Nandropausa #9 - Libri letti e consigliati da Wu Ming - 12 dicembre 2005
Girolamo De Michele, Scirocco, Einaudi Stile Libero Noir, pagg.599, € 14,50 Freddo che fa dormire accartocciati, appallottolati, (ingrutì, si direbbe in ferrarese), inquieti perché i muri non difendono dal tempo che c'è fuori, freddo di saudade astiosa per un Paese che (come Guy Pearce in Memento) ricorda se stesso a segmenti di cinque minuti, mai di più, e tocca girare con le informazioni-base tatuate addosso, la polaroid del tale che forse incontrerai, e chi è questo, chi è quello, non fidarti di Tizio, sul petto un acrostico in memoria di Caio, occhio ché Sempronio te lo mette nel culo. Tocca girare "vestiti di ritagli di giornali", come i Tre uomini paradossali del romanzo d'esordio di Girolamo De Michele. Ci si sente sì a casa ma "ingrottiti", nel libro di cui 3UP era prequel. Un passato che "non asciuga niente", panni sporchi stesi non si sa dove, un 1998 che ha valore microcosmico, in una città - Bologna - dove tutto avviene prima, tutto è prodromi e doglie pre-parto, poi nascono mostri (ma li si coccola e vezzeggia, come vincitori d'una mostra canina). Il ‘98 in cui si svolge Scirocco (Einaudi Stile Libero Noir, 2005, pagg.594, € 14,50) è descritto come padre e figlio di tutti gli anni della Repubblica (delle repubbliche, se si conta quella fantoccio di Salò): tutto vi converge, ogni filo vi si dipana e riaggroviglia, dall'immediato Dopoguerra al Piano Solo, dalla Strategia della Tensione all'anno prima del '78, dal sequestro Moro alla Uno Bianca, dall'imminente guerra in Kosovo alle manovre geopolitiche dietro l'ascesa di un ex-comunista a Palazzo Chigi. In questo '98, l'Italia è percorsa in largo e in lungo da neo-con americani, neo-nazi autoctoni, faccendieri, depistatori professionisti, poliziotti fascisti collusi con questo e quello, false agenzie di stampa, reduci di stagioni diverse (ex-partigiani, ex-settantasettini, ex-Prima Linea, ex-neofascisti, pareti cariche di ex voto). Questa nazione è terra di mitopoiesi per eccellenza, i fasti della cronaca e gli scatti della memoria (on/off) regalano ogni giorno spunti e materiali. Vivere qui è, per un narratore, condanna (perché un narratore è un cittadino) e privilegio. A volte Scirocco si fa criptico, stratifica accenni, allusioni, riferimenti obliqui, alcuni li chiarisce in Appendice ma altri no, e uno si chiede: io sì ho capito di che parla, di chi parla, condivido queste ossessioni, sono uno speedfreak della memoria, ma altri? E' un romanzo multi-livello, questo, godibile anche da chi non coglie tutto, oppure è un romanzo iniziatico travestito da noir (e il punto di vista del noir è sempre quello della vittima, ci ricorda chi ne sa)? De Michele vuol dirci che la memoria, la memoria d'un Paese, la memoria dei movimenti e delle classi oppresse, è cosa che dobbiamo meritare, che si guadagna col duro lavoro, con la cerca, come quel Graal di cui tutti straparlano? Il lettore di Scirocco è forse Parsifal? I personaggi - l'io narrante (chiamiamolo Guglielmo), Andrea, Cristiano, Lara, Ferodo, Diego, Tore, Raffaele, don Ricrea... - sono cavalieri mancati di una tavola rotonda a cui ci è impedito sedere, spin-off di un ciclo di Camelot che il Potere (il quale non sta nel Palazzo) non ci ha lasciato scrivere? In fin dei conti vi è davvero una cerca (un bastimento carico di?), vi è davvero un percorso iniziatico (compiuto da Lara, vedova santa, che di prova in prova arriva in cima e vede dall'alto la Storia d'Italia), come vi è un tempo dei misteri antecedente ad ogni prologo (le gesta e il sacrificio di Lester), e tornano qua e là figure della mitologia anglo-celtica. No, questo non è un romanzo di genere, non è un poliziesco. E' l'emulazione riuscita di un romanzo di genere al fine di creare un diversivo (anzi, se si potesse dire: un eversivo). Se uno non lo capisce, nemmeno capirà che va accadendo nella narrativa di noi che viviamo qui, oggi (non credo nelle Patrie Lettere, non me ne frega un cazzo). Se uno non lo capisce, non avvertirà la pressione ai bordi delle pagine, gli scricchiolii dapprima lontani poi concerto d'orchestra, come quando lo squalo passa sotto la già malconcia barca di Quint (grande interpretazione di Robert Shaw, nel terzo film di Spielberg). Questa "pressione" è la stessa che a ogni riga rischia di mandare in pezzi Romanzo criminale di De Cataldo, Noi saremo tutto di Evangelisti, Grande madre rossa di Genna, e potrei citare tanti altri, come Michele Serio, il Camilleri dei romanzi storici... E' il rischio che la materia narrativa straripi, travolga le barriere, forzando e spaccando ogni regola, ogni preoccupazione di stile e di lingua. "Sbavature" se ne vedono, punti in cui l'argine cede un poco all'impeto del fiume, ma è inevitabile che sia così, mica giochiamo con secchiello e paletta: cerchiamo di fare i conti con qualcosa che sfida il mestiere, sfida il linguaggio stesso come strumento e come mondo, è l'inenarrabile che sentiamo di dover narrare. Chi si sottrae al compito, anzi, chi nemmeno s'accorge del compito, dello squalo che sfiora lo scafo, poi non venga a lagnarsi dello stato della Letteratura (si noti la maiuscola) in Italia etc. etc. etc. la dittatura del realismo thrilleristico etc. etc. etc. non vedo più i Pasolini etc. etc. etc., senza accorgersi che qui si sta cercando, con le acquisizioni e la sensibilità odierna, di fare il lavoro intrapreso da Pasolini con Petrolio. Sì, perché "ogni tanto qualche stringa si incurva, si piega all'indietro e si riannoda al passato. Da quaggiù a là dietro, dal poi al prima. Così fa il tempo, a volte... Il tempo ha cominciato a incurvarsi, e la sostanza del mondo a incresparsi..." Scirocco. Pubblicato con dicitura copyleft, su carta riciclata al 100%, sbiancata senza uso di cloro. Se vi pare poco, andate a quel Paese (cioè a questo: ve lo meritate). Buona lettura. (WM1, apparso sul settimanale Carta n.31, settembre 2005, col titolo "Scricchiolii sotto la chiglia")
Punte di proiettile Bob Spitz, The Beatles: The Biography, Little, Brown & Company (non ancora pubblicato in Italia) Non occorre tirare in ballo Spinoza (e nemmeno Negri) per affermare che il caso non esiste. Basta il buon senso comune per capire che la cosiddetta casualità si riferisce a un dominio della necessità non ancora indagato e compreso dalla mente. Tra le cose non-casuali che accadono nel flusso incessante che appare ai sensi c'è la documentatissima e ben scritta biografia di Bob Spitz sui "4 Baronetti di Liverpool". Ebbene, il libro ha esattamente le stesse dimensioni di uno Yoga Block, l'implemento concepito dal grande maestro I.K.S. Iyengar per aiutare l'esecuzione delle asana e promuovere così gli effetti benefici dell'Hata Yoga tanto sul corpo grossolano (quello fatto di ossa muscoli tendini nervi) quanto su quello sottile. Nell'approccio di Iyengar, uno Yoga Block sosterrà il praticante nell'esecuzione di Parivrittatrikonasana o di Hanumanasana finché il corpo non sarà in grado di eseguire tali azioni senza supporto. Lo Yoga Block spirituale di Spitz (983 pagine, più o meno come una buona traduzione del Mahabarata) sostiene la bhakti dei devoti finchè non si sarà in grado di viaggiare da soli in corpo astrale fino alla dimora celeste dove almeno