00. Preambolo 01. Andrea Camilleri, Privo di titolo, Sellerio [WM1, WM4, WM5] 02. Ashley Kahn, A Love Supreme, Il Saggiatore [WM1] 03. Gian Carlo Fusco, Duri a Marsiglia, Einaudi [WM4] 04. Igino Domanin, Gli ultimi giorni di Lucio Battisti, Pequod [WM1] 05. Piersandro Pallavicini, Atomico dandy, Feltrinelli [WM1] 06. Robert Graves, Addio a tutto questo, Piemme [WM4] 07. Sergio Bianchi, La gamba del Felice, Sellerio [WM1] 08. Mario Boffo, Femmina strega, Nuovi equilibri [WM5] 09. Gianni Biondillo, Con la morte nel cuore, Guanda [WM1] 10. Feedback: Scott Ronson su Endrigo e Quadruppani 00. Preambolo Puntuale come sempre, l'ottavo numero di Nandropausa, web-zine semestrale dedicata ai nostri consigli di lettura. Al solito, il disclaimer: questa non è né potrà mai essere una panoramica esaustiva su quanto di interessante si è pubblicato in Italia negli ultimi mesi. Siamo cinque esseri umani che leggono per diletto quando hanno il tempo e la forza di farlo, e il criterio con cui scegliamo che libro leggere è un non-criterio, dipende dai tiramenti di culo del momento. Non segnaliamo un titolo perché si deve, perché tutti ne parlano etc. D'altro canto, il fatto che non ne parliamo non significa che non valga la pena leggerlo. Semplicemente, noi non l'abbiamo (ancora) letto. Su Nandropausa, salvo alcune eccezioni (sassolini tolti dalle scarpe o perplessità da comunicare), segnaliamo libri che ci sono piaciuti davvero. Non abbiamo debiti da pagare (in ogni caso, non è così che li pagheremmo) né dobbiamo "tener buono" alcuno. Se tra gli autori recensiti figurano nostri amici, è perché abbiamo apprezzato i loro libri. Se il libro non ti è piaciuto o non lo hai letto con la dovuta attenzione, niente commento, nemmeno se l'autore è tuo gemello siamese. Non segnalare un'opera meritevole per mere questioni di galateo e paura delle malelingue sarebbe un errore più grave. Quanto alla malelingua, sta bene ficcata nel culo di chi le fa proferir verbo. I libri non sono in ordine di gradimento, questa non è una "classifica", sono tutti ex aequo. Su Nandropausa recensiamo solo narrativa, al massimo biografie o inchieste, ma solo se hanno un taglio narrativo. Non siamo critici letterari né intendiamo diventarlo. I nostri sono [Meyer Lansky:] consigli da amici [/Meyer Lansky] Rare eccezioni a parte, su Nandropausa commentiamo solo libri in catalogo e non introvabili. Vi lasciamo con un pensierino: il Paese sta facendo inversione a U. Di nuovo in prima linea, a combattere limpide battaglie di retroguardia. Su Nandropausa #5, sfidando l'opinione di molti, definimmo La presa di Macallè il miglior romanzo di Camilleri. In realtà no, lo definimmo "capolavoro", ma nel frattempo è diventata parola-tabù, pare non sia fine dire che un romanzo italiano è "la migliore opera di un artista" (Zingarelli, def. 1), "opera eccellente nel suo genere" (Zingarelli def. 2), "manufatto eseguito da un operaio o da un artigiano per dimostrare il grado di abilità raggiunto[...]" (Zingarelli, def. 3). Perdipiù, a tanti quel libro non piacque: troppo duro, nero nero, scabroso, scritto in una lingua irta di spuntoni. Libro acre, di un maturo che pareva acerbo, e ai lati della lingua sentivi pizzicore. Metteva insieme fascismo e sessualità dei bambini, fallocrazia e pedagogia "spartana", carne e metallo (come nel ciclo western di Evangelisti)... Reich e Collodi. Il cazzo duro di Michilino è un rovesciamento del naso lungo di Pinocchio: è enfio delle bugie altrui, corpo cavernoso irrorato col sangue sparso dal regime, non a caso Michilino si eccita della propria fede fascistissima e ha nerbute erezioni ascoltando i discorsi del Duce alla radio. Delle donne gli frega quel poco, si chiava la cugina più grande ma non sente quasi niente. Intanto, lo prende nel culo dal precettore. Il tutto sullo sfondo della guerra d'Abissinia, quella degli attacchi coi gas tossici, degli sterminii. Chiaro che 'sta roba sia parsa eccessiva agli spettatori delle fiction montalbaniane con Zingaretti. Molti, poi, non hanno capito che quel romanzo parlava di oggi. Usare la narrativa per strappare o almeno "smagliare" il tessuto di balle e mezze verità dei poteri, dare sepoltura ai miti marciti in terra sconsacrata. Privo di titolo (romanzo che ha fatto incazzare diversi esponenti di AN) è il capitolo successivo, l'indagine continua. Negli ultimi decenni, l'immagine del fascismo come figlio dell'Italietta che tira a campare, regimetto velleitario in fondo meno peggio di altri che gli furono coevi, e a tratti persino meritevole di gratitudine (le bonifiche etc.) è servita a rendere opaco il quadro, a sminuire i crimini contro l'umanità perpetrati da Mussolini e i suoi scherani. Se il fascismo era ridicolo e kitsch, con quella mania dell'antica romanità, suvvìa, non poteva essere tanto pericoloso, questa è materia da barzellette. Il Duce era soprattutto uno che gli piaceva la gnocca e aveva trovato un modo per farsene a vagoni, poi ha dato retta a Hitler e s'è fatto strascinare in una cosa più grande di lui, ma vabbe', chi è senza peccato scagli la prima pietra, c'era mica bisogno d'infierire a quel modo, in Piazzale Loreto... Camilleri ha la capacità di infilare la penna nelle pieghe della quotidianità fascista, e dimostrare in modo impietoso che queste sono abnormi cazzate. La cialtroneria e il velleitarismo, il kitsch e la mancanza di senso del ridicolo sono elementi tipici di ogni regime, e più in generale del populismo all'italiana. E' la nostra borghesia a essere cialtrona, ignorante, velleitaria e kitsch. Tutto ciò non ridimensione affatto le vessazioni, i soprusi, la violenza criminale: rende anzi il tutto più odioso. Quale migliore esempio del culto per il "primo martire fascista" Gattuso/Grattuso? La turpe realtà di una spedizione squadristica viene rovesciata nella costruzione mitica a cui partecipano tutti i poteri costituiti, l'aggressore diventa vittima, la vera vittima diventa capro espiatorio, e parte l'orgia kitsch di processioni, parate, vaneggiamenti toponomastici, monumenti inaugurati. La vicenda s'incrocia con quella di Mussolinia, città mai esistita