed è pure questa una prefigurazione: nella prima guerra mondiale gli odori uccideranno, coi bombardamenti di iprite e fosgene. E come dimenticare che, quarant'anni dopo Adua, l'iprite verrà usata proprio in Abissinia dagli invasori italiani? Un quarto encomio l'autore lo merita per non aver indugiato lungo la discesa verso il puro raccapriccio, ed essersi fiondato giù. Le parti horror del romanzo sono davvero ripugnanti, e l'ematomania di un personaggio - che avrà un ruolo significativo nel corso degli eventi - non stona affatto nel contesto di una guerra coloniale. Alla base dell'imperialismo non c'è sempre il razzismo, cioè un "feticismo del sangue"? Qualcuno giudicherà queste pagine eccessive, ma Lucarelli segue con orgoglio la linea tracciata da Stephen King: "Riconosco nel terrore l'emozione più pura, quindi cercherò di terrorizzare il lettore, ma se non riuscirò a terrorizzarlo, allora cercherò di suscitargli orrore, e se non riuscirò a suscitargli orrore, allora gli susciterò ribrezzo. Non sono uno che si fa problemi." Il quinto e ultimo encomio va alla capacità - che non immaginavo in Lucarelli - di scrivere pagine di intenso erotismo, anzi, di molteplici erotismi. Si va dalla sensualità torbida, cospirativa e prettamente noire (l'ispirazione è chiaramente il James M. Cain de La fiamma del peccato e Il postino suona sempre due volte) all'arrapamento terragno e disperato dell'amplesso tra il milite Sciortino e la contadina vedova "Sebeticca", passando per tutte le sfumature tra queste due polarità. Ci sono molti motivi per leggere questo libro, ma il principale è che si tratta del "secondo esordio" di un veterano che ricomincia da capo, e non si può dire che capiti spesso. E' un'opera importante, un romanzo scritto con umiltà e ambizione, un lavoro che va difeso dalle critiche degli accidiosi. "Coraggio, per la madonna!", urla alla truppa il sergente De Zigno mentre già accade l'irreparabile. Coraggio, è tutto lì. E' ciò che vogliamo dagli scrittori. Anche e soprattutto da quelli affermati. [WM1] [Apparso su L'Unità dell'1 aprile 2008] LINK Il sito ufficiale di Carlo Lucarelli |
- E' soltanto un caso. Una coincidenza fortuita. Il 10 ottobre 2007 debutta per la Sergio Bonelli Editore la miniserie Volto Nascosto, scritta e concepita da Gianfranco Manfredi. La storia è ambientata tra il 1889 e il 1896, tra Roma e le colonie italiane in Africa Orientale. - Se non è un caso, allora si sono messi d'accordo. E' una trovata commerciale, un modo per vendere di più e scalare le classifiche. Certo non sono questi i primi narratori italiani a misurarsi con il nostro passato coloniale. Tempo di Uccidere di Ennio Flaiano,
premio Strega 1947, è ambientato durante la campagna d'Etiopia del 1936
(e di sicuro non è un caso se tanto Lucarelli che Ghermandi gli rendono
espliciti omaggi). Andrea Pazienza ha raccontato in Aficionados (1981) le esperienze militari di Francesco Stella nel deserto africano, con una parabola molto simile a quella di Sciortino ne L'ottava vibrazione. |
- Era un bandito buono? - Era un buon bandito. G.M. Bellu, L'uomo che volle essere Perón, p. 118 Lo stupore che ho provato sulle pagine del libro - che ho bevuto attraversando la regione in cui si svolge, dentro un interregionale - era uguale allo stupore che s'espande nella testa quando trovi una conferma, una sferica conferma alla vaga sensazione che rimugini da tempo. Detto meglio, almeno spero: non sorprende che in Italia, in Italia in questi anni, un autore pensi e scriva proprio un libro come questo, con 'sta lingua e 'sto respiro di collina e di foresta, e il suo epico passare dal paesino all'universo. Stop. Cambio ritmo. Mi ha stupito non l'impresa, ma il fatto che non sia isolata. Colpisce che diversi autori italiani la stiano tentando, ciascuno a modo suo, anche all'insaputa l'uno dell'altro. Ritorno del rimosso, epica della rivolta singolare e collettiva, vicende esemplari, la parte "sbagliata" della storia patria... S'intende: nessun altro autore scrive come Balocchi. Nisùn, e lo spiegherò. Ma 'sto libro c'ha dei fratelli e delle sorelle (*). Il diavolo custode al cunta l'epopea dal bel Santéin, al bandì libertari Sante Pollastro (1899-1978), nat e carsù a Novi Ligure, un paisìn ad quatar strad e "la quinta ti porta in gabbia". E a m'arcmand, al's ciama Sante Pollastro, brisa "Pollastro Sante", parché "i carabinièe, le guardie... quelli sì che dicono prima il cognome. Ma mi, mi no. Sono Sante Pollastro. Del fu Vincenzo". Sante Pulàstar. Amìg dal ciclista Costante Girardengo (a ghè infin 'na canzon ad De Gregori) e incora più amìg dal poeta anarchic Renzo Novatore (1890-1922). Sante al j'era al spauràz di fasista e di carabinier, eròe legendàri "cazzo in resta e colpo in canna". I l'a arestà a Parigi in t'al '27 e i l'a cundanà a l'ergàstul, po i ga dà la grazia in t'al '59. L'e mort in t'la so Novi quìndas dì prima che a Roma i sequestréss Aldo Moro. J'era ormai àltar temp, a 'ndava ad moda un àltar tip ad latitanza e lota clandestina, men rumàntica e più trista, par zunta gunfiada dai giurnai e dala television