due dei quattro capelli-a-caschetto risiedono attualmente. Non è un caso, cari lettori, che Harrison, R.I.P e Lennon. R.I.P, siano quelli che han preso più seriamente la lezione di Maharishi. L'incontro con i Beatles cambiò la vita di una generazione, quel che accade tra Amburgo, Liverpool, gli States e Rishikesh ha il sapore di una rivoluzione, nel senso di un nuovo giro della ruota del Dharma. Dopo l'introduzione del sitar, dei modi musicali indiani e dell'idea di Liberazione nella musica popolare bianca del secolo scorso, nulla è stato più come prima. Effetti benefici e perniciosi; amplificazioni stellari utilizzati come Vimana benefici o come Yantra malefici per ammorbare e deprimere adolescenti. Il mondo del rock ha visto, da quei giorni, prodursi tutto e il contrario di tutto. La storia del quartetto è la storia di una presa di coscienza generazionale, e Bob Spitz riesce a renderne il senso con una prosa limpida e coinvolgente. Dal punto di vista letterario, le prime duecento pagine, la formazione cioè dei quattro mahavira, è un piccolo grande capolavoro. Sembra di respirare gli odori di quel mondo trascorso, il profumo delle calze di nylon, dei dopobarba velleitari, farsi penetrare dall'atmosfera fumosa di piccoli club, par di vedere brufoli di adolescenti e seni in rigoglio, sembra di perdersi in scooter verso nord o verso est nell'insensata periferia di Liverpool o di Londra, e capire improvvisamente perché la musica, lassù, sia così importante. Io, che tra Beatles e Stones scelgo gli Who, sono rimasto profondamente coinvolto. E, ora che l'ho letto, utilizzo il volume per praticare l'Hata Yoga. (WM5)
Roddy Doyle, Una faccia già vista, Guanda, pagg.446, € 16,50 Traduzione di Giuliana Zeuli Le pecche di Una faccia già vista sono essenzialmente due: il titolo dell'edizione italiana, che non ricorda neanche da lontano l'originale Oh, Play That Thing; e il fatto che sia impossibile capire alcunché del romanzo senza avere letto il primo episodio della trilogia di Henry Smart. Alla seconda pecca è facile (e piacevole) rimediare, leggendosi Una stella di nome Henry, forse uno dei migliori romanzi degli ultimi dieci anni. Nel sequel, la storia di Henry riprende esattamente dove l'avevamo lasciata, nel 1921, alla fine della lotta d'indipendenza irlandese. Per Henry la decisione di lasciare l'Irlanda era stata ineludibile. Si sa che quando i rivoluzionari prendono il potere, i rivoluzionari devono tagliare la corda. Inaugurato il tempo dei politici che dovevano gestire la vittoria, in fondo alla lista dei nemici da ammazzare per la causa, Henry aveva trovato il proprio nome. Più che un'antifona. Alla fase eroica dell'insurrezione subentrava quella tattica delle faide fratricide, dei regolamenti di conti e della normalizzazione forzata. Sulla bocca dei vecchi leader che uscivano dalla clandestinità iniziavano a formarsi parole oscure: riferimenti alla razza celtica, alla santità della terra e della religione cattolica, e... un certo qual fastidio nei confronti degli ebrei. Le facce già viste diventavano scomode e bisognava proprio farle sparire da Dublino e dall'Irlanda. Possibilmente "sotto" l'Irlanda. Così comincia l'avventura americana di Henry Smart, i secondi vent'anni della sua vita, ovvero: Come un disertore dell'IRA finisce in un jazz club di Chicago gestito da mafiosi italiani, a presidiare il camerino del più grande trombettista del mondo. Proprio lui, Satchmo before Satchmo, un Louis Armstrong poco più che agli esordi, che sceglie Henry come guardia del corpo e amico fidato. Uniti nella lotta contro la mafia degli italiani che spadroneggia sull'East Coast e nel Midwest. Un'alleanza istintiva: un nero di New Orleans e un "nero d'Europa" (per citare lo stesso Doyle di The Commitments) contro Al Capone & Dutch Schultz. Ne risulta una serie di rocambolesche imprese tra fumosi night club, bar clandestini (sono gli anni del proibizionismo), bettole e boulevard; strafogandosi di jazz, mordendo polvere e strumenti a fiato, con le labbra spaccate dai pugni o dallo sforzo di suonare. E poi, via, di nuovo a scappare dai vecchi commilitoni che hanno attraversato l'Atlantico e vogliono esportare la loro inoppugnabile idea di "irlandesità" anche tra gli emigrati. Si sa che tra una mafia e l'altra i libertari non possono che vendere cara la pelle. Proprio quello che farà Henry "O'Pops" Smart, il ribelle del mondo, completo pulito e scarponi pesanti, per mollare calci nelle palle e scappare su ogni tipo di terreno. Coadiuvato nell'impresa dalla moglie guerrigliera che all'occasione spara meglio di un cecchino. Ma la terra della speranza regala a Henry anche una consapevolezza nuova delle proprie possibilità. Tra i tanti lavori intrapresi nella New York dei ruggenti anni Venti, Henry scoprirà di avere un vero talento per la pubblicità. Sa coniare slogan efficaci, sa battere la concorrenza con l'inventiva, sa sfruttare la psicologia delle masse, sa organizzare gli agenti pubblicitari come agit prop. Perché non ha fatto altro durante tutta la lotta d'indipendenza. Solo che adesso non deve più vendere una causa, ma beni di consumo, sogni di possesso. Il grande rivoluzionario diventa un creativo, un copywriter, quasi un prototipo di homo capitalisticus, ma... senza capitale. E questo, imparerà presto Henry a proprie spese, fa una bella differenza anche nel paese delle possibilità e della speranza. Non per niente, al momento del crollo del sogno americano, un giorno di ottobre del 1929, il nostro eroe si ritroverà a vestire i panni logori che gli sono sempre stati più consoni. E mentre l'onda sismica che si espande da Wall Street travolge il paese, Henry si rimette in marcia, a caccia di vita e di fortuna. Questa volta però ha la famiglia e qualche anno in più che lo accompagnano e lo appesantiscono. La stella di Henry non rifulge più come un tempo. Gli anni Trenta sono una strada lunga e polverosa, tra una ferrovia e un viadotto; passaggi sui carri merci, insieme all'umanità derelitta, portata a riva dalla Grande Depressione; furti, fughe, e poi, puntando sempre più in alto, rapine e colpi in banca che riecheggiano le imprese di Bonnie e Clyde, "Babyface" Nelson e molti altri. La storia d'amore intermittente tra Henry e sua moglie - iniziata scopando sotto i cannoneggiamenti al palazzo delle poste di Dublino nel 1916 - prosegue come un match tragicomico che entrambi vivono restando aggrappati all'ironia, anche nelle situazioni peggiori. Qualcosa di magistrale, qualcosa da invidiare (a Doyle, ma forse anche a Henry...), una saga nella saga, un perdersi e ritrovarsi quando meno te lo aspetti, con figli che nascono e riescono a crescere nelle circostanze più assurde. Alla soglia degli anni Quaranta, il Paese delle Meraviglie è diventato un Grande Nulla: infinito paesaggio rurale, popolato da bifolchi che si lasciano truffare, lontani dalle mafie lecite e illecite delle metropoli. L'America è un bluff che si regge su una gamba finta, tramandata di padre in figlio. Una finzione, sì, ma una grande finzione. Un gigantesco set archetipico, dove ti può capitare di cercare un buon posto per pisciare, o per morire, e sentire qualcuno alle tue spalle che grida: "Stop! Buona la prima!". Ti giri e sei diventato un attore (o governatore). Il bizzaro biglietto di ritorno di Henry all'isola natale è soltanto un nuovo inizio, che spalanca le porte all'episodio finale della trilogia. C'è solo da augurarsi che il miglior scrittore d'Irlanda non ci lasci appesi alle ultime righe per altri cinque anni. (WM4)