se non in fotomontaggi, della quale il Duce posa la prima (e unica) pietra, durante una visita in Sicilia fatta in prescia e di malavoglia. In realtà Achille St@race (segretario del PNF e definito dallo stesso Duce "un cretino ubbidiente") raccomandava alla stampa di non usare mai l'espressione "la posa della prima pietra", tipica dell'Italia prefascista: il fascismo non posa la prima pietra, ma dà "il primo colpo di piccone: annunzio dinamico e concreto" (disposizione del 24 settembre 1938). Bene, ecco il nostro annunzio dinamico e concreto: questo di Camilleri è un gran bel colpo di piccone, e da solo manda in pezzi l'edificio del "martirio fascista". [WM1] Non credevo che Camilleri sarebbe riuscito a fare un bis altrettanto potente. Invece dopo La presa di Macallè ci regala un altro squarcio sulla Sicilia degli anni Venti, se possibile ancor più esilarante e violento. Ripescare storie di quella terra e di quel periodo - il fascismo colto alle origini, nel passaggio da movimento a partito, e dall'opposizione al governo - ha un senso ben preciso ed evidente. Quella terra quasi africana, dove iniziano le carriere di gerarchetti ridicoli e arraffoni, pronti alla scalata ai ranghi del regime, non è altro che l'Italia di oggi. Una nazione da operetta con il finale tragico (ma non serio), fottuta da un tipetto pelato e dalla sua corte di scherani cialtroni, con la stolta complicità di mezzo paese e forse più. E' la storia che si ripete in farsa. Leggendo Privo di titolo è facile ridere forte e ridere amaro. Ma soprattutto si volta l'ultima pagina con la sensazione che per impedire certe coazioni a ripetere c'è ancora uno sforzo improbo da compiere. Qualcosa di talmente radicale da estirpare appunto una radice antica e profonda, ben salda nel dna culturale di questo paese. Ci vuole il coraggio di voltarsi indietro e da quel baratro riesumare storie dimenticate, piccole o grandi, che sbattano in faccia al presente la sua miseria. Camilleri è uno di quelli che ci riesce, con una leggerezza e un'ironia rare (soprattutto perché sono tempi in cui è difficile mantenere l'una e l'altra). E regolarmente ci lascia con la voglia di leggere il suo prossimo romanzo. [WM4] Per non lasciarmi andare a lodi sperticate dirò subito quello che non mi è piaciuto del tutto nell’ultimo Camilleri. Mentre La presa di Macallè piegava la lingua camilleriana a esigenze introspettive, psicanalitiche, profonde e carnali, e rendeva alla perfezione una delle preoccupazioni del libro - il ghetto dell'universo infantile, che è costruzione ideologica degli adulti, è un luogo eminentemente tragico -, il metasiciliano di queste pagine appare alle volte limitato, quasi stereotipato. Ma queste sono stantìe preoccupazioni da addetto ai lavori: è che la vicenda di Privo di Titolo è tutta pubblica, e Camilleri è in grado come sempre di inanellare una sfilza di caratteri e personaggi vividi ed esemplari. Nella notte del senso che questo paese sta attraversando, le scelte dell'ultimo Camilleri appaiono in netta controtendenza. L'idiozia, la violenza, la mistificazione che regnano sovrane nella Sicilia del ventennio parlano, ancora una volta e con tutta evidenza, dell'oggi. [WM5] "Ondate di pensiero - Vampate di calore - Tutte le vibrazioni - Ogni sentiero conduce a Dio (...) Un pensiero può produrre milioni di vibrazioni, e tutte tornano a Dio". Non è la predica di un televangelista, è il brano di una lunga dedica-preghiera, inusuale paratesto per un album jazz che scavalcava il jazz, andava oltre i pur vasti confini della musica afro-americana, abbracciava l'universo e ancora oggi continua a muoversi e andare lontano, sonda lanciata nello spazio che esce dal sistema solare, va a perdersi nel cosmo ma fino all'ultimo invia dati e segnali alla Terra. Parliamo di A Love Supreme, opera tra le più influenti del XX° secolo, album inciso da John Coltrane col suo "quartetto classico" (McCoy Tyner al piano, Jimmy Garrison al contrabbasso, Elvin Jones alla batteria) il 9 dicembre 1964, nello studio di un mago dei suoni quale era Rudy Van Gelder. Un album che contiene mondi, poema sonoro panteista che stupisce a ogni ascolto, parla di una missione, di un percorso accidentato di prove, tribolazioni, verifiche della fede. Il percorso di Trane, i quaranta giorni nel deserto, la disintossicazione dall'eroina. Viaggio iniziatico in quattro tappe: Acknowledgment ("riconoscimento", "presa d'atto"), Resolution ("decisione"), Pursuance ("adempimento", "messa in pratica") e Psalm ("salmo"). Registrazione di un'esperienza pentecostale che sfocia nella xenoglossia, il "parlare in lingue" degli Apostoli toccati dallo Spirito Santo. La musica come lingua universale. Quando, al termine di un'esibizione, qualcuno si avvicinava a "Trane" e gli diceva: - Sei stato grande! - lui, perenne indagatore, chiedeva - In che senso? - e voleva sapere il perché. "Se non riesci a spiegare cos'hai sentito di diverso, cosa ti ha colpito, allora non dire niente". Giudicava ozioso parlare di musica ("Parlare di musica è come ballare di architettura", Frank Zappa), si rassegnava a che i dischi avessero note di copertina scritte da giornalisti come Nat Hentoff, rispondeva con cortesia alle loro domande ma non era mai soddisfatto dei risultati, gli sembrava che nessun testo critico cogliesse il nocciolo di verità del suo esperimento. Per A Love Supreme, Trane decise di scrivere qualcosa di proprio pugno, a riprova di quanto considerasse importante quella suite e di quale differenza marcasse. Oltre alla dedica in versi, scrisse un testo che iniziava così: "Nell'anno 1957 feci esperienza della grazia di Dio, risveglio spirituale che doveva condurmi a una vita più ricca, piena e produttiva. A quel tempo, per riconoscenza, chiesi umilmente i mezzi e il privilegio di rendere felici gli altri attraverso la musica". 