invenzi che tgnuda sota silenzi com ch'a suzdeva con la zensùra dal Ventennio - zensùra che però l'an puteva brisa farmar l'epos, il stori da ustarié, il canzon... "Mica bisogno del giornale per conoscere l'avventura del Santéin. Basta il vento, giuro. Per carpire l'essenziale." Soquant dì prima ad murir, Sante Pulàstar l'è santà in t'un bar. A s'avsina un ragazòl che al l'à sintì numinar e al la vol tgnòsar. I scambia poc paròl, po al ragazòl al saluta e via che al va. Trent'an dop, cal ragazòl - Luigi Balocchi - l'ha scrit Il diavolo custode. "Sante Pollastro l'hòo cognosùu quand oramai l'era vecc, anzi poco prima che morisse.", al dis al scritor in 'n'intervista. "Gli ho parlato per non più di dieci minuti. Mi gh'avevi derset ann, lui quasi ottanta. Sai, io c'ho buona memoria [...] Per trent'anni ho tenuto questa storia sotto le lenzuola. Poeu l'è vegnùu foeura. E l'ho scritta." E com c'al l'a scrita! Il diavolo custode l'è un rumanz scrit in vers apèna apèna mascarà da prosa. L'è una direzion ch' j'a ciapà anch di àltar, ma Balocch l'è al più riguròs e al più cunvint, e l'è l'unic ch'al drova i vers pari (**), i otonàri tipo Corriere dei piccoli ("Qui comincia l'avventura / del signor Buenaventura..."), po ogni tant al li "ruvina", al li interomp aposta par "scalar la marcia" (sinò l'efèt al stomga). La lengua la squassa e la s'arbalta ad zzà e ad là, e ala fin la torna sémpar ala cantilena, ala zzirudèla, ala filastroca popular, ma dop poc Balocchi al la ralenta o al l'interomp e al rumanz al's distend incora int'la prosa: "Serra il ghigno il bel Santéin. Tace il fiato. Si fa sera. Già che il treno è ormai passato. E ti restano i lampioni. Quegli stessi che han rubato [cambi] prepotenti il perdono delle stelle." Dil volt, invenzi, Balocchi al scala la marcia eliminand 'na silaba e pasand dal'otonàri al setenàri: "Brutto effetto i calci in culo raccattati da bambino [cambi] donati a profusione dal padre alcolizzato." Ot-ot-sèt-sèt. Insoma, l'è un rumanz "a alta vos", da rezitar in public. E infati: scultè.*** Luigi Balocchi è un cultore dei dialetti lombardi, ha tradotto l'Ecclesiaste in abbiatese, organizza corsi e letture pubbliche. Qui adotta un italiano accordato su un dialetto di frontiera, tra Piemonte e Liguria, già un po' Emilia e Lombardia. Quello che avete letto sopra è il mio dialetto nativo, il ferrarese, adattato al discorso con qualche piccola forzatura****. Mi piacerebbe parlarlo più spesso, tenermi in allenamento, ma vivo in un'altra città. In generale, mi incuriosiscono e intrigano tutti i dialetti gallo-italici (piemontesi, liguri, lombardi, emiliani, romagnoli). Anzi, mi incuriosiscono e intrigano tutti i dialetti e le lingue minoritarie della Penisola. Mi affascinano i substrati, le placche tettoniche che scorrono là sotto e smuovono l'italiano nazionale, ne agitano il lessico, ne riempiono di umori la sintassi. All'improvviso, termini locali diventano lingua nazionale, altri invece si inabissano e un giorno torneranno in superficie. L'italiano parlato è una lingua recente, è ancora "sgangherato" da spinte centrifughe, per questo è una delle lingue europee con più sinonimi, nonché quella col turpiloquio più variegato. Nelle città le nuove generazioni vanno perdendo il dialetto, eppure l'influenza di quest'ultimo - la guerriglia, mi viene da dire - prosegue, invisibile, a forzare l'italiano, a scuoterlo, a impedirgli di rallentare, omologarsi, impoverirsi. Da alcuni anni è in corso una nuova offensiva vernacolare. Si va dal fenomeno Camilleri in cima alle classifiche a romanzi come Il diavolo custode, dall'hip-hop in vernacolo alle canzoni di Van De Sfroos, fino al riconoscimento del compianto Raffaello Baldini come uno dei più grandi poeti del Novecento. E ci metterei pure il Nobel a Dario Fo, fosse solo per far ri-incazzare qualcuno. A volte, è vero, si rischiano operazioni "a freddo", che tinteggiano di finto-plebeo una lingua letteratesca e "artificiosamente spigliata". A volte, invece, si ricalca nell'italiano un dialetto impoverito al di là di ogni speranza, pallido riflesso di quel che era. Accade sovente col "romanaccio", usato e rappresentato fino all'eccesso, al logorìo, nei film, nelle ficscion, nelle sitte-comme. [Proprio a partire da questo logorìo, da questo eccesso di rappresentazione, sembra lavorare un autore come Walter Siti, di cui avremo modo di parlare.] Spesso, però, si fanno esperimenti che mettono in gioco l'antico, e cercano di sposare tradizione e innovazione. Lo so, c'è un "elefante in salotto". Il leghismo. La retorica della Lega prevede il ricorso ai dialetti per "buttarla in vacca" e soffiare di mantice sulle braci del "loro-contro-noi", ma appunto, è un ricorso banalizzante e sguaiato, rancoroso e ipoventilato, chiuso al divenire. Alla base c'è un'idea del territorio come "suolo e sangue". E' un uso del dialetto centripeto, non centrifugo. Ci si rannicchia - in provincia - nel mito del villaggio chiuso su se stesso per non affrontare le trasformazioni del mondo, oppure si adotta - in metropoli - una "posa" fatta di smargiassate e due parole