Giuseppe Genna, L'anno luce, Tropea, pagg.224, € 13,00 Cosa abbiamo qui? Reviviscenza del programma spaziale, missioni su Marte. L'Europa, la Cina, i taikonauti. Le sonde trasmettono infra-musiche del cosmo, la canzone muta di Saturno. La Telecom italiana (qui si chiama Komtel) si getta nell'agone per una commessa: il sistema di comunicazioni dei prossimi viaggi siderali. La Telecom britannica si muove a sua volta: divorare e digerire l'azienda italiana. C'è chi ha interesse a impedirlo, chi ha interesse a favorirlo. C'è il Vaticano, nel mezzo. Guerra di manager, di spie, sporchi trucchi, scandali tocciati nel sugo di fregne, dossier "compromettenti", video ripresi nei motel. La guerra sporca interferisce con amori clandestini straziati, tante esistenze si scuotono e non sanno perché. Il Mente è il protagonista, manager cinquantenne. Maura è sua moglie. Il Profeta è il suo capo. Il Faccendiere è l'uomo che torna dal locus amoenus, la savana sudafricana. Torna per un atto finale, l'agente segreto che ha perso la moglie, uccisa dal cancro, sosia di Maura con vent'anni di più. Il Massiccio e il Volpe sono due paramedici. La sborra del Massiccio contiene il primo fotone a percorrere l'anno luce. Divagazioni che sono in tema: storie dei lanci spaziali di ieri, la cagnetta Laika disidratata, morta nel vuoto. Kruscev gongolava. Raccontata come fosse Iliade, la storia del playboy Gigi Rizzi, il suo conquistare la Bardot a St. Tropez, nell'anno topico Sessantotto. Il futuro Benedetto XVI° parla come Sun Ra e rivela un piano di ascensione ai cieli. Orde di uomini primevi attraversano lo stretto di Bering spazzato da vento di ghiaccio. Esodi. Migrazioni. Moltitudini. Una catastrofe psicocosmica sbatte contro le mura del tempo. Epilogo al Polo Nord. Epilogo che evoca Gordon Pym e La nube purpurea di Shiel, dove il Polo è un lago pieno di occhi, ma anche La cosa da un altro mondo. L'asse del pianeta è la via di fuga, la direttrice, basterebbe seguirla, decollare dal cocuzzolo del mondo. L'incontro tra un uomo e una foca è un divenire, meta provvisoria del cammino, civiltà perdute e continenti alla deriva. Epilogo a Las Vegas: l'incontro tra un uomo e una tigre albina. Epilogo in Sudafrica: nasce, è maschio, e urla. Sorpresa. Sgomento per tutto quanto questo libro contiene e non tiene a sé, che dona dissipando come in un potlatch, stupore per lo scambio simbolico in questo libro. Non me l'aspettavo. Non l'aspettavo. Nessuna recensione mi aveva preparato. Incuriosito sì. Stimolato sì. Preparato a questo no, per fortuna. Leggo Tim Adams e Genna in due giorni, a Pisa dove sono di transito, in preda a evenienze fantasmali: gli anni Ottanta, McEnroe, Madonna si confessa sulla pista da ballo e penso che dopo due decenni è tornata a Holiday, poi entro in un bar-pizzeria e c'è Holiday, e Mac torna al doppio. Madonna e McEnroe sono coetanei. I giapponesi stanno in fila lungo Piazza dei Miracoli. In cima alla fila, arrivano due a due, si fotografano a vicenda. Un gioco di prospettiva li mostra a sorreggere la Torre. Uno dopo l'altro ridacchiano, simulano lo sforzo, ridacchiano, accorrono in piazza a centinaia, ridacchiano, tutti i giorni. Non sanno che la Torre è il campanile del Duomo, non si curano del Duomo, non si curano di niente. Non sanno quando fu costruita la Torre e perché. Non li vedi in altre parti di Pisa. Arrivano da Firenze, scattano la foto, ripartono. Ridacchiano. Genna è dispartecipe. Non vuole essere recensito da me o da Wu Ming. Teme l'accusa di "congrega". Teme che si parli di "pastette" e reciproci favori. Lui ha recensito i nostri libri in modo "capolavoristico". Se ti piace un libro italiano e lo dici, sei un "capolavorista". Se parlo de L'anno luce può dunque sembrare cortesia ricambiata. "Capolavoristica". Diranno che è cortesia ricambiata. Diranno che è capolavorismo. Genna prova fastidio preventivo, non vuole essere nominato. Non lo abbiamo mai recensito, pregasi continuare a non recensirlo. Lo chiede con sincerità. Capolavorismo è l'accusa di chi ripete che in Italia non c'è niente, non si scrive niente, nessuno scrive, questa è la linea!, obbediscano gli schiavi, non c'è niente! Nessuno osi dire che in Italia si scrivono romanzi potenti, è IM-POS-SI-BI-LE!, all'estero si sbagliano tutti, NON sta succedendo! Nessuno osi alzarsi in piedi o verrà impallinato. La lamentela è obbligatoria e imposta dall'alto. Tutto è finito, nulla cominci più, si canti solo la chanson égocentrique del fascismo nientista: "Non c'è niente / Non c'è niente / Non c'è niente / Non pensare a elefanti rosa / NO! / Ho detto di non pensare a elefanti rosa! / Non c'è niente..." La letteratura italiana è Piazza dei Miracoli. La Torre è la coppia Pasolini-Calvino, e pende sulla "fine del romanzo". I giapponesi sono i nientisti. Sfruttano un gioco di prospettive, simulano un impegno, uno sforzo, fingono di sorreggere il ricordo di una grande stagione. Non sanno perché fu grande, non sanno quando e perché è finita, se è finita, non sanno di cosa fece parte, perché rifiutano di capire quel che è seguito e segue. Arrivano, si mettono in fila, dicono la cazzata, non li vedi in nessun'altra via o piazza della letteratura, la sera sono già via. Costoro sono niente, sono merda, questa è la risposta, io scrivo de L'anno luce perché non posso non scrivere. Io scrivo de L'anno luce perché mi fa schifo la censura, e più schifo mi fa la censura "ambientale", quel reticolo di azioni inibenti che costruisce vergogne e morbida dittatura. Io scrivo, ma non recensisco, no, io clono la lingua e rivelo paragrafi nascosti nel testo. "Romanzo neo-borghese", dice l'aletta, perché? Non c'entra niente, no, questo è il romanzo epico, oggi. Letteratura legata al progetto di decollo dal pianeta, di abbandono dell'orbita, di esodo verso le stelle, per tutti la questione è il pianeta. Letteratura del punto di crisi. Della linea di fuga. Tutti scommettono sulla fine del pianeta, e sulla spinta esoplanetaria: il turboliberismo finanziario, la Chiesa, l'immaginario, la sopravvivenza della Specie. Tutti. L'unico momento in cui lo spazio è evocato per mero desiderio di bellezza e poesia anziché per progetto di lebensraum imperial-aziendale è poco prima che muoia Antonya, la moglie del faccendiere. L'amore è esoplanetario, ci porta fuori dai giochi terra-terra del pianeta. La canzone di Saturno illumina l'amore di Anthony e Antonya, l'unico vero amore del libro, non nevrotico, non micro-fascista. Non a caso, il Faccendiere è il vero eroe del romanzo. Il Mente è D'Alema, è Fini, è Casini, è Rutelli, è i tecnocratucci del Riformista. Il Mente è la generazione del livido cinismo, la crème al potere (o quasi-al-potere, o di rincalzo) dei cinquantenni italiani di oggi. Crede di lottare per il potere, ma il potere non sa che sia, scambia per potere il piccolo cabotaggio, il navigare a vista sentendosi machiavellici. Il potere ha una sua utopia, che a costoro manca. Fa da "tappo", in buona sostanza, questa frazione di generazione. Fa