1957, l'anno del cold turkey, i giorni in cui s'era scrollato di dosso la scimmia, e l'anno del nuovo inizio accanto a Thelonious Monk. A Love Supreme fu l'ultimo disco di Trane prima del periodo free, rito officiato al chiar di luna nella radura, prima di entrare nella boscaglia armato solo di un sax e in compagnia di pochi amici. Anni di esplorazione, lontano da ogni accampamento, anni di musica senza guinzaglio, incompresa dai critici bianchi. "Anti-jazz", lo chiamavano i vari Ira Gitler e Leonard Feather. E allora anti-jazz sia, a dimostrare che il musicista (nero, in sovrappiù) non è cane alla catena. Altri due anni e mezzo di ascesa ai cieli, meditazioni forsennate che stupirono lo stesso Ravi Shankar, assoli lunghi un'ora, poi la morte per beffa del destino, ma di questo abbiamo parlato altrove. Oggi la storia di quel rito è raccontata in un libro del giornalista americano Ashley Kahn, A Love Supreme: storia del capolavoro di John Coltrane (Il Saggiatore, 2004, pagg. 261 con 92 illustrazioni , € 29). Kahn ha intervistato decine di persone, coevi e posteri di "Trane". Amici, colleghi, parenti, epigoni. Musicisti, produttori, giornalisti. Sembra non finire mai la parata degli "eredi" che pagano pegno e rendono omaggio. Kahn raccoglie reperti e li riporta (il libro è ricco di foto e illustrazioni), ci offre trascrizioni di dialoghi finiti su nastro durante le sessions e intanto rintraccia e percorre la genealogia di ogni singolo elemento dell'album, musicale, iconico, paratestuale. Riascolta con noi i dischi precedenti di Trane, ricorda gli inizi di carriera, ricostruisce l'infanzia e riparte da prima ancora: dal blues. Nell'esperienza musicale afroamericana tutto parte dal blues e torna al blues, prima o poi. Le famosissime quattro note di Acknowledgment, suonate dal basso, cantate, ripetute dal sax su e giù per le scale... Quello è un frammento di blues, lo si ritrova con variazioni timbriche e di accento - zeppe e incastri a farlo sembrare diverso ma sempre uguale - nel R&B, nel soul e nel rifferama del rock, Led Zeppelin, Black Sabbath, AC/DC (probabilmente anche il black metal scandinavo, se si riuscissero a distinguere i riff). Lo dimostra Branford Marsalis: intervistato da Kahn, comincia a canticchiare Whole Lotta Love, pian piano sposta l'accento e si ritrova a canticchiare: du-dùm du-dúm... du-dùm du-dúm... Il libro non parla solo di studi e sale d'incisione, ma anche di concerti dal vivo. Serate nei club, certo, ma pure occasioni particolari come l'esecuzione dal vivo dell'intera suite al festival jazz di Antibes, 26 luglio del '65, o della sola Acknowledgment nel cortile della St. Gregory's School di Crown Heights, Brooklyn, 24 aprile del '66 - ad accompagnare Trane non c'era già più il "quartetto classico". Quest'ultimo era energia allo stato puro, temporale di megajoules, faceva correre "il treno" all'impazzata e il fuochista era Elvin Jones (1927-2004, R.I.P.), muscoli da selvaggio di feuilleton, gettava carbone tra le fiamme e sudava, sudava, "sudava tanto che alla fine dei concerti andava in bagno a strizzarsi i pantaloni, e il sudore sgocciolava sul pavimento" (Jimmy Cobb). Che dev'essere stato, vederli dal vivo... In definitiva, questo libro è un esempio di cosa dovrebbe essere il giornalismo culturale: cronaca, storia, epopea, visione, pellegrinaggio. Sì, pellegrinaggio, un pellegrinaggio laico, incamminarsi verso gli avi con rispetto e voglia di capire. Ogni ascolto di A Love Supreme può trasformarsi in un viaggio alla Mecca dei panteisti, in un giro in più attorno alla Ka'bah della musica, in un sorso alla fonte di Zamzam della libertà espressiva, e tutt'intorno cantano: Du-dùm du-dúm... du-dùm du-dúm... du-dùm du-dúm... [WM1] (Recensione apparsa su L'Unità il 15 marzo 2005) A Love Supreme: I. Acknowledgement A Love Supreme: II. Resolution A Love Supreme: III. Pursuance A Love Supreme: IV. Psalm La Marsiglia pre e immediatamente post bellica, teatro di scontri tra gang, corse su macchine di lusso, pistolettate, bische clandestine, duri e pupe, è un luogo dell'immaginario collettivo talmente forte da essere diventato cliché. Nonostante questo, anzi, proprio per questo, è sempre in grado di appassionare, come ogni epica che si rispetti. Questa almeno è la convinzione di Gian Carlo Fusco (1915-1984), che a metà anni '70, clamorosamente fuori tempo massimo, decide di raccontare di nuovo la saga gangsteristica marsigliese. Infatti quando nel 1974 viene pubblicato per la prima volta Duri a Marsiglia il tempo di Rififì e Grisbì e tramontato da un pezzo. L'autore - pose alla Fred Buscaglione, ma trascorsi da reporter, quasi un gonzo journalist all'italiana - ne è consapevole, ma non gli importa. Come un Omero trasferitosi nel Mediterraneo occidentale, Fusco proietta il suo alter ego nella Marsiglia degli anni '30, una città fantastica, in cui forse lui non ha nemmeno mai viaggiato davvero, limitandosi ad annusarla da un punto diverso della stessa linea costiera: La Spezia o Viareggio. Marsiglia come Ilio, terreno di battaglia sul quale si affrontano guerrieri antichi dagli appellativi mitici: Cecé Le Fort, René Patatrac, Vincente El Loco, Fofò L'Artilleur, Casimiro Scassabocche e tanti altri. Manco a dirlo la storia si dipana tra un periodo di pace e un altro, con la "grande tempesta" nel mezzo a farla da padrona, la guerra tra le cosche dei catalani, dei corsi e dei calabresi, che infiniti lutti adduce alla città, tra il 1933 e il 1934. La scintilla: una donna bella come Elena e altrettanto proibita (ma non consenziente). Il motivo: le quote del traffico di droga della neonata French Connection. Il protagonista entra nell'ambiente un po' per voglia d'avventura un po' per caso, in fuga dal fascismo italiano, ma attratto - come il suo autore, del resto - da un certo dandysmo anarchico e maledetto, nato dall'incontro tra Buenaventura Durruti e Charles Baudelaire. Ne esce il più classico dei noir romantici vecchia maniera e al contempo un romanzo irreale e fantastico: l'avventura che ogni ragazzo in fuga da una buona famiglia vorrebbe vivere. Dalla parte dei reietti e dei pirati, con i loro codici d'onore e la loro grinta, scrollandosi di dosso lo spleen borghese e abbracciando il romanticismo maledetto degli antieroi proletari: un cliché contro l'altro. Con l'amara consapevolezza di fondo che non riuscirà mai a fare davvero parte di quel "milieu", a causa dei propri natali per bene. Il finale aperto la dice lunga sull'accanimento con cui Fusco rifiuta comunque il ritorno alla normalità del regime e al regime della normalità per il suo personaggio, come per se stesso. Consapevole che i bei tempi non sono mai esistiti, tanto meno quelli a cui Jean Gabin aveva prestato la faccia, Gian Carlo Fusco sceglie di cantarli come un poema epico, quasi fossero un'Arcadia perduta. Lo fa in una lingua corrente del mediterraneo occidentale del tutto inventata, divertente grammelot italo-franco-calabro-ispanico, che guizza da una sponda all'altra del Golfo del Leone e del Tirreno. Fusco è rimasto un outsider per tutta la vita, esponente di una bohème rivierasca e anarco-gaudente alla donchisciottesca ricerca di battaglie più ardue in cui mettere alla prova la propria determinazione a sovvertire il mondo, o per lo meno quell'Italia che il fascismo aveva lasciato "marcia com'era prima. Perché l'Italia è nata marcia! Per guarirla, non basta levarle d'indosso la camicia nera. Bisogna strapparle la pelle!". Da questa beauté de marges, da questa melanconica e al contempo rabbiosa frustrazione, sublimata in un racconto fantastico e pieno di poetica grandeur, Fusco ricava un libro che si divora in un lampo, senza staccarsi dalle pagine. Alla fine l'eroe apolide e clandestino, l'Odisseo con il fiore del male all'occhiello, verrà proiettato non già verso il ritorno alla quieta Italietta, bensì, manco a dirlo, verso un nuovo imbarco. Bisogna ringraziare Luigi Bernardi e Tommaso De Lorenzis (autori di post e pre-fazione) per averci restituito questo piccolo gioiello della letteratura nostrana, fuori catalogo da quindici anni. [WM4]
C'è un solo racconto poco riuscito, non dico quale. Mi limito a questo: è impossibile soffocare e uccidere qualcuno costringendolo a tenere in bocca un cazzo, ancorché bello grosso. Funziona solo se la vittima prescelta non ha un solo dente dietro le labbra. Le recensioni hanno messo l'accento sulla descrizione della "new economy" (milanese) fine anni Novanta, prima dello scoppio della "Bolla". Sì, è un aspetto importante: start-up feticismo del Nasdaq azzardi sulla prossima killer application web agency marketing assistant content provider project manager, tutto il pidgin dell'economia "smaterializzata" (o spacciata come tale), impieghi che sfidano ogni descrizione, aperitivi spesi a contemplare tramonti veri o metaforici, dialoghi impossibili eppure probabili. Nel primo racconto, "Aperitivo con pornocrate", c'è questo Sven che non aveva in mente nulla, ma era abituato a parlare d'affari. Durante i meeting era torrenziale. Diceva con il sorriso entusiastico delle cagate abominevoli. Il protagonista/io narrante perde il contatto con la realtà, tutto si fonde e confonde, mentre si sbrindella il tessuto del miraggio, la prosa si fa abbacinante come nelle note di Ballard a La mostra delle atrocità. Queste pagine sembrano l'aggiornamento di quelle note, scritte in epoca proto-digitale. In realtà gli eventi decisivi durano millenni e non necessariamente riguardano la nostra specie. Mi sono abituato all'ida che per quanto mi riguarda, in realtà, non accade niente. La ripetizione di alcuni elementi della frase ("In realtà", "non", "riguardano"/"riguarda") produce un effetto d'intontimento, la nuova economia ha dissestato i nostri sistemi neurovegetativi, ma cosa ci resta adesso, dopo aver eliminato la scorza e aver scoperto che il frutto era guasto? Ecco l'irrompere del decadimento organico, il marciume dissolve l'ultimo lembo di miraggio. Niente resta, nemmeno un girare l'angolo, non c'è catarsi, la blocca il punto di domanda. Segue la title-track della raccolta, amarcord di pomeriggi catanesi di trent'anni fa, conversazioni in cui non ha la minima importanza chi dice cosa, e intanto affiora in mente "Mal d'Africa" di Battiato: "Con le sedie / seduti per la strada / pantaloncini e canottiere / col caldo che faceva. / Da una finestra di ringhiera / mio padre si pettinava / l'odore di brillantina / si impossessava di me. / Piacere di stare insieme solo per criticare / ed era come un mal d'Africa". Poi gli anni Ottanta spazzarono via i sogni erotico-politici della mia infanzia. La mia coscienza si restringeva penosamente. E' curioso come quella decade turbi e increspi le pagine di chi ne subì l'impatto da adolescente o fresco ventenne. Su Nandropausa #6, recensendo Tre uomini paradossali di Girolamo De Michele, ho scritto: "Gli Ottanta sono un non-decennio, presi in sé hanno ben poco senso, lo acquisiscono solo al confronto coi Settanta e coi Novanta. Quindi, non si possono 'fare i conti con gli anni Ottanta' senza farli con ciò che li precede e col nostro presente. Una contraddizione che giudico a dir poco feconda." Domanin - in questo racconto - e Pallavicini - nel romanzo recensito sotto - lavorano su questo, gli anni Ottanta sono: paradossale Restaurazione dopo anni Settanta coincidenti con un'infanzia di luce, scoperte e (goffa) sensualità, oppure: catena di antefatti, disagi, impacci, figure di merda, che si allunga dall'anno di Chernobyl fino al tormentato riscatto etico ed estetico, nel momento in cui il presente lavora per diventare futuro prossimo (il 2009). Strano a dirsi, entrambi gli autori si concentrano sulle nicchie di società in cui sopravvivevano forme di attivismo sociale e politico. Avevo sentito parlare di quelli che andavano a Comiso. Erano gli ultimi capelloni in circolazione. Il primo anno che frequentavo la scuola si vedevano ancora in giro per il cortile. A me e ai miei compagni sembravano sporchi e con i pidocchi. Gente illusa e fuori dal mondo. Non era un giudizio preciso, non conoscevo cosa facevano. Mi sembravano soltanto dei vecchi, delle persone che appartenevano a un'altra epoca... Quelli di Domanin non sono racconti folgoranti: sono racconti folgorati. La saetta è caduta su di noi al concerto di Pat Metheny, attirata dal puntale dell'ombrello, mentre il tizio di fianco chiamava col cellulare e creava un bel campo magnetico. Lì per lì non ci siamo accorti di nulla, forse un piccolo crepito, forse una favilla sulla coda dell'occhio, ma non ci facciamo caso. Ore dopo, pelle d'oca e calore su tutto il corpo, ripetiamo frasi incoerenti, agli amici tocca portarci al Pronto Soccorso. E' capitato a Michele Spanghero, jazzista monfalconese. Dev'essere successo anche a Domanin, e il risultato è questo libro. [WM1] Appunto, gli anni Ottanta. Pallavicini fa collassare gli anni Ottanta sul presente e l'immediato futuro. Il 1986. L'anno prima c'era stato uno sputazzo chiamato "movimento dell'85", "ragazzi dell'85", "ragazzi delle Timberland", e qualche pazzoide tirava in ballo chissà quale cabala: 68 + 9 = 77; 77 + 9 =86. S'era tutti in attesa, ma tutti chi? Più o meno nessuno. L'86 non fu anno di particolare sconquasso e movimentazione. 