ogni tanto: "te capì?", "foeura di ball!", "mai mulà!" e poco altro. E' un errore schiacciare i dialetti gallo-italici (ma pure quelli veneti) sull'uso pietoso che ne fa o finge di farne la Lega. Il dialetto, e in questo caso quel dialetto ("la parlata d'ogni campanile sparso tra l'Alpi e il Po"), è anche la lingua delle storie ribelli, storie di rivoluzionari, anarchici, banditi, operai in sciopero, braccianti che occupavano le terre, gente che lottava per la dignità (e non per il "decoro", sono due cose diverse). Di fronte a un italiano usato per "offrire al comando l'indiscussa, sua perpetua autorità" (lingua che soltanto il maresciallo trovava necessario parlare), il dialetto era "sentimento in contraltare al rigido ceffo del potere sbrodolante divise medagliate". Di quell'attitudine qualcosa rimane, là sotto, e a volte riemerge. Riemerge, come accade in questo libro, felice caso di piena coincidenza tra il come e il cosa. In tempi di canea securitaria, di vandea, di vuota retorica anti-crimine agitata da una classe politica criminale che riproduce modelli criminogeni, l'immaginario collettivo sogna i ribelli, sogna i pirati, sogna un ritorno dei banditi sociali, un "darsi alla macchia" per tirare il fiato, fuori dal recinto della società del controllo. Piena coincidenza tra il chi e il come: il bandito è la metafora perfetta, è il dialetto che non si arrende, va nel bosco e tende agguati ai convogli della lingua "maggiore". Un italiano perturbato, messo in crisi tanto dalla guerriglia dei suoi substrati quanto dalle ibridazioni con le lingue dei migranti, sarà uno dei terreni di scontro fatidici negli anni a venire. [WM1] * L'ennesima "coincidenza" segnalata in questo numero di Nandropausa: Il diavolo custode, oltre ad avere un titolo simile, si svolge più o meno negli stessi luoghi, anni e ambienti narrati in un altro romanzo appena uscito, Al Diavul di Alessandro Bertante (Marsilio, pp. 245, €17). In questa sede non riesco a occuparmene, ma è interessante che, per pura "sincronicità" e all'insaputa l'uno dell'altro, due autori convergano in questo modo. S'intende che i due libri raccontano storie diverse con lingue molto diverse, ma si ha l'impressione che in ogni momento i personaggi possano "sconfinare" e incrociarsi. ** In realtà no, li usa anche Babsi Jones in Sappiano le mie parole di sangue: "Ha un cappello a tesa larga, ha un cucchiaio nella tasca. E' un cucchiaio da zuppa, che gli sporge dalla giacca: gli cadrebbe, perché il manico è rivolto verso il basso; gli cadrebbe, ma la giacca [cambio] che lo strizza è incollata alle sue fasce muscolari neanche fosse una guaina ortopedica." (p. 14) E' però un uso più sporadico, e con altre finalità espressive. *** Luigi Balocchi legge le prime pagine de Il diavolo custode durante la presentazione al circolo ARCI "La Scighera", Milano, 29 gennaio 2008. Mp3 a 96k, 4:15. **** Ad esempio, la parola zensùra l'ho "ricostruita". Non sono sicuro che trovi riscontri nel parlato di oggi; per quel che ne so, anche in dialetto si usa la parola italiana "censura" (e il verbo derivato "censurar"), ma sono risalito all'etimologia latina, al verbo censeo ("valutare, stimare"). Da lì deriva anche la parola italiana "censo", che secondo il Vocabolario Ferrarese-Italiano di Luigi Ferri (1889) si traduce con "zzèns". Dunque "zzensùra" è un termine plausibile. Oggi è caduto in disuso il ricorso alle doppie per rendere la pronuncia dura di una consonante, e quindi: "zensùra". Chi ha avuto difficoltà, può seguire la parte in ferrarese ascoltando l'mp3 (2'15") Note preliminari. Il mio dialetto è quello del Basso Ferrarese, più aspro e duro del vernacolo parlato nel capoluogo di provincia. Alle nostre orecchie, quest'ultimo suona più "italiano" e gentile. Nel Basso Ferrarese è comune l'elisione di alcuni fonemi. La "v" posta tra due vocali, se già a Ferrara è a pronuncia tenue, più a est diventa muta: "lavurar" (lavorare) diventa "laurar"; "nùval" (nuvoloso) diventa "nùal" ; "diàvul" (diavolo) diventa "diàul" etc. In certi casi la "v" è elisa anche a inizio di parola: in dialetto i paesi di Voghiera e Voghenza si chiamano "Ughiera" e "Ughenza". E' inoltre frequentissima la crasi: si noti che dove è scritto "e ad" ho pronunciato "ed", dove è scritto "l'è un" ho pronunciato "lèn" etc. |
€ 19,50 con allegato cd, € 12,50 senza cd Riparto da un'osservazione fatta recensendo L'ottava vibrazione di Lucarelli: |
Non necessariamente tutto ciò che succede nella vita deve significare qualcosa. Succede e basta… Nascere, crescere, espatriare….nel comunismo o nel capitalismo la cosa più importante è essere pronto ai cambiamenti. Questa è la dialettica della vita e magari crescendo in un sistema comunista dove la "bibbia" è il materialismo dialettico, per me è stato facile adattarsi ai cambiamenti senza grandi fatiche. Con questa intendo i cambiamenti nel modo di vivere e pensare che forse più che il regime in quale cresci, riguardano l'apertura mentale della persona. … essendo un'artista cerco di stare sempre lontano da tutto ciò che fa parte alla politica. Però, cerco soltanto perché è quasi impossibile come è impossibile che io cancelli tutto ciò che ho vissuto durante il comunismo. Allora porto con me le cose in cui credo veramente... I valori sono sempre valori anche se vengono portati dal "comunismo". Anilda Ibrahimi, da un''intervista rilasciata al sito Arbitalia, La Casa degli Albanesi in Italia. Le prime pagine della prova d'esordio di Anilda Ibrahimi,