da "tappo" sugli anni Settanta. Fa da "tappo" vis-à-vis coi movimenti e al loro interno (shock in my town, ogni vino sa di tappo grazie a loro, e stan su entrambi i lati di qualunque barricata). Fa da "tappo" nella critica letteraria. Fa da "tappo" in attesa d'essere chiamata a rimpiazzare i gerontocrati, sul seggio, in cattedra, in cattedrale. Fa da "tappo" perché attende di divenire nomenklatura, è questo il suo povero sogno. Fa da "tappo" perché non conosce il mito, non lo pratica, non lo vive, non lo ama. Del mito ha conosciuto solo la versione tecnicizzata (cfr. Furio Jesi, Letteratura e mito), l'alienazione, i "viaggi a basso costo nella rivoluzione altrui", e se la Cina ci dà il fucile, guerra civile!, l'ideologia che si liofilizza e diventa disincanto, e se qualcuno mi dà la grana, non c'è miglior puttana. E gli altri? Il ragazzino è uno stronzo pomposo come tutti fummo, è il ragazzino di Le diable, probablement di Bresson. E' il Rimbaud de noantri. Fa compassione, suscita indulgenza. Gli si vuole bene perché tutti siamo stati così. Ma il suo divenire si blocca, oltre una certa soglia non possiamo più amarlo. Maura è una nullità. Sua sorella è una nullità. Il dottorino Fresia è una nullità. I paramedici sono abominevoli. Fanno schifo, costoro. Non sono irredimibili ma adesso fanno schifo, a noi che li vediamo. Il Faccendiere no. Il Faccendiere schifa la generazione del Mente. Il Faccendiere è umano, non è un simulacro di umani. Egli viene dal tempo del mito e della lotta, la lotta mitogena, le titanomachie, l'epopea delle missioni spaziali nel mondo bipolare... Il nostro divenuto è il divenire a cui egli assistette. Era a St. Tropez nell'anno topico Sessantotto. Era lì quando les Italiens conquistarono la spiaggia e i locali notturni. Gigi Rizzi è un guerriero acheo. E' ancora l'ultimo dei grandi eroi e già il prototipo dei simulacri, figura di snodo, picco e decadenza in un'unica persona. Nell'altro schieramento, è il Profeta il personaggio titanico, il reduce delle titanomachie, il gerocrate. Nel suo confronto finale col Mente, gli dice: voi non capite il potere, perché non lo amate davvero. E' questo a rendervi non-memorabili. L'anno luce è un romanzo sulla memorabilità, nella memorabilità. E' un libro di cui ricorderai quasi tutto, quasi tutto ti tornerà in mente. Non "tutto passa", ma tutto dura. E dura perché ogni frase è piena di piccoli ami, gancetti, rampini, che la appendono al cervello. Roland Barthes: "...si stabilisce un ritmo, disinvolto, poco rispettoso verso l'integrità del testo; l'avidità stessa della conoscenza ci induce a sorvolare o scavalcare certi passi (presentiti "noiosi") per ritrovare al più presto i luoghi scottanti dell'aneddoto... Saltiamo impunemente (non ci vede nessuno) le descrizioni, le spiegazioni, le considerazioni, le conversazioni" (Il piacere del testo). Ma qui l'interesse del lettore è tenuto desto sempre, perché c'è attesa dell'imprevedibile. E', questo, il risultato di un andamento: dopo tot pagine, tot paragrafi, capisci che le descrizioni no, non sono "saltabili". Dentro s'annida l'azione. Le descrizioni sono azione. L'anno luce è un romanzo di "infra-fantascienza". Narra quel che accade sotto gli esiti dell'innovazione tecnica, nel sistema limbico della cultura, dove non cessano di riemergere pulsioni ancestrali. La fantascienza è di nuovo il futuro del romanzo, dopo le "secche" degli ultimi vent'anni. Non c'è contrazione (di forme, di mercato) a cui non segua un'espansione. La fantascienza torna ed è diversa, quindi non "torna", arriva. Sbuca da chissadove, inattesa. Quel che si vede: il ritorno della scommessa sul futuro dopo anni di eterno presente. Lamentarsi della mancanza del futuro appartiene già al passato, che è presente andato a male. Qualunque sia il tema o il plot, la letteratura o che per essa può situarsi sul punto di crollo del pianeta, non per fare il punto, ma tirare la linea, la linea di fuga. Essere esoplanetaria, riguardare esodi di ieri, di oggi, di domani. Seguimmo per istinto la scia delle comete, come avanguardie di un altro sistema solare. [WM1]
Stephen King, Colorado Kid, Sperling & Kupfer, pagg.179, € 10,00 Traduzione di Tullio Dobner "...Mi disse: 'Tu torni su quella vecchia storia come un bambino che ha perso un dente torna con la punta della lingua dove è rimasto il buco'. E io pensai tra me, sì, proprio così, l'hai detta giusta. E' come un buco che non posso smettere di rovistare e tormentare, per il bisogno impellente di arrivare fino in fondo." Con questa frase, Stephen King parla al cervello e al cuore di noi post-Piazza Fontana, post-Strategia della tensione, post-Uno Bianca, post-catena di comando a Bolzaneto. Non sempre, nella "vita reale", i misteri trovano una soluzione. Sovente lasciano un "buco" tra i denti, ci finiscono dentro pezzetti di cibo, c'è rischio si formi un ascesso. Noi siamo condannati a tormentarlo, quel buco, a saggiarne i bordi con la punta della lingua, constatarne il gonfiore. Colorado Kid si presenta come "il primo mystery nella produzione di Stephen King". Bello scherzo, brillante gioco di parole (di parola): confondere le aspettative giocando con l'uso metonimico di un termine, per poi tornare bruscamente al significato letterale. E' chiaro che, quando si qualifica un'opera come "del mistero" ("mystery books", "mystery fiction"...), s'intende "della soluzione del mistero". Quel che conta è che il mistero sia risolto e spiegato. Non a caso, in inglese il sotto-genere più classico è chiamato "whodunit", "chi-l'ha-fatto". A differenza che nel noir, nel mystery/whodunit è prescritta la catarsi, a cui segue un rasserenante ritorno all'ordine. La "chiave" è la scoperta di un colpevole e di una dinamica: abbiamo già il cosa, il dove e il quando, l'inchiesta riguarda il chi, il come e il perché. Senza la catarsi, niente whodunit. Prima c'è stato il crimine, c'è stata la violenza, eppure quel crimine e quella violenza sono good news. Lo capisce bene Stephanie, in Colorado Kid: "Sono belle notizie perché sono finite" ("Bravissima!" proruppe Vince radioso... "Hanno una soluzione! Hanno una chiusura!"). Nulla di tutto ciò, in questo libro. Nessuna metonimia: ci troviamo di fronte a un mistero propriamente detto. A un mistero, non alla sua soluzione. Colorado Kid è un coerentissimo anti-whodunit, perché "di solito la vita non funziona così", la vita non è un giallo a chiave, un "giallo della camera chiusa". Dobbiamo conviverci, coi misteri, e il più delle volte non c'è catarsi (ne troviamo un surrogato nel "complottismo"). "Non sono tanto interessato alla soluzione quanto al mistero in sé", scrive l'autore nella postilla. E' l'approccio più radicale al crime novel dai tempi in cui, come disse Chandler, Dashiell Hammett "tolse il delitto dal vaso di vetro veneziano e lo gettò in mezzo alla strada". Nella produzione dell'ultimo King (prima o poi toccherà parlare della saga della Torre nera...) c'è profondità, maturità e un definitivo, radicale uscire dal "genere" (processo avviato già da molto tempo). King rifugge gli effetti prevedibili, allontanandosi anche dai tòpoi la cui frequentazione lo ha reso grande (il più grande cantastorie del pianeta, a mio modo di vedere). Nel recensire Buick 8 su L'Unità dell'8 marzo 2003, lo