86 + 9 = 95... 95 + 9 = 104... Il 1986 è l'anno di Chernobyl, disastro contemplato all'ombra del piccolo reattore nucleare dell'Università di Pavia. Nelle settimane in cui il prefisso "nano-" s'impadronì di noi - la primavera in cui la verdura diventò nemica - Vittorio Nuvolani aveva accesso privilegiato a pasticconi di iodio puro. Il 1986 dell'attacco di Reagan alla Libia, due missili libici sfiorarono Lampedusa, Vittorio dice Pantelleria, ma si sa che 'sti padani... I mid-Eighties nella provincia basso-lombarda, le leggende urbane e il gossip dell'epoca, i timori e i fantasmi dell'epoca, AIDS per ogni dove, serpenti salivano dalla tazza del cesso a morderti i coglioni. Nel 1986 Vittorio è uno studente di chimica alquanto destrorso, mito dei Roxy Music e grande fame di figa, ancora prigioniero di una verginità masturbatoria. All'inizio del libro ci prova con un'educanda che gli procurerà due o tre figurette, le parla di Heisenberg, dei piani per l'atomica nazista, e sappiamo tutti che andrà in bianco, lo sappiamo bene. Nel 2002 Vittorio è un pezzo grosso del medesimo ateneo, stilosissimo, di sinistra, lavora a un progetto che cambierà la faccia al mondo ed è sposato con Roberta, gnocca di spessore. Sono una coppia gaudente, organizzano orgette e partouzes con vari africani. Nel 1987 Vittorio è ricercatore a Pisa, l'eureka! che lo spara nel futuro è proferito en passant, quasi soffocato dallo strepito di fondo, strizzato dagli spasmi dell'amore non corrisposto. Stefania è una militante comunista che gli concede solo il petting e mai la patonza, riservata - guarda il caso - a un africano. Lo scienziato è un poveretto che sperimenta la solitudine più diaccia. Nel 2002 compaiono spettri dal passato, a innervosire, guastare la festa, mettere in crisi il ménage. S. Silvestro del 1987: Vittorio passa in rassegna i fatti dell'anno trascorso e li trova come nuovi, mai indossati, ancora incellophanati. Gary Hart silurato per uno scandalo sessuale, l'Irangate, la Thatcher vince per la terza volta, vittoria degli antinucleari al referendum, e io? Io che facevo, in quel momento? Occorre ripigliarsi, e ripartire. Conquistarsi la salvezza. La politicizzazione per via sghemba, partita come stratagemma e nulla più, ci restituisce un uomo nuovo. I percorsi del romanzo si contrastano e contrappuntano, convergono e divergono, la visione si alza e poi si schiaccia. L'attacco all'Iraq del '91 non c'entrava con la guerra Iran-Iraq, finita da un pezzo. Il problema era l'invasione del Kuwait. Vittorio sovrappone eventi di due decadi diverse, in fondo gli anni Ottanta sono sempre con lui, dilagano nella mente, fanno scherzi. Ancora: all'epoca di Chernobyl e poco dopo, sinistra "storica" e sinistra "antagonista" non erano gomito a gomito come li vede Vittorio, io lo so bene, stavo nell'intersezione tra l'una e l'altra, con un occhio guardavo il gatto e con l'altro conciavo il pesce, e non era facile, ma Vittorio no, lui le osserva arrivando da lontano e da destra, mentre ancora si muove, e non sa valutare le distanze. Nel 1988, Vittorio è trasformato, dev'essere anatroccolo radical-freak, prima di essere compiutamente dandy. Dialettica. Unità e lotta dei contrari. Nel 2009, Vittorio ha un nuovo amore, ma la vita è squarciata da un'altra delusione, il fisico è cedevole, la voglia di vivere zampilla a terra dalle ferite, ma la notizia di un trionfo risale i cavi in fibra ottica. Pallavicini negli anni Ottanta scriveva recensioni di prog rock su Rockerilla, e che può esserci di più inattuale? Rock progressivo negli anni Ottanta: cambi di tempo e ritmi dispari nel decennio della noia percussiva (thud-thump-thud-thump), immaginari alternativi nell'era del pragmatismo yuppie, suites di venticinque minuti e lunghi assoli... Vent'anni dopo, ti scrive un romanzo con cambi di tempo, ritmi dispari etc. e ti fa sbattere il naso nel ricordo della merda - non è cult: è merda. Non è nemmeno vintage: non si può vendemmiare la merda. The Decade That Style Forgot vissuta da chi, con sforzo disperato, cercava di essere elegante. Atomico dandy è la prova migliore di Pallavicini, è un romanzo che lascia qualcosa e invoglia a interagire. Racconta Pallavicini nel suo blog: al termine di una presentazione bergamasca, si avvicina "questo ragazzo alto e timido e fornito di tascapane che estrae un'audiocassetta. E me la porge. E mi dice: 'una colonna sonora ideale, per alcune scene del suo romanzo'. Lui che mi da commoventemente del lei. E che mi consegna questa C60, titolata Waiting for a Pale Angel Outside Maria Goretti - An Imaginary Soundtrack. Sono rimasto senza parole, annichilito dall'illuminazione. Dal Satori. Sì, va bene, conta anche avere 50 persone festanti come pubblico e vendere 50 copie a presentazione ed essere in classifica. Conta eccome e fa bene allo spirito. Ma conta anche - per dare un senso allo scrivere - vedere quanto si può invadere, colonizzare, sintonizzarsi, interferire con l'immaginario di un lettore. Così tanto da convincerlo a spendere qualche ora del suo tempo per un gesto così gentile e commovente e d'altri tempi quanto il realizzare una compilation su un supporto faticoso e al tramonto come la cassetta. Grazie, Cristiano". E grazie, Piersandro. [WM1] Robert Graves è morto a Maiorca nel 1985, all'età di novant'anni spaccati. Ma era già morto in Francia nel 1916, "a seguito di