albanese, nata nel 1972, trasportano in un universo arcaico, lontano,
un mondo di montagne, cieli vertiginosi, ponti di pietra su torrenti
impetuosi, uomini e animali dentro cicli immutabili, un mondo
patriarcale, retto da leggi non scritte, da consuetudini e modi che
sembrano inattaccabili. Eppure la storia non manca di toccare Kaltra,
villaggio nel sud dell'Albania, che si chiama come il colore del cielo,
o dell'acqua di sorgente. Dai tempi di re Zog I alla comparsa degli
italiani, ai tedeschi, alla lotta di resistenza e all'avvento del
comunismo: si tratta, né più né meno, di una saga familiare, quattro
generazioni a passarsi il testimone, annodate dalla figura della
matriarca, Meliha, e da Saba, madre dell'io narrante della seconda
parte, quella che avvicina ai giorni nostri e alle tematiche della
storia recente che legano Albania e Italia. |
Il sindaco V. vuole sgomberare i seimila abitanti di Corviale, che ha subito danni strutturali, in una tendopoli a Cinecittà, proprio di fianco a un grande centro commerciale. Non è il migliore dei piani. Scoppia la rivolta, come c'era da aspettarsi. Black Bloc e donne velate, hippoppettari e massaie corvialine, riot grrrls fuori tempo massimo, rasta, coatti di quartiere, compagni. Partono cinque giorni deliranti. Ricordo la frustrazione adolescenziale dello specchiarsi nelle vetrine e vedere che non si è vestiti nel modo giusto, che non lo si può essere. Infiniti episodi di violenza urbana hanno la radice in questo fondo emotivo. Merci attraverso vetrine, imprendibili, oggetti che consentirebbero una forma momentanea di riscatto. Protesi contro l'impotenza, palliativi contro il disagio, effetto placebo sociale: la chiave del grottesco, dello smisurato, del deforme, se giocata con misura, sembra essere uno dei modi più efficaci per raccontare la quotidianità di questo paese, in questo momento storico, purché venga espunta ogni tendenza dolciastra, felliniana nel senso deteriore del termine, e purché si presti una cura iperrealista alla descrizione di volti, oggetti, contesti, parole, modi. In altre parole, non occorrono giochi di specchi per scoprire la deformità nella vita di tutti i giorni. Basta essere moderatamente lucidi e attenti. La deformità del paese, in più, non si è prodotta ora. E' risultato degli ultimi venticinque anni di storia. In questo romanzo, davvero, manca solo la giraffa che si suicida buttandosi dalla finestra di un edificio in fiamme. Eppure qui c'è il quotidiano, qui ci siamo noi come comunità, di fronte a una impasse storica che chi è nato e vissuto in un quartiere di periferia, come me, può interpretare come invito alla rivolta, anche senza futuro, purché divertente. Del resto anche l'edificio-simbolo da cui parte la vicenda del romanzo è immediatamente grottesco. Un edificio lungo un chilometro, epitome del disagio da metropoli, mutazione italica di concetti funzionalisti. Si dice che la presenza di Corviale alteri il flusso dei venti in tutta la città, che impedisca al ponentino di spirare. Di certo vivere in simili contesti – ma anche in periferie "illuminate" come la Barca, da cui provengo, cantata dagli Scritti Politti in Skank Block Bologna, o nel grigiore da hinterland che Philopat conosce bene – altera la prospettiva, la rende angusta, oppure spinge all'apertura, instilla in chi ha avuto la forza o la fortuna di guardare dietro l'angolo voglia di ribellione, di libertà, di fuga. Se c'è una cosa quindi che traspare da quest'ultimo lavoro di Marco Philopat e del Duka – vera e propria memoria storica che ha attraversato decenni di movimento e di street life romana- è il materiale di cui siamo fatti tutti, noi che apparteniamo a generazioni vicine. Cascami di ideologie, assemblaggi di stili di strada, drammi e farse, oggetti d'uso, oggetti di culto, nomi di atleti e attori, droghe, l'idea del viaggio come ombra del quotidiano difficile, una tendenza allo stoicismo coniugata con la pulsione forte, vivida, potente al consumo, all'edonismo, al piacere, al dandismo da poveri, da classe operaia, l'idea che è possibile non fare un cazzo e vivere felici, anche se questa cosa poi è uno sbattimento infernale. Attorno alle storie del Duka, che coprono vicende lontane, disparate, eppure risonanti – la nascita del tifo organizzato nella curva romanista, i primi rave party a Ibiza, il punk e la new wave, il Chiapas pre-insurrezione, Amsterdam, i Paesi Baschi - si snoda una vicenda urbana contemporanea, appena oltre il plausibile, risolta con efficacia, divertente, agevole, popolare nella migliore accezione del termine. Il rischio del reducismo è presente, ma viene dribblato agilmente, con un tocco da futebol bailado sudamericano, perché la storia tiene, le storie del Duka sono impagabili – vedi quella del Punk Secco e della corsa di carrelli da supermercato, o l'incontro con i casseurs nella Parigi dei rifugiati politici italiani - e i personaggi, specie il giornalista free lance ex-compagno e pusher di coca (e anche un paio di presenze femminili) sono ben delineati, calati nella realtà, credibili. [WM5] LINK Il blog di Agenzia X WM1, recensione di La banda Bellini WM1, recensione di I viaggi di Mel WM5 e WM1, recensione di Costretti a sanguinare e Lumi di Punk |