scrittore Beppe Sebaste segnalava l'approdo di King a "un genere molto problematico, meta-narrativo, in un certo senso europeo, con una consapevolezza altissima della responsabilità morale del raccontare (e leggere) storie". E proseguiva così: "In Buick 8...la suspense della storia è nella sospensione del senso, delle forme. Non c'è il Male, e non c'è neppure il Bene. C'è solo l'altro. Buick 8 alza la posta letteraria: è un elogio dell'informe, dell'incompiuto, dell'aperto. Mentre ci racconta una storia, osserva le reazioni che la storia suscita nei personaggi e in chi li ascolta. L'agnizione, il capitolo culminante, è una sorta di rituale in cui i personaggi a turno prendono la parola per narrare i segmenti di storia di cui sono eredi e testimoni, come nella tradizione antica dell'epica bocca-a-orecchio [...]". King sta dicendo qualcosa al lettore impaziente, a me che sono "incapace di accettare limiti alla [mia] pretesa di conoscere, alla [mia] umana presunzione che i conti tornino, che ogni evento abbia una forma riconoscibile, una spiegazione logica. E invece resta illogico e informe, come le creature immonde che escono dal bagagliaio in un tanfo di cavolo e sale marino". Che sta dicendo King? Che l'America non è più il Paese delle certezze. Buick 8, gioiello di meta-narrazione, ci parlava del post-11 Settembre e raccontava già il post-Iraq, la crisi di legittimazione che oggi attraversa gli Stati Uniti. Nel leggere Colorado Kid, fraintesissimo libro finto-minimalista e in realtà smisurato, panoramico, spalancato su tutti i possibili mondi, mi è tornata alla mente quella recensione di Sebaste. All'epoca mi aveva colpito, turbato, stimolato quasi quanto il libro stesso. Sebaste aveva colto nel segno, e a nulla servirebbe ribattere che l'indeterminato, l'inspiegato di libri come Insomnia, Cuori in Atlantide e Buick 8 diventa (giusto un poco) più comprensibile alla luce del mega-ciclo della Torre nera. Non servirebbe, perché quei tre libri non fanno parte del ciclo e, pur con tutte le strizzate d'occhio, non ne richiedono la conoscenza; inoltre, lo stesso ciclo contiene fortissimi elementi di indeterminatezza e aleatorietà. In Colorado Kid - almeno in apparenza - non vi è traccia di "strizzate d'occhio" o riferimenti diretti alla Torre nera. Colorado Kid va oltre Buick 8, ed è forse il romanzo più perturbante fra quelli scritti da King. E' perturbante in modo dissimulato... "nicodemistico". Leggendolo, mi è venuto in mente anche Scirocco di De Michele, con la sua rappresentazione "rizomatica", aleatoria e frattale del potere e del complotto. King ha ben chiara questa dimensione. King è in stato di grazia. King si assume il rischio di scontentare non pochi suoi lettori "storici", anzi, è disposto a fare "finte", a dribblarli, a metterli col culo per terra, pur di continuare a muoversi nella direzione che gli interessa. Questa catastrofe (nell'accezione matematica di "discontinuità") ci sorprende eppure non dovrebbe. King è uno degli scrittori che più si è interrogato su cosa significhi raccontare una storia. La sua "autobiografia di un mestiere" (lunga catena di riflessioni sullo scrivere, il narrare, il leggere, l'ascoltare) è esplicitata nei libri di non-fiction (l'imprescindibile Dance Macabre e il più recente On Writing), ma attraversa e informa anche la sua narrativa, dal primo all'ultimo libro, con esempi eclatanti di meta-narrazione, di scrivere dello scrivere. Prendiamo ad esempio quattro libri: Shining (1977), Misery (1987), La metà oscura (1989) e Mucchio d'ossa (1998). Questi romanzi hanno come protagonisti dei romanzieri. Il primo libro tratta del rapporto tra scrittore e scrittura, tra "ispirato" e "ispirazione". Il secondo affronta di petto il rapporto scrittore-lettore, dicendo anche cose "sgradevoli" sullo scrittore come "personaggio". Il terzo "antropomorfizza" il rapporto tra scrittore e nom de plume (dovrebbe leggerlo chi pensa che l'uso dei nicknames sia deresponsabilizzante"!). Il quarto si inarca all'indietro fino a toccare il primo, e tratta del rapporto tra scrittore e non-scrittura, allungandosi sulla sequenza: blocco dello scrittore - astinenza dalla scrittura - fine dell'esperienza di scrivere. Un romanzo dolentissimo. I libri successivi portano la riflessione su un piano che scatena l'acrofobia. Se di una storia tolgo il capo e lascio solo la coda, o lascio il capo ma tolgo la coda, eppure la storia continua a comportarsi come se avesse un capo e una coda, come quando dopo un'amputazione si prova prurito a un arto-fantasma... cosa cambia nel rapporto di fiducia tra chi racconta e chi ascolta? Come reagisce il lettore quando il libro allunga la mano per grattarsi e si vede che la gamba non c'è più... eppure la storia sta in piedi? Si sente tradito perché la gamba non c'è più o esplode di gioia perché il libro cammina senza grucce? Aspettiamo il prossimo romanzo, Cell (esce in inglese a fine gennaio, già ordinabile su Amazon) e diamoci appuntamento per proseguire il discorso. (WM1)
Punte di proiettile Valerio Evangelisti, Il collare di fuoco, Strade blu Mondadori, pagg. 440, € 16 Valerio Evangelisti pensa che raccontare l'America non sia impresa da lasciare in esclusiva agli americani. Gli americani sono troppo dentro l'America e i suoi confini immediati, difetta loro la capacità di vedersi da fuori, il distacco parziale, l'empatia con altri mondi e culture. Impero coloniale sui generis, l'America nulla sa di come la vedano i colonizzati. Non a caso nel post-11 Settembre sono usciti saggi con titoli interrogativi come Perché il mondo detesta l'America? o Perché ci odiano? Lo sguardo dei narratori europei è invece prezioso. Dopo sessant'anni di rapporto con la cultura a stelle e strisce, noi siamo anche americani. I baby boomers, fin dall'appellativo, sono stati la prima generazione euro-americanizzata, ed Evangelisti (classe 1952) ne fa parte a pieno titolo. Al contempo, però, l'Europa rimane altro: noi vediamo l'America da fuori, anche quella che è dentro di noi. Guardiamo l'America, ma i piedi sono saldi sul limine, la soglia del nostro retroterra. "Doppia coscienza", se si vuole: partecipazione e distacco. Parlando dell'America, in realtà parliamo di noi, noi Italia, noi Europa, noi stessi, visti alla luce del rapporto con l'America. Tuttavia, se un italiano ambienta un romanzo in America, subito se ne critica la "esterofilia", la presunta subalternità. Parole d'ignoranza. Non furono degli italiani, quarant'anni fa, a rivitalizzare il western, genere quintessenziale dell'autorappresentazione americana? Quando il western d'oltreoceano cominciò a imbolsirsi, a farsi manierato e fumettoso (cfr. I magnifici sette), alcuni italiani (in primis Sergio Leone) decisero di non lasciare il genere in cattive mani, si appropriarono di quel materiale e ne trassero qualcosa di nuovo e diverso, influenzando a loro volta i cineasti americani. In letteratura, il western è morto e sepolto da tempo: Louis L'Amour non c'è più, Elmore Leonard scrive altro, nuove leve non ne esistono. Dal primo romanzo del ciclo del Metallo urlante (1998), Evangelisti ha scelto di riprendere il genere e trasformarlo. Nel farlo, l'autore bolognese ci racconta le altre Americhe. Gli USA del movimento operaio dagli albori (Antracite) alla decadenza (Noi saremo tutto) lasciano ora il posto all'América che esiste appena sotto il Rio Grande e continuamente sfora, sconfina, si vendica, "contro-invade" gli invasori. L'America dei latinos che tanto spaventa i reazionari alla Huntington. Il collare di fuoco è l'inizio di una nuova saga. Come in molti spaghetti-western, anche qui ci si inoltra nel Messico rivoluzionario. Non la rivoluzione di Villa e Zapata, bensì quella repubblicana e "juarista" di cinquant'anni prima, coi suoi strascichi pluridecennali (le vicende vanno dal 1859 al 1890). Il "collare" che dà il titolo al romanzo è il rapporto conflittuale tra Messico e Stati Uniti, "annosa questione" che non perde d'attualità. Il lettore si perde e ritrova in un meta-western corale e pieno di sorprese, senza un protagonista ma con una continua staffetta tra i personaggi, che sono una miriade. Ogni capitolo è un quadro a sé stante, spostato nel tempo di qualche mese, di un anno, di un lustro, ed è impossibile riassumere la trama (le trame) in poche righe. C'è una proliferazione inaudita di nomi (almeno un nome nuovo ad ogni pagina), e appositi microsegnali dicono al lettore quando tenerli a mente e quando no. La scrittura è accordata su un finto "registro medio", in realtà eccedente, sovvertito sin dalle prime pagine. Non solo western: a essere scavato dall'interno è tutto il romanzo popolare otto-novecentesco, dal feuilleton in poi, da Dumas padre a Eugène Sue a Salgari, passando per Verne, Ponson du Terrail e Maurice Leblanc . Colpi di scena, dialoghi, rallentamenti, accelerazioni... Viene tutto da lì, e quando arriva è diverso, è una mutazione. Ad un certo punto, Evangelisti allude all'attualità in modo più scherzoso ed esplicito: "I texani, innamorati della democrazia, votavano sempre su tutto; poi non importava che elettori balordi esprimessero preferenze balorde." Il riferimento al governatore Bush non è casuale, è anzi una micro-dichiarazione di poetica: Il collare di fuoco è un romanzo antimperialista, com'era antimperialista il ciclo malese di Salgari. Mompracem resiste ancora. L'elemento di critica più potente è la descrizione del mito americano come costruzione eretta sul razzismo, l'ossessione per la razza, la fobia razziale. Del resto, senza il genocidio dei nativi, la schiavitù dei neri e il furto delle terre al Messico ("terra di meticci negroidi") - insomma, senza la "questione razziale" - l'America non esisterebbe. In questo romanzo, gli anglos sono tutti figli di una cultura fortemente razzista. Il linciaggio è il loro sport preferito. Le cose che fanno e dicono erano normali, all'epoca. Moneta corrente, e lo è rimasta fino a pochi decenni fa. Oggi quelle frasi ci fanno schifo, con la loro presenza sembrano infangare la pagina. Segno che i tempi cambiano. Ma... ne siamo proprio sicuri? E' impossibile leggere questo romanzo senza pensare all'europarlamentare Borghezio. In fondo, certa moneta non va mai fuori corso da sola, occorre mandarcela a forza. Ma guarda te cosa vado a pensare... E bravo Evangelisti! Ti mette la mano dietro la nuca e ti affonda il muso giù nella merda. La migliore pedagogia possibile, e di questo lo ringrazio. (WM1, L'Unità, 25 novembre 2005) La seconda di copertina de Il Collare di Fuoco, ultima fatica di Valerio Evangelisti, è in un certo senso imprecisa. E' vero, non c'è alcun elemento fantastico o fantascientifico in quello che è, a tutti gli effetti, un romanzo storico di impostazione classica; ma l'opera "si ricollega", eccome, ai lavori precedenti dello scrittore bolognese. Prima di tutto nel senso che ne condivide la preoccupazione fondamentale: rendere conto, questa volta attraverso gli stilemi del romanzo storico, di come "si è giunti a questo punto" nell'evoluzione biologica, culturale e politica della specie, e poi perché il contesto e l'ambientazione sono simili a quelli del ciclo che vede protagonista il buon (?) Pantera - che viene tra l'altro evocato più volte. E' dunque un romanzo tutto interno alla poderosa costruzione fantastorica del nostro: 438 pagine dense di accadimenti spettacolari e personaggi romantici, a cui è facile affezionarsi. Il Collare di Fuoco del titolo è quello che stringe il collo del Messico (potremmo dire dell'America Latina in genere, il così detto "cortile di casa" della potenza stellata). E' una metafora della sudditanza economica, politica, militare e culturale nei confronti del gigante nordamericano, rapporto complesso e determinante per il futuro del pianeta: odio-amore da una parte, crudo disprezzo, paternalismo e ambigua fascinazione dall'altra. La storia copre quarant'anni di rapporti tra gringos e greasers, è una specie di Giù La Testa epico e dilatato in cui elementi di letteratura di genere, cascami di cultura filmica e precisa documentazione storica concorrono a delineare un quadro potente, assai vivido: rivolte degli indios, lotte operaie, confederati allo sbando, nobilastri europei tronfi e fuori dal tempo, gli Apache di capo Victorio, bandoleros, rivoluzionari… L'avvio della catena causale che unisce le vicende dei molti personaggi (una vedova americana, un ranger del Texas del tutto dissimile dalla consolante oleografia bonelliana, un possidente ispano-americano, una ragazza messicana innamorata di un bandolero, un ufficiale unionista, un malvivente di mezza tacca, un generale e molti, molti altri) è una tentativo di riscatto. Questa è la chiave di volta del romanzo, dignità e riscatto: nel 1859 Juan Nepomuceno Cortina (nella foto; è il sosia di Sansonetti), un possidente messicano, guida una rivolta in Texas contro le discriminazioni cui i suoi connazionali sono sottoposti in territori che solo pochi anni prima appartenevano a loro. Rapacità e razzismo appaiono come tratto costituente e originario dell'identità norteamericana e non è casuale che autori in presa diretta con la realtà (attraverso la chiave del fantastico, della cronaca o della storia poco importa) abbiano eletto l'America a scenario privilegiato della narrazione e dell'indagine. Perché qui si tratta di riconoscere l'inizio della fine, i germi che portano alla consumazione del secolo americano che (è sotto gli occhi di tutti) avviene tra pianto e stridore di denti. (WM5)
Guglielmo Pispisa, Città perfetta, Einaudi Stile Libero, pagg.385, € 13,50 Il significato delle parole, si sa, cambia col passare del tempo. Anni fa, la frase "Questa canzone è di Tizio" risultava vera se un individuo, noto al pubblico con quel nome, era in qualche modo coinvolto nella produzione di un testo accompagnato da melodia. Oggi questo legame non è più necessario. Basta che Tizio sia implicato nel marketing della canzone; al resto pensano musicisti, compositori, cantanti, produttori. Un semplice corollario al dogma dei nuovi mercanti: non importa cosa vendi, ma come lo fai. Esiste però un ultimo miglio che le case discografiche non hanno ancora percorso: se Tizio ha una faccia, dev'essere in carne ed ossa. Non c'è modo per liberarsi di lui, del suo cachet, delle mille bizze da stellina di MTV. La tanto annunciata popstar virtuale, figlia di un programmatore e di una scheda madre, ha dimostrato più volte di non essere all'altezza. O almeno, così ci hanno raccontato. Chi può giurare che Beyoncé Knowles esista davvero?