ferite", come recitavano l'elenco ufficiale dei caduti e la lettera di condoglianze dell'esercito britannico recapitata ai suoi genitori. Macabra casualità: vedendo il capitano Graves in un letto d'ospedale da campo, con un polmone perforato da una scheggia di granata, un ufficiale medico aveva bruciato i tempi e - per fortuna - sbagliato prognosi. Il giovanissimo capitano riuscì a rimettersi in piedi e a diventare quello che poi è diventato, non senza ripercussioni fisiche e psichiche. Lo shell shock, il trauma da bombardamento, gli indusse nevrastenia acuta ancora per anni, dopo il ritorno alla vita civile. Dalle nostre parti Robert Graves è più noto come studioso e interprete di miti antichi che per tutto il "resto". Certo a buon diritto. La Dea Bianca è forse uno dei più efficaci esempi di esegesi mitopoietica o, se si preferisce, di studio creativo del mito. In poche parole: Graves è quello che ha messo al centro dei miti mediterranei ed europei una divinità femminile, la Grande Madre, scacciata e sepolta dagli dèi patriarcali in tempi remotissimi. Graves ha riallacciato a questa figura temi e leggende della mitologia classica e pre-classica, materia su cui ha indagato per decenni producendo alcune pietre miliari come Miti Greci e Miti Ebraici. Ma Robert Graves è stato molto altro, o forse bisognerebbe dire molti altri, prima durante e dopo essere diventato "mitologo". E' stato pugile dilettante e soprattutto poeta, esponente di quella generazione spezzata dalla Prima Guerra Mondiale che ha portato sulla pelle e sulla pagina i segni di un'esperienza indelebile ("Almeno un terzo della mia generazione scolastica perse la vita"). Successivamente è stato saggista e romanziere di successo, nonché insegnante di letteratura inglese all'università del Cairo (pare che il giovane Nasser fosse tra i suoi allievi). Nel frattempo è stato socialista, simpatizzante bolscevico, consigliere comunale laburista, marito e compagno di lotta di una femminista ante litteram, membro della Società per il controllo costruttivo delle nascite; amico di alcuni personaggi topici della cultura inglese della prima metà del Novecento. Basti citare Thomas Hardy, T.S. Eliot, T.E. Lawrence (che gli presentò Ezra Pound premettendo che non si sarebbero piaciuti), forse anche J.R.R.Tolkien, che negli stessi anni frequentava i corsi a Oxford. Ebbe un paio di famiglie e otto figli equamente suddivisi tra una e l'altra. C'è tuttavia un punto cruciale nella vita di Graves e coincide con la pubblicazione di un grande libro, che doveva essere un romanzo e finì per essere un'autobiografia. All'età "dantesca" di 35 anni, nel 1929, Graves decise di mollare tutto. Addio all'Inghilterra, addio alla famiglia, addio alla carriera. Addio a tutto questo. Così intitolò il testo autobiografico che rendeva conto del primo terzo della sua esistenza. Lasciato dalla prima moglie e coinvolto in un caso giudiziario, Graves perviene a una secca constatazione: "Avevo infranto un gran numero di regole, avevo litigato o ero stato ripudiato dalla maggior parte dei miei amici, ero stato messo sotto torchio dalla polizia perché sospettato di tentato omicidio, e avevo smesso di preoccuparmi di quel che gli altri pensavano di me". Gli ci erano voluti dieci anni, dopo la fine della guerra, per metabolizzare, elaborare, accettare il se stesso sopravvissuto alla mattanza, a quello che aveva visto e provato. Anamnesi catartica: aveva dovuto scriverlo, raccontarlo, per distaccarsi e condannare tutto, l'educazione protestante britannica e la cultura imperialista, pilastro della moderna società europea. Un viaggio agli inferi, fatto con la leggerezza di una gita in Toscana, alla fine del quale non resta che salpare l'ancora. Nei ricordi la violenza trapela piano piano: costrizione, omofobia, conformismo, classismo, sono il preambolo all'impresa bellica che sublima un intero modus vivendi, una civiltà. La lingua di Graves è di una modernità impressionante, le descrizioni richiamano alla mente immagini dei film sul Vietnam. Che c'entrano le trincee con la giungla? Apparentemente nulla, ma sono proprio le sovrapposizioni anacronistiche, i dejà-vu plausibili che trasformano Addio a tutto questo in uno dei più lucidi j'accuse contro la guerra di tutti i tempi. Nessuna retorica: solo storie, aneddoti, fatti, alcuni anche grotteschi ed esilaranti, altri da pelle d'oca. "Un caporale dettò una lettera a casa: Cara zia, sto bene. Al momento stiamo nuotando nel sangue fino al collo. Mandami sigarette e un salvagente. Questa guerra fa schifo. Baci e abbracci". Una catarsi, dicevamo, distacco dall'Europa che prelude a una rinascita e consente a Graves di rialzarsi dal lettino del dottor Freud così come una volta si era rialzato da una branda della Croce Rossa. Terminato il libro si trasferì alle Baleari. Su un'isola, in una terra di confine tra nord e sud, alla ricerca di antichi miti mediterranei e di una Musa che a suo dire aveva ispirato il mondo prima dell'avvento dei guerrieri sanguinari, prima dell'inizio del tempo. Un'antica madre che attraverso i millenni suggeriva forse il più attuale adagio: tra uccidere e morire c'è una terza via. Vivere. [WM4] Sergio Bianchi lo conosciamo da tanti anni. E' co-fondatore di Derive Approdi, prima la rivista-camaleonte teorica (dal 1992, "testata cangiante" affidata a sempre diverse redazioni) poi della casa editrice (nata come collana all'interno della Castelvecchi, presto e per fortuna messasi in proprio). In questi anni, Sergio e i suoi compagni - tra alti e bassi, affrontando epidemie a bordo, canti di sirene, bufere e insabbiamenti - sono riusciti a non naufragare, a mantenere una presenza in libreria, offrendo ai lettori una produzione inaudita, eccedente, di saggi-romanzo e romanzi-saggio. Si va dalla storia dei movimenti alla "gastronomia rivoluzionaria" passando per i revival di eresie medievali. Non è mai stato difficile percepire in Sergio un'attitudine da artigiano di contado. Derive Approdi è ancora in piedi grazie a microstrategie di resistenza, reticoli di rapporti amicali (il pittore che regala un quadro per finanziare