"Non riesco ad ascoltare Wagner tanto a lungo. Dopo un po' mi viene voglia di invadere la Polonia". E' una celebre battuta di Woody Allen, densa e folgorante. L'allusione è chiara: la musica di Richard Wagner
- colonna sonora prediletta dei crimini nazisti - è stata per molto
tempo proibita in Israele. Nel 2001 il pianista e direttore d'orchestra
Daniel Barenboim ruppe il tabù e le reazioni
furono violente, si discusse a lungo, si riaprì il dibattito su "Wagner
precursore del Terzo Reich". Intervennero intellettuali prestigiosi, Edward Said
difese la scelta di Barenboim e scrisse che la musica di Wagner ("ricca
e straordinariamente complessa") andrebbe in parte separata dal suo
compositore ("personaggio oggettivamente ripugnante"). Vecchio e
irrisolvibile dilemma, il rapporto tra autore e opera. |
Ho avuto una carriera universitaria incompiuta e tardiva, ma ricca di spunti di riflessione. Quando lessi le pagine foucaultiane riguardo al ghetto infantile, cioè la somma di proiezioni culturali degli adulti che definisce lo status del bambino, ricordo che fui molto colpito. E' da allora, molti anni fa ormai, che porto avanti a spizzichi e bocconi una mia riflessione su quel tema. Ricordo ancora bene come mi sentivo attorno ai nove-dieci anni, nella periferia bolognese dei Mid-Seventies. Pensavo che i grandi non avessero niente più di me, se non i soldi e la macchina, ed ero convinto che la maggior parte delle regole che mi venivano imposte fossero assurde. E' un punto di vista manicheo e interessante. Molti dei miei personaggi non sono mai usciti da quel punto di vista. Il punto di vista era complicato dal fatto che l'assurdità delle regole che reggevano quel mondo non lo rendeva meno desiderabile. Essere grandi, più grandi, anche di sei mesi, di pochi giorni: essere piccoli faceva schifo. C'è un pezzo su un album dei Byrds che parla delle cose che uno conosceva bene quando era giovane, e della necessità di tornare a quelle sensazioni. Quando ero molto giovane, quand'ero bambino sapevo un sacco di cose che mi sono tornate alla mente leggendo La Casa Madre, di Letizia Muratori. Immaginare è una forma di felicità che prolunga la gioia fisica del sentire. Quando ciò che si sente non è gioia, l'immaginazione diviene dolorosa. Il gioco è immaginazione, in senso letterale: accostare immagini mentali fino a formare un'immagine complessiva. E' una trama di corrispondenze che prende vita e densità, un mondo interiore attraverso il quale ci si muove come in un ambiente fisico. Questa è la sostanza non-materiale del gioco. Al centro del primo dei due racconti che compongono La Casa Madre c'è la vicenda di Irene, una bambina alle prese con uno degli oggetti cultuali tipici delle bambine degli anni '80, oltre che con una triste implosione familiare. La bambola Cabbage Patch era un essere nato in un campo di cavoli, che la Casa Madre dava in affidamento a bambine (e bambini) sparsi in tutto il mondo, con la raccomandazione di comportarsi da vera madre. Il gioco, per Irene, è totalizzante. Tutti i giochi infantili lo sono. E' una replica il più possibile fedele del mondo degli adulti, così come è veduto e compreso da una bambina di sette anni. La madre soffre di depressione. Il padre torna a casa, dopo una separazione. La vicenda infantile si snoda al collegio del Sacro Cuore di Gesù, dove Irene è costretta, e dove il gioco di essere madre è il centro della vita sociale delle bambine, tutte madri di altrettante Cabbage Patch. Il tema della segregazione scorre come un fiume carsico nelle pagine che vedono le bambine protagoniste. A ben vedere anche la condizione psicologica della madre è una forma di segregazione, e anche il rapimento che viene inscenato ai danni di una delle bambole di pezza è il trasferimento di quella condizione su uno dei corpi inerti, industriali, che catalizza l'attenzione e la spinta affettiva delle giovani ospiti del collegio. Muratori organizza la narrazione addensandola attorno a nuclei emotivi che declinano in maniera abile e spiazzante una serie di topoi. Il Parto, L'Arrivo in Classe del Bambino Nuovo, Il Gioco Cattivo ordito ai danni di una compagna, il Viaggio Iniziatico attraverso il corpo della città, Il Ritrovamento del Bambino Disperso, in questo caso di pezza. Tappe di un breve romanzo di formazione che conducono la piccola protagonista al trauma annunciato del finale, attraverso pagine di grande efficacia. La lingua di Muratori è limpida, la mimesi del linguaggio infantile non è mai stucchevole, alle volta la prosa assume consistenza aforistica, l'uso