Adriano Prosperi, Dare l'anima. Storia di un infanticidio, Einaudi, pagg.391, € 24,00 Voltaire apriva il suo Commentaire all'opera di Cesare Beccaria raccontando come alla forte impressione suscitata dalla lettura si fosse aggiunto l'effetto di una notizia di cronaca: l'impiccagione di una fanciulla diciottenne colpevole di aver abbandonato il figlio appena nato. Durante l'Età dei Lumi inizia dunque a farsi strada l'immagine della donna indifesa, vittima del conflitto tra le leggi di natura e l'ipocrisia di società imbevute di superstizione e pregiudizi. E'un tema che ai nostri occhi appare paternalistico, per certi versi affine a quello sulle qualità dei selvaggi americani e non: si tratta comunque di una discontinuità profonda rispetto al pensiero giuridico precedente. Il clima intellettuale non sempre e non necessariamente influisce sul diritto positivo: le pene per le infanticide continuarono, nondimeno, ad essere durissime durante tutto il corso del secolo. Il tema tocca la psicologia profonda della mente sociale. Il tema è di grande attualità. 1709, Bologna. Nei giorni di carnevale Lucia Cremonini, "putta honorata e da bene", abitante nel Borgo di San Pietro, viene condotta "da un prete giovane e… non conosciuto… dentro una porticella nera e piccola… e di lì giù da una scaletta in un corridoietto stretto e scuro". Il giovane chierico abusa della giovane. L'avventura si conclude in un osteria, "dove mangiassimo della mortadella, dei tagliolini e del pane…", e ognuno pagò il suo. Lucia sottolinea il punto: "Né mi diede altro né mi pagò il detto mangiare". La giovane riesce a nascondere la gravidanza, ma alla nascita del figlio si risolve all'infanticidio. Gli atti processuali sono duri, drammatici: "Dirò a V.S. per che causa il cortello… si trova segnato da sangue; et è perché la mattina… che io partorii il figlio maschio… a fine che non si scoprisse che io avevo partorito m'indussi con detto cortello a dare la morte a detto mio figlio partorito vivo mettendoli la punta del detto cortello nella gola, che feci penetrare calcandolo bene sin dalla parte di dietro nel collo… e doppo poi lo posi dentro una sporta sotto il letto affine di portarlo poi nascostamente a sepelire senza che nessuno se ne potesse accorgere…" Questo è il caso da cui prende avvio l'ultimo saggio di Adriano Prosperi, docente di Storia dell'età della Riforma e della Controriforma alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Per leggere il passato (e in controluce in presente) con la profondità che dimostra l'autore bisogna essere dotati di mezzi che travalicano la dottrina e la competenza; bisogna avere capacità di visione. L'analisi di Prosperi serve a porre domande, a capire il rapporto tra delitto e peccato nelle società premoderne, a delineare il ruolo dell'infanticidio come delitto e peccato tipico di un'umanità altra, aliena, anticristiana: le streghe, gli ebrei. Ci si interroga sul corpo della donna come proprietà sociale della comunità, fino a toccare un tema davvero centrale :se esista e in che cosa consista la natura dell'uomo. Quasi quattrocento pagine fruibili come un buon saggio anglosassone, profonde, documentate e dense di suggestioni come un buon saggio francese. (WM5)
Jess Walter, Senza passato, Piemme, pp.319, € 17,90 Traduzione di Alfredo Colitto Ci ho messo un po' prima di cominciare questo romanzo, poi, quasi per caso, l'ho aperto e mi ha risucchiato. Stava sul tavolo perché me l'aveva spedito l'editore. L'avessi visto in libreria, non so se l'avrei comprato. Titolo italiano anodino, copertina depistante, si presenta come un libro canonico e banale, thrillerazzo da edicola di stazione, invece è brillante, inatteso, stupisce a ogni pagina. Il titolo originale è Citizen Vince, il cittadino Vince, e infatti è un romanzo sulla cittadinanza come conquista, oltreché una satira del processo elettorale americano e un romanzo storico sull'altroieri. E' il 1980, Ronald Reagan sta per sconfiggere Jimmy Carter e diventare presidente con gli argomenti che i destrorsi di tutto il mondo (Berlusconi compreso) ci propineranno da qui in avanti. Proprio gli stessi. E' la riscossa dell'America profonda "dopo cinquant'anni di erosione liberal", come se in mezzo non ci fossero stati Nixon e Ford. E' un po' come la storia che i comunisti hanno governato l'Italia per cinquant'anni, all'ombra di una costituzione "bolscevica". Vince Camden in realtà non si chiama così. Quello è il nome che gli ha dato il programma protezione testimoni dell'FBI. Vince è un ex-criminale (in realtà una mezza tacca) che ha deposto contro la mafia di New York e ora riparte da zero, pasticcere a Spokane, stato di Washington. A dire il vero, continua a delinquere: vende marijuana e ruba carte di credito. Inoltre è paranoico, pieno di tic, legge un sacco di romanzi ma soltanto i primi capitoli. Ascolta per ore i deliri del suo aiuto-fornaio, un ragazzotto di nome Tic, cervello in pappa e logorrea immaginifica ("Si chiamava 1984. Lo leggevamo a scuola. Era di un certo Harvell, un francese. Lo ha scritto nel 1500, più o meno, e ha predetto che nel 1984 non sarebbe più esistito il football, il basket, niente. L'unico sport sarebbe stato il ciclismo sulle BMX"). Vince è un personaggio senza direzione, ma un giorno riceve per posta il suo primo certificato elettorale. Per lui è una rivoluzione personale, l'occasione per diventare un cittadino a tutti gli effetti, un citoyen nel senso repubblicano. Le imminenti Presidenziali divengono il simbolo del vero inizio di una nuova vita. Vince si interroga su chi votare, segue i comizi, assiste attonito a un discorso di Michael Reagan, figlio del futuro presidente. L'intera nazione è in delirium tremens dopo le sbornie degli anni Sessanta, i postumi del Watergate e la necessità di una nuova ubriacatura. Cominciano gli anni Ottanta, l'inizio del tracimare dello schifo. Nel frattempo, in città arriva un sicario che ha il compito di eliminare l'infame, un autentico psicopatico di nome Ray. Vince tornerà a New York per convincere i boss della mafia ad annullare il "contratto". Un certo "Johnny Boy", irascibile guappo di Brooklyn, si rivelerà essere... No, non lo dico. Intanto, Vince continua a chiedersi per chi votare. Questo romanzo è un gioiello nascosto, schiacciato da tonnellate di paccottiglia. Recuperatelo. Salvatelo. Alcuni capitoli sono veri pezzi di bravura, come quelli in cui il lettore entra direttamente nella testa di Carter e poi in quella di Reagan. Di Jess Walter, Piemme ha pubblicato altri due romanzi. Ça va sans dire che me li farò spedire. (WM1)
Matteo Casali & Grazia Lobaccaro, Sotto un cielo cattivo, voll. 1 e 2, Innocent Victim/Magic Press Michele Petrucci, Numeri, Innocent Victim/Magic Press Innocent Victim è un comic lab, un collettivo allargato di fumettari (disegnatori, sceneggiatori, editors…), con base a Reggio Emilia. Attivo dal '97, è una delle poche realtà indipendenti, sorte come funghi negli anni Novanta, ad aver tenuto botta, con grande determinazione, un colpo dopo l'altro. Nell'inverno del 2005, dopo 9 uscite, chiuderà in bellezza il progetto "Atmosfere", un'intera collana in collaborazione con l'editore romano Magic Press. Di tutte le uscite targate IV , si tratta forse delle più reperibili (basta fare una visita allo store di www.magicpress.it). Io ne ho avute per le mani sei. Tutte sceneggiate da Matteo Casali, tranne una. Premetto che non sono un esperto di fumetti. Li leggo a casaccio e soprattutto non mi intendo di inchiostrature e primi piani: guardo l'effetto complessivo. Disegni, testi, intreccio. In questo approccio casuale e serendipico al fumetto italiano, non avevo ancora incontrato una così profonda sintonia col "nostro" modo di raccontare storie. Mi riferisco in particolare alle due graphic novel, Sotto un cielo cattivo e Numeri, entrambe piuttosto simili come impostazione: didascalie abbondanti, bicromia, tratti molto distanti sia dal bianco e nero bonelliano che dai supereroi Marvel e dai manga giapponesi. Tutte scelte che hanno fior fior di detrattori: secondo alcuni, in un fumetto "vero e proprio", il testo dovrebbe quasi coincidere con i dialoghi, senza orpelli. Secondo altri, la bicromia è roba da fighetti, buona giusto per tirarsela da artisti. Può darsi. Quel che importa, comunque, non è lo strumento narrativo in sé, ma l'utilizzo che ne fai. L'esercizio di stile diventa pedante quando la lingua non si specchia nella trama. Altrimenti è un elemento narrativo e se funziona, aiuta a raccontare meglio. Il test più efficace è immaginarsi se altre scelte avrebbero contribuito meglio nel colorare la