un libro), sapienza dell'aggiustare e conservare, del trasformare e riproporre. La conferma giunge con La gamba del Felice, "romanzèt" scritto per esorcismo personale, per fare i conti con la cultura che - A.D. 1957 - diede i natali all'autore. In che modo il testo è uscito dal cassetto? Immaginiamo la scena: un dopocena irrorato di vino, Sergio legge ad alta voce alcuni brani, concatenamenti di aneddoti buttati giù in una lingua orale (ma non "verista"). Anacoluti, ellissi, dialetto, punti e virgole random. I commensali, stupiti, ascoltano il racconto di un'infanzia nelle campagne lombarde, quasi al confine svizzero, prima e durante il boom. Il "boom": fine della penuria, ma anche disboscamento, invasione di "milanesi" con le loro villette e villone, devastazione del territorio. Uno dei convenuti, un po' brillo e scosso dalla forza poetica del testo, salta su e fa: - Lo propongo a Sellerio! Ed eccolo qui. "Il Felice" del titolo è il padre di Sergio, mutilato di guerra. La gamba è la protesi che riceve per posta tra gli applausi dei vicini, nella prima scena. Seguono storie di operai-contadini, di scemi del villaggio, di scherzi giocati al mondo, e ipnotici capitoli a spiegare come si cacciava, come si pescava... Pian piano ci si addentra nella storia dei fratelli maggiori, quelli del '50 o giù di lì: l'arrivo delle subculture giovanili, i fumetti, i teddy boys, i complessi beat, l'accamparsi nel bosco col mangiadischi, il tascabile di Sulla strada... La banda di teenager teppistelli si trasforma, nasce e muore un complessino (i Pubs, formazione incerta e filosofia proto-punk: "tutti possono suonare"). C'è pure un viaggio nell'Amsterdam dei Provos. Lo sbocco è il 68, cortei, celerini, repressione. La gamba del Felice è anche la storia di come si formò un soggetto sociale, il giovane proletario protagonista del nuovo ciclo di lotte. La storia di quei tempi, dopo decenni spesi a rimarcare - "operaisticamente" - le discontinuità tra le generazioni a cavallo del 68 (padri vs. figli, operai professionali vs. non specializzati, etica del lavoro vs. rifiuto del lavoro), oggi può permettersi un approccio meno rigido, rinvenire le continuità, che vi furono eccome. Il bildungsromanzèt di Bianchi è prezioso in tal senso: mette a nudo le radici rurali e selvatiche del soggetto sessantottino. Da dove viene l'arte di arrangiarsi nel costruire dal nulla un juke-box o metter su una band o aprire un "localino", se non dalla fatica e dall'esempio di padri e madri? Al di là delle mie elucubrazioni, quel che conta è: La gamba del Felice è un libro bellissimo. [WM1]
Un libro sulla repressione del femminile come principio cosmologico e sulla repressione "storicamente determinata", quella che si consuma sui corpi delle donne, e contemporaneamente una soggettiva su un episodio della lunga guerra che il patriarcato nella sua forma definitiva (il monoteismo) combatte contro la Grande Madre, contro la Terra, contro Dioniso, contro l'ebbrezza e la visione. Mario Boffo premette al romanzo una lunga nota storica che serve a collocare secondo coordinate precise (Abruzzo e Campania, metà del XV secolo) una serie di eventi che hanno in realtà connotazione metastorica, emblematica, figure simboliche del rapporto patologico con se stessi e con le cose che l'uomo, nel mondo ad immagine e somiglianza di maschio, è destinato a percorrere in tutta la sua estensione. E' l'inquisitore Norberto Canosa a esemplificare questa tensione. La strega lo costringe a prendere atto che sotto la parola "Demonio" il sistema, diremmo noi, comprende tensioni, istanze, modi d'essere e processi di un divenire magmatico, che esula dalla visione del mondo della chiesa e dello Stato, divenire che è in qualche modo originario, concreto, materiale e vivente. Tutto si riassume nel corpo di una donna, Caterina, la femmina strega del titolo. Quel corpo rappresenta una minaccia di carne e sangue, un enigma, una domanda alla quale la società risponde con la negazione, l'obliterazione, la volontà di estirpare, di ardere, consumare. Interessante leggere un libro simile dopo che il patriarcato monoteista ha vinto il confronto referendario. Il corpo della donna ancora una volta trafitto dall'astrazione teologica che concettualizza la paura dell'abisso, della profondità, dell'origine: Abruzzo e Campania del XV secolo non sono poi così lontani. [WM5] Per capire dove stia andando a parare Gianni Biondillo, è utile leggere in rete le reazioni di certi lettori ancorati al "genere-genere". In buona sostanza, lo rimproverano di scrivere bene, di avere attenzione per la lingua, di fare sfoggio di perizia e cultura, di premere troppo sul pedale del lirismo. A detta di costoro, ciò interferirebbe con la trama. Alcuni commenti da internetbookshop: "l'autore ha mascherato il libro da thriller disattendendo così le promesse dei lettori"; "scrittori che usano le parole come fine e non come mezzo, che non sanno costruire una storia"; "tanti piccoli quadretti tutti forma e niente sostanza"; "un libro, in quanto tale, ha lo scopo di raccontare e non deve essere esercizio di stile letterario fine a se stesso. L'autore (che non conoscevo) ha dei numeri, ma si lascia a lunghi tratti prendere la penna da un narcisistico senso della calligrafia, rompendo il ritmo della trama"; "Se non la tirasse tanto per le lunghe in alcune compiaciute pagine che danno ben poco alla trama, sarebbe anche meglio". Altrove, fanno da contraltare i partigiani del "genere-Letteratura", secondo cui Biondillo scrive "paraletteratura", comunissimi gialli "con qualche spunto ma nulla più", "letture per passare il tempo" etc. In generale, se ti senti un narratore prima che un "letterato", ci si aspetta che tu scriva male o tuttalpiù mediocremente, senza eccessivo rispetto per la lingua dei padri, l'importante è accompagnare l'eroe fino alla fine, inseguire 'o malamente sulle montagne russe, tra freddure, mazzate 'e cecate e botte di culo. Per i libri come i tuoi c'è una vasca da piscicoltura, lì dentro fai quel che vuoi ma guai a te se la scrittura tracima. Non azzardarti a cercare di scrivere bene. Chi