delle metafore è, tratto tipico del lavoro dell'autrice, immaginoso e personale. Il secondo racconto è contemporaneo, è ora, e il protagonista è un bambino, un piccolo maschio. La forma totalizzante del gioco non ha a che fare con una replica del mondo degli adulti, ma con la magia, e il corpo del desiderio non è una bambola di pezza, ma il corpo estetizzato e culturale delle prostitute. Da autore, confesso che mi piacerebbe riuscire a trattare una voce femminile con la stessa sicurezza con la quale Muratori tratta il flusso di coscienza di un maschio preadolescente. L'identificazione è totale, commovente. Nella pineta dietro la casa delle vacanze Luca scopre che le fate, le Winx dei cartoni animati, esistono davvero. E poiché per passare il tempo con loro occorre pagare, Luca intraprende varie forme di commercio. Occorrerà poi un intervento deciso, quintessenzialmente maschile per salvare una delle Winx da un nemico crudele. Un finale anticlimatico, magistrale, interromperà la missione. Anche qui un utilizzo sapiente dei luoghi letterari. Il Mondo Nascosto Vicino Casa, Il Piccolo Commercio Infantile, quasi dickensiano, la Quest cavalleresca. Il mondo di Muratori è vivido, convincente. La sua prospettiva non è mai scontata, e il lettore arriva alla fine con la voglia di leggere ancora, di essere destabilizzato, colpito, reso malinconico ed euforico, catartizzato. Detto in breve, La Casa Madre è senza dubbio un'ottima prova. [WM5] LINK WM1, recensione di La vita in comune |
Gli interessi in comune è un romanzo a episodi. Ogni episodio è incentrato su una sostanza psicoattiva, consumata da un gruppo di giovani del Valdarno, provincia di Firenze. Cannabis, Diazepam, Sesso, Mdma e via sniffando. Ogni episodio è come una ballata, una piccola leggenda surreale e grottesca, e tutti insieme formano una chanson de geste lunga dieci anni, il cui tono complessivo è invece struggente e malinconico. A cucire insieme le diverse puntate, i diversi deliri, ci sono capitoli molto brevi, spesso di solo dialogo, dedicati a personaggi e comparse, come fulminanti carte d'identità. Credo che tirare subito in ballo i manifesti generazionali, il nichilismo e la vita di provincia sia il peggior servizio che si possa fare a questo romanzo. Magari può tornare utile a vendere più copie - qualche adulto che vuol vedere come stanno i gggiovani, qualche trentenne nostalgico, qualche adolescente in cerca di una nuova "Siamo solo noi" - ma certo non fa bene all'autore e non rende giustizia al suo sforzo narrativo. Vanni Santoni gioca fin dall'inizio con l'ovvia lettura sociologica del suo testo (e forse con le sue stesse tentazioni). Spesso i protagonisti parlano della necessità di scrivere un manifesto, che alla fine prende corpo e diventa l'incipit del romanzo - in un meccanismo di anticipazione che trasforma i vari episodi in altrettanti flashback. E' Iacopo, il vero leader del gruppo, a scriverlo e stamparlo in mille copie. Vorrebbe tappezzarci la città, Firenze, ma si arrende al decimo foglio A4 e gli altri novecentonovanta li conserva per ricordo. E già questo basterebbe come presa di distanza, netta e (auto)ironica, tanto dal "guarda come stiamo" che dal "come eravamo". Un altro fossato l'autore lo scava con la lingua: un gergo giovanile risciacquato in Arno che riesce ad essere, allo stesso tempo, credibile e straniante: dal Bar Sport al Decameron in cinque parole. Ecco perché, allo scopo di valutare al meglio questo romanzo, propongo un esercizio: immaginiamo che il libro descriva un gruppo di giovani sui generis e che non esistano, su e giù per la Penisola, migliaia di compagnie simili, tenute insieme dal solo interesse comune di sperimentare alterazioni di coscienza, sballi, sostanze. Immaginiamo che nessun altro ventenne di questo paese si comporti in quel modo: se il libro regge anche così, la sua (innegabile) portata sociologica diventa un asso nella manica, un vantaggio in più, e non una scusa per parlare di tutto tranne che di narrativa. Ebbene, fatta questa operazione, il romanzo di Santoni appare come una sorta di poema omerico, e per vari motivi. In primo luogo, per la sua natura di corpus mitologico, dove diverse leggende popolari vengono integrate, trasformate e tenute insieme da un'unica cornice. Lo stesso gruppo di amici - spesso in formazione ricombinata, come gli Achei nei diversi episodi dell'Iliade - vive qui una sequela di peripezie, basate senz'altro su racconti, aneddoti, voci, sospesi tra realtà e fiaba, tra storia orale, memoria e mito. Questo continuo dialogo tra scrittura e vox populi, tra scrittore e cantastorie è uno degli aspetti più interessanti dell'intero lavoro. Poi c'è la dimensione del viaggio, sia geografico che psichico. Più che un romanzo di formazione, quello di Vanni Santoni è un romanzo d'avventura. Le esperienze tossiche dei protagonisti sono le tappe di un'Odissea, ciascuna con un suo significato peculiare, e senza che Itaca compaia mai all'orizzonte. Non c'è un unico, retorico filo rosso che le tenga insieme: ribellione o nichilismo, evasione o psiconautica, curiosità