trama con la giusta atmosfera. In questi due casi, la risposta è no. Sotto un cielo cattivo è la storia di Harold Wippelman, un uomo che uccide nelle notti elettriche di tempesta, e degli Stati Uniti, una nazione che uccide con le scariche elettriche di una sedia. Harold è nato nel giorno della morte di William Kemmler, il primo a "cavalcare il fulmine", prima vittima dell'elettrocuzione, la pena capitale a corrente alternata. E' il 6 agosto 1890. Harold cresce, perde la madre in una notte di lampi, finisce in orfanatrofio, ammazza una donna quasi per caso e tra folgori e tuoni rivede lo spettro della madre. Da allora, decide di cavalcare la furia. A Philadelphia, durante gli scioperi dei primi del Novecento; lontano dalle trincee d'Europa, sepolto dal Big Nowhere americano; Nella Chicago dei gangster e della Depressione. Ovunque lo portino le gambe e il desiderio di incontrare ancora lo spettro. Nel secondo volume, un colpo di scena narrativo - forse non proprio necessario, senz'altro coraggioso - modifica la prospettiva del racconto e porta Harold verso il suo destino. Abbastanza prevedibile, viste le premesse, non altrettanto il percorso immaginato da Casali per farlo avverare. Percorso dove Mito e Storia si intrecciano continuamente, con un'attenzione al dettaglio e alla ricostruzione che mi tocca molto, molto da vicino. Attitudine simile a quella di Numeri, scritto e disegnato da Michele Petrucci. Qui l'ambientazione è al presente, in un carcere sudafricano, dominato dalla legge dei Madoda, i "Numeri" appunto, le gang criminali che si fanno chiamare 26, 27 e 28 e mescolano in un unico calderone delinquenza e voodoo, vita quotidiana e leggende tribali. I disegni ricordano certi quadri espressionisti, distorti dalla loro stessa energia. Molte vignette, quasi a fare da contrappeso a certi passaggi un po' didascalic,i sono senza baloon e didascalie: solo silenzio, gesti primordiali, misteri appena intuiti, accenni di biografie e di cronache, sempre sospesi sul filo del non detto e dell'indicibile. La bicromia rende perfetto il susseguirsi monotono (ma niente affatto "incolore") degli spazi carcerari, sorta di "verità oltre lo specchio", semplice e scarnificata, dell'intera società. La storia è quella di Jumat Moosa. Di lui sappiamo pochissimo: non il reato che ha commesso, non la pena che deve scontare, nemmeno l'età. Di certo è più colto della media dei detenuti. Ha militato in una formazione di autodifesa popolare contro il dominio delle gang, ma ne parla in tono disilluso: si è fatta corrompere, è diventata anch'essa una specie di gang. Nient'altro. E' quanto basta per raccontare il suo percorso paradossale ed emblematico. Un percorso che non ci dice qualcosa soltanto sul carcere, la violenza, i vizi della società sudafricana uscita dall'apartheid. E' qualcosa di più profondo, che riguarda l'uomo e gli strani meccanismi delle sue passioni, della repulsione e del fascino, dell'odio e dell'attrazione. Chissà se Petrucci disegnerà mai qualcosa di simile sul carcere italiano e le sue storie, vero e proprio osservatorio per comprendere i cambiamenti e le cancrene del nostro paese. Dopo aver letto Numeri, me lo auguro davvero. Per il momento, a rallegrare gli occhi e il cuore, ci sono le altre produzioni Magic Press/Innocent Victim: i tre volumi del leggendario BoneRest, delirio di religione e desiderio, apocalisse in cemento e sogni, con uno strano angelo vendicatore, bianco latte, senza bocca, arrivato sulla terra dall'uscita di servizio di un cinema di Manhattan e i tre volumi di Road's End, sulla fiducia, sperando che Babbo Natale me li faccia avere in anticipo. (WM2)
Mary Woronov, Snake, Meridiano Zero, Pagg.186, € 12,00 Traduzione di Giuliana Zeuli Ho letto Snake quasi per caso, attratto dal nome dell'autrice, per anni modella di Andy Warhol, artista a tutto campo, amica dei vari Lou Reed, John Cale, Iggy Pop. Tempo fa avevo sfogliato il suo libro sulla Factory e mi aveva lasciato molto freddo. "Vediamo come se la cava con la narrativa", mi sono detto, e ho scoperto un romanzo come ce ne sono pochi. Alle prime pagine, non ero così convinto. Temevo la classica storia con bambina visionaria, nonna strega e madre assente. La lingua mi ha convinto a proseguire. Mai una metafora banale, mai una frase scontata. Stile massimalista, zuppo di colori acidi, senza pace. A tratti eccessivo, eppure controllato: un quadro di Pollock dove ogni schizzo è il risultato di una traiettoria voluta. Ottimo antidoto se avete fatto indigestione di telegrammi ellroyani. Ottimo approccio per l'ennesimo romanzo definito noir. La scrittura ha subito le carte in regola per dilatare gli schemi del genere. Della trama vorrei dire il meno possibile. Topos principale: il viaggio, l'America on the road. Ma anche: la vita ingenua e dissoluta della ragazzina di campagna che va a vivere nella grande metropoli. E poi la passione che accieca, la pazzia, la realtà e l'illusione. La struttura intreccia capitoli in sequenza lineare (ambientati nel passato) con brevi flash attuali. Solo dopo diversi capitoli si capisce davvero che questi ultimi sono il risultato dei primi, la situazione presente scaturita dagli eventi passati. Solo alla fine si riesce a ricostruire l'intera vicenda. Le ultime pagine sono di puro godimento perché l'intreccio, fino a quel punto surreale, pieno di buchi, dubbi, fatti che sembrano accadere solo nella testa dei personaggi, diventa tutto a un tratto limpido, preciso, implacabile. Un romanzo stile Cuore Selvaggio che all'improvviso diventa I soliti sospetti. Un noir tutt'altro che pret-à-porter, capace di giocare in molti modi, di nascondersi e ritrovarsi. Un viaggio dalla California all'Idaho, andata e ritorno, e dalla normalità alla pazzia, forse solo andata, forse senza nemmeno alzarsi dalla poltrona. (WM2)
Moacyr Scliar, Piccola guida per naufraghi con giaguaro e senza sestante, Meridiano Zero, pagg.125, € 8,00 Traduzione di Vincenzo Barca Sul gusto di Meridiano Zero per i titoli ho già detto abbastanza in altre occasioni e non voglio insistere. Per fortuna, un fiuto inversamente proporzionale a questo ce l'hanno nello scegliere i libri da pubblicare, ed è quello che conta. Yann Martel, autore di Vita di Pi, definisce il libro di Scliar una "scarica di caffeina elettrica" per la sua fantasia. Vita di Pi non l'ho letto, ma un giorno, dalle parti di Bologna, ho incontrato Enzo Fileno Carabba, l'autore di Pessimi Segnali, e quando mi ha chiesto di consigliargli una lettura gli ho fatto il nome di questo autore gaúcho di Porto Alegre che mi aveva fulminato pochi mesi prima. Racconto la trama, lui rimane a bocca aperta e insomma pare che Vita di Pi sia ben più che ispirato da Scliar. Ci sono idee prese di pacca da un romanzo e trapiantate nell'altro: il bello è che Martel lo ammette senza pudore, mentre Scliar, da buon sudamericano, non s'è mai lamentato. Un bell'esempio di come ci si possa (e debba) comportare di fronte a un plagio coi fiocchi. Del resto, se uno ha scritto un libro come Max e os felinos, può vivere tranquillo, nella consapevolezza che qualunque imitazione sia un omaggio a una storia che tutti avrebbero voluto raccontare con la stessa leggerezza. La storia è quella di Max, giovane berlinese costretto ad abbandonare la Germania nazista. Cresciuto nel magazzino di un pellicciaio, ha sviluppato una forma di timore affascinato per i grandi felini. Guarda caso, la nave che lo porta lontano da casa trasporta uno zoo, così che Max dovrà fare i conti con le sue paure e i suoi strani desideri. Dopo una traversata onirica, che forse è sogno e forse no, Max approda in Brasile. Ma il nazismo non è più problema della sola Germania e i nemici continuano a braccare Max, anche molti anni dopo la fine della guerra e la caduta di Hitler. Forse perché il nazismo non è nemmeno più il problema di un semplice periodo storico. E' qualcosa che riguarda l'umanità, così come la vendetta e la giustizia che assillano il protagonista fino alla vecchiaia. Fino al giorno felice in cui Max Schmidt si troverà in pace coi suoi felini. Centoventicinque pagine da leggere in una notte o meglio in una domenica di pioggia, se non volete far tardi con la luce accesa e il libro che brucia sulle dita. Una favola perfetta, con la giusta dose di fantasia surreale e di Storia. Una vicenda di giustizia e redenzione, oltre la retorica di violenza e non violenza, scritta alla maniera del miglior Chavarrìa. Una fiaba, anche, sulla convivenza possibile, tanto quella tra uomini che quella, più difficile, con i nostri felini. (WM2)
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