sguazza insieme a te nella vasca dirà che te la tiri, chi ti credi di essere, pensa a scrivere la storia senza infiorettature e non cercare di fare l'artista, ché sei un mestierante come tutti noi. Chi sta fuori dirà che puoi fare a meno di tirartela, chi ti credi di essere, sei un mestierante, cerca di non avere pretese, lascia l'arte e la poesia a noialtri che ne capiamo e non scriviamo solo per titillare il pubblico. Nel decennio 1994-2004 i narratori italiani (e le narratrici, of course) hanno messo in crisi questi atteggiamenti, sfidando le polarizzazioni, scombinando tutto, sperimentando dentro e attraverso i "generi" letterari, usando i "generi" per costruire altro, conquistando il terreno dei "generi" per avanzare e andare oltre. Il bello di tutto ciò è che i narratori lo hanno fatto insieme ("Cordone, compagni!"), l'impressione (sbagliata, ma solo in parte) è quella di una strategia concordata. In realtà è una strategia intuita da tutti e trasmessa per telepatia. [Oggi è un nome inflazionato, ma davvero James Ellroy ha dato la "stura", all'inizio degli anni Novanta, con la "Tetralogia di Los Angeles". Molti di noi lo hanno letto e, ancora shockati da White Jazz, si sono detti, come in quel film di Peckinpah: - Why not? - e attenzione: questo vale anche per chi, nella propria scrittura, non "ellroyeggia" affatto.] In apparenza, l'architetto Biondillo fa un'operazione meno radicale dei vari Evangelisti, Genna, De Cataldo, Carlotto: i suoi romanzi non sono nerissimi e "iperemizzanti", paiono quadrati perfettamente inscritti nel cerchio del genere poliziesco. L'intelligente gioco con gli stereotipi, lo sbirro buono con la famiglia andata in pezzi che cerca di ricostruirsi una vita e si balocca con l'idea di riprendere gli studi, un commissariato sui generis dove lo sbirro di destra è... in minoranza (figurarsi), la quadriglia di coppie comiche (Ferraro-Lanza, Ferraro-Comaschi, Ferraro-Mimmo), dialoghi briosi e un po' groucho-marxisti. Romanzi godibili, magari godibilissimi, ma prevedibili, "con qualche spunto e nulla più" (ma anche nulla meno). Ne siamo proprio sicuri? No, non ne siamo sicuri. Biondillo è una continua sorpresa, non per le citazioni di grandi poeti nascoste nel testo (lì un poco se la tira, ma dopo aver scritto una roba come New Thing io devo solo star zitto :-)), bensì per la topografia sentimentale di Quarto Oggiaro (arriva Proust dove credevi d'incontrare Ed McBain!), per le riflessioni su com'è conciata la Milano dei milanesi, doléances che non diventano mai sconfittismo pieno, anzi, c'è uno strenuo tentativo di ritrovare bellezza e umanità nelle pieghe della metropoli, parti della città divenute "dimenticanze", la viuzza, la chiesetta, l'ultima trattoria proletaria... Poi c'è la poesia del meticciato possibile, il futuro su cui scommettere, i luoghi in cui passano il tempo libero colf e badanti. Sono pagine belle e vive, da rileggere nei giorni di Pontida e della caccia al rumeno. E' stato interessante leggere Con la morte nel cuore e, subito di seguito, Grande Madre Rossa di Genna, romanzo in cui Milano è un fibrosarcome che si autodivora, civitas e communitas morte da tempo immemorabile. Genna pompa fuori ossigeno dalla testa di chi legge, ma se uno ha appena letto Biondillo, riesce comunque a respirare. Insomma, credetemi, Biondillo c'è. Avvertenza: prima di questo romanzo, va letto quello prima, Per cosa si uccide (che poi non è un romanzo, è una raccolta di novelle intrecciate tra loro, come Cuori in Atlantide di Stephen King). [WM1] La notte di Babbo Natale sembra quasi un libro a tesi, scritto per dimostrare quanto sostiene Valerio Evangelisti, e cioè che in questi anni è soltanto la letteratura "di genere" ("degenere", per alcuni) a prendersi la briga di raccontare veramente il mondo in cui viviamo. Dietro a quella che sembra la personale vendetta di un uomo contro chi l'ha rovinato c'è infatti un fatto pubblico, anzi IL fatto pubblico degli ultimi anni, vale a dire il famigerato 9-11 e tutto quello che ne è conseguito a livello mondiale e di paranoia collettiva. Il geniale sequestratore tiene sotto scacco i suoi prigionieri grazie all'utilizzo di quelle tecnologie e di quelli strumenti che essi, da buoni borghesi quali sono, ritenevano al servizio loro, e della loro sicurezza. In un mondo in cui ci illudiamo di potere controllare tutti, come facciamo a sapere di non essere controllati noi? Quadruppani è però bravissimo a lasciare che questa tematica rimanga comunque sullo sfondo, almeno per larga parte del libro, come una nota di bordone sulla quale ricama un'avviluppante melodia che trascina il lettore nella lettura grazie al ritmo svelto e alle sorprese continue. Si chiude il libro convinti di aver letto un ottimo thriller, poi ci si pensa bene e ci si rende conto che il discorso proposto è molto più politico di quanto non sembri, e si va per certi versi a collocare di fianco a piccoli capolavori della distopia come "Pentiti Arlecchino" disse l'uomo del tic-toc di Harlan Ellison o V for Vendetta di Alan Moore e David Lloyd, per quanto quello che racconta Quadruppani sia strettamente realistico. Sull'onda dell?entusiasmo, mi sono procurato sulle emerite bancarelle di piazza Colombo a Genova anche gli altri due libri di Quadruppani editi in Italia (sempre nei Gialli Mondadori), L'assassina di Belleville e La breve estate dei colchici. Il primo è il terzo di una trilogia, e quindi non è comprensibilissimo in tutte le sue parti, per quanto sia comunque un buon libro, specialmente nella scrittura. Il secondo è un altro gioiellino che merita di essere salvato dalla polvere delle bancarelle. Restituisce in alcune parti lo splendore e l'anarchia confusa di alcuni dei migliori personaggi di Godard, e le contraddizioni, i misteri e le scelte di chi, dopo avere cercato goffamente di fare l'incendiario, si ritrova anni dopo benestante pompiere con la coscienza nera come il carbone. Comunque, ben venga l' "esilio" di Quadruppani nei Gialli Mondadori, se questo permette di godersi i suoi libri per poche monete...
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