o sballo. In fondo sono soltanto questo: un interesse in comune. Come tifare in curva, ma meno ripetitivo. Come suonare in una band, ma più rischioso. Infine c'è il farsi e il disfarsi, la manutenzione e il riciclaggio di una piccola comunità, una sgangherata compagnia di giro, a volte luogo di affetti e àncora di salvezza, altre semplice comitiva in viaggio, giovani maschi finiti per caso sullo stesso torpedone, che si chiami LSD o Amsterdam, Firenze o eroina. Gli slanci di grande amicizia e il menefreghismo più odioso, i goffi tentativi di prendersi cura l'uno dell'altro e l'incapacità di voler bene anche solo a sé stessi. Questo è un libro che sotto la patina comica, scanzonata, da stornello in osteria, sa mettere sulla pagina le emozioni, spesso contraddittorie, che animano e guastano i rapporti tra le persone. Peccato che il paratesto metta in ombra tutto questo e punti con forza sulle solite parole d'ordine: dal risvolto, che parla di generazione, adolescenza, voglia di fuga, all'ignobile copertina - un primo piano psichedelico dell'autore - che sembra voler chiudere il libro in un'angusta e stucchevole prospettiva di pura e semplice autofiction. [WM2] LINK Il blog di Vanni Santoni Il sito di Scrittura Industriale Collettiva |
Forse, alla buon'ora, volge al termine l'epoca in cui editori stolti si rifiutavano di pubblicare un libro nel caso questo fosse già scaricabile in rete, come se il download, anziché favorirle, potesse interferire con le vendite in libreria (antica credenza oscurantistica, ancora presente nelle énclaves più arretrate dell'industria culturale). La casistica dei dinieghi è più ricca e variegata di quel che si potrebbe pensare, tra i libri a farne le spese anche opere pregevoli, come Eroina di Lello Voce (in seguito riedito all'interno de Il Cristo elettrico, No Reply, 2006). Tuttavia, non siamo qui per mettere alla gogna chi non sa fare il proprio lavoro: la lunghezza della gogna eccederebbe quella della Penisola. No, siamo qui per segnalare gli esiti di un progetto, Vibrisselibri, avviato nel 2006 dallo scrittore Giulio Mozzi, progetto che scommetteva su un percorso a tre tappe: scoperta di nuovi autori e libri; pubblicazione e valorizzazione in rete; ricerca di editori disposti a proporli su carta con tutti i crismi e le garanzie. Una sfida all'industria del libro, un invito a tirar fuori gli attributi. Bene, la ruota gira nel verso giusto, la sfida viene raccolta. Per il piccolo e intenso bildungsroman di Monica Viola - fra i primissimi titoli pubblicati on line - si è fatta avanti la Rizzoli, e ora eccolo qui, Tana per la bambina con i capelli a ombrellone. Si è già scritto molto di questa cavalcata lungo l'infanzia e l'adolescenza di una ragazza romana, dalla fine degli anni Sessanta alla prima metà degli Ottanta. Una bambina in perenne carenza d'affetto, che iper-compensa il sentirsi inferiore a suon di invadenze e impacciati protagonismi. Non a caso il suo nomignolo è "Appiccicume". In diversi hanno posato l'accento sulle violenze al corpo e all'anima, sull'incesto e gli abusi sessuali, sul tessuto cicatriziale lasciato da quelle esperienze. Sono pagine forti, quelle in cui Appiccicume - profilo incerto tra Lolita e anatroccolo - è sballottata tra i pompini ai fratelli maggiori e gli sbotti di collera di un padre inadeguato a tutto, sotto i radar malfunzionanti di una madre che ha troppi figli e di una nonna materna chiusa in un sarcofago di sordità e ricordi esotici (personaggio bellissimo, quest'ultimo). Altri sguardi sul libro hanno messo a fuoco il fondale che incombe - e sovente precipita - sulla storia: l'Italia del boom che finisce, dell'austerity che arriva, della politica che diviene feroce (e a un certo punto fischiano proiettili e muore pure qualche amico), dei branchi di fascisti modello Circeo o, secondo alcuni (e a dire dello stesso Pino Pelosi), modello Idroscalo di Ostia. Tutto vero, c'è questo e c'è quello. C'è la deflorazione a opera di un fratello maggiore (con fatalistico consenso e torpida iniziativa di Appiccicume) e c'è l'attentato neo-fascista al magistrato Vittorio Occorsio, 10 luglio del '76. C'è lo stupro di gruppo sfiorato per un pelo e c'è l'assassinio da parte dei NAR di un giovane militante di Terza Posizione accusato di essere un "infame" (episodio di una faida interna alla destra armata, speculare ad altre faide in corso a sinistra, nelle carceri speciali). C'è anche molto altro, però. Ad esempio, c'è un frizzante compendio di etologia umana, che farebbe la gioia del compianto Konrad Lorenz e dialoga a distanza con certe pagine su amore e odio scritte da Irenäus Eibl-Eibesfeldt. La bambina coi capelli a ombrellone descrive "da dentro" comportamenti che mai come nell'adolescenza si mostrano leggibili: indica strategie di sopravvivenza e adattamento dell'individuo a branchi (gruppi di amici) soggetti a rapidi mutamenti, e racconta le inquiete ritualizzazioni tipiche dell'adolescenza. Da ragazzi si ritualizza la fuga (ci si allontana per essere inseguiti, tanto nelle fughe da casa quanto nella "civetteria" dei flirt e dei corteggiamenti, fino all'estremo di appariscenti tentativi di suicidio per chiamare l'attenzione) e si ritualizza l'aggressività (è il periodo della vita in cui assumono massima importanza il "piumaggio" acceso del singolo e i "colori di guerra" del gruppo). La parte più toccante del libro è la lenta, tenace risalita della protagonista, che supera traumi e problemi facendo lo slalom tra perdite gravi (agonia e morte della madre) e conquiste che, realizzandosi, la svuotano. L'affannato e tremulo assedio a Marco (anzi, MARCO, tutto maiuscolo), il grande oggetto d'amore, sfocia in una vittoria, ma già due capitoli dopo Appiccicume scrive: "Ora che l'ho acquisito, l'ho anche consumato un po'. E' la mia sicurezza ma da quando ho portato a casa il punto ho perso motivazione. E' la pillola salvavita ma non mi basta più, voglio oltre, devo oltre". Tale "oltre" finirà per collocarsi, almeno per qualche tempo, a Londra, la Londra dei languori New Romantic, degli Spandau Ballet e - specialmente - dei Duran Duran. 1983-85, la nuova ragione di vita è incontrare e conquistare John Taylor, bassista bel-tenebroso della band di Girls on Film. Per implausibile che possa sembrare, questo capriccio frivolo, quest'ultima mattana, è il culmine del processo di emancipazione. La bambina coi capelli a ombrellone, tra bruschi scarti e paradossi, si è allontanata dalla tana. Altre la guardano, lei sorride, alza le spalle e indica la via. Tana libera tutti! [WM1] [Apparso su "L'Unità" del 20 febbraio 2008] LINK Il sito ufficiale di Monica Viola |
Tasca di pietra è un romanzo sorprendente. Innanzitutto perché l'autore - ventisei anni, al suo esordio sulla lunga distanza - dimostra un controllo di lingua e struttura degni di un veterano. E non lo fa su un terreno sicuro, facile da esplorare, ma confrontandosi con una protagonista femminile, inglese, madre di due figlie, moglie di un marocchino e trapiantata a Bologna. Come se non bastasse, il racconto è in prima persona, la voce narrante è quella di Helen Taylor, siamo sempre dentro la sua testa e per di più la sua testa ha qualcosa che non funziona. Non che sia matta, Helen, e nemmeno ufficialmente depressa. Di sicuro sull'orlo di una crisi di nervi, ma un orlo ben largo, un crinale ampio e comodo, dove molti altri passeggiano tranquilli per tutta la vita. A patto di fissare l'orizzonte, senza sporgersi a guardare giù, ci si può addirittura godere il paesaggio. Niente a che vedere con le donne isteriche, capaci soltanto di sbraitare, che popolano le fiction televisive e i film di Muccino. Qui piuttosto abbiamo una versione al femminile di Meursault, lo straniero di Albert Camus, e il parallelo, si parva licet, regge anche oltre l'identità psicologica dei due personaggi. Non a caso l'azione principale del romanzo si svolge in territorio francese, a Perpignan, durante un lungo viaggio in auto da Bologna al Marocco. Non a caso è un fatto di sangue, assurdo e improvviso, a innalzare lo spartiacque nella trama, nella vita di Helen, nel tono della narrazione. Solo che il corrispettivo dell'omicidio sulla spiaggia, nel romanzo di De Simone diventa un episodio criminale enorme, tragico e carico di angoscia e la protagonista ha il ruolo di vittima e di sopravvissuta, non di carnefice. Gli stranieri uccidono l'arabo, la tasca di pietra si rompe ed Helen, al cospetto del vuoto, inizia a precipitare. Proprio in questo passaggio si fa notare l'abilità dell'autore, che riesce a far irrompere il thriller, con tutti i crismi del genere, ma limitandolo ad alcune scene soltanto, senza che la mossa sbilanci l'intero racconto o inneschi nel lettore una crisi di rigetto. Passata la tempesta, l'atmosfera rimane tesa, allucinata e surreale, ma l'azione, dopo quel picco altissimo da film di rapina, torna a ruotare intorno a Helen, che per la prima volta nella vita deve farcela da sola, affrontare la vertigine e scendere dal suo crinale senza schiantarsi. A metà del precipizio, non si può tornare indietro e in questo, anche il finale di Tasca di Pietra può ricordare Lo straniero, anche se non c'è la tenera indifferenza del mondo, ad abbracciare la protagonista, e nemmeno le grida di odio di un pubblico, a farla sentire meno sola. Di fronte a un esordio del genere, dispiace che la maggior parte dei giornalisti culturali abbiano segnalato il libro solo per l'originale iniziativa ad esso collegata. Tasca di pietra ha avuto una prima tiratura di mille copie, numerate e siglate a mano da Matteo De Simone, con copertina bianca. L'editore ha lanciato un concorso per disegnare l'immagine della prossima edizione. Il concorso si è concluso a gennaio, e i lavori dei vincitori, alcuni davvero pregevoli, si possono vedere sul sito di Zandegù. Non sappiamo se la nuova edizione sia già in libreria. Vale la pena informarsi. Questo romanzo merita molto più di mille lettori. [WM2] |
Questo numero di Nandropausa è dedicato a Giuliano Bruno, che nessuno di noi ha potuto difendere. A Giuliano, sapendo che come lui cadranno altri. Straziati dal Paese Semplice. Chiuso in redazione alle ore 14.00 del 15 giugno 2008 |