The Making of Guerra agli umani
La scintilla iniziale di questo romanzo si è accesa per caso in una notte di settembre del 2002, alla festa dell'Unità, dopo diversi mesi passati a far ricerche su un finto capo indiano venuto in Italia ai tempi del fascismo, per poi scoprire che quella storia l'aveva già raccontata qualcun altro.
Rottissimo nei coglioni, scartabello volumi alla sezione usato della libreria, finché non mi capita in mano:
G. Dalla Casa, Guida alla sopravvivenza. Imparare ad essere autosufficienti alle soglie del crollo della civiltà tecnologica, MEB 1983
Lo apro. L'introduzione comincia così:
"Non occorre una grande fantasia per rendersi conto che l'odierna civiltà industriale è un fenomeno impossibile sulla terra".
E finisce consigliando di apprendere l'arte dell'autosufficienza e pensare fin da subito a un luogo appartato dove ricominciare.
"Forse pensate che troppa gente vi salirà, e di tutti i tipi. Ma probabilmente non sarà così: chi è ormai visceralmente attaccato al suo mondo di oggetti e di simboli non salirà dove l'accesso è faticoso, quando le automobili non andranno più, e le funivie saranno fili inutili, buoni solo a deturpare la montagna. Preferiranno lottare a morte nelle pianure, nel vano tentativo di restare aggrappati alle "comodità", per contendere agli altri con la violenza quel poco che sarà rimasto".
Ho pagato il libro a peso, insieme a una bella edizione della Bhagavad-gita e a Potere e Sangue di Stephen Fox. Il miglior affare della mia vita.
Per tutto il mese di ottobre ho girato con la "Guida" in tasca, e a chiunque mi capitasse a tiro, dispensavo perle di allucinata saggezza estratte qua e là dalle pagine ingiallite.
Nel giro di una settimana ho capito di aver in mano la materia prima per un nuovo personaggio e ho cominciato a rigirarmela in testa, come un vaso sul tornio, per darle forma e struttura.
Volevo un tizio che mollasse tutto per trasferirsi in una grotta, nutrirsi dei frutti del bosco, diventare "supereroe troglodita", senza essere un paramilitare della sopravvivenza e nemmeno un fricchettone fuori tempo massimo.
Volevo uno come Henry David Thoreau, solo molto più primitivo e molto meno consapevole. Che cucina sul fuoco ma sa a mala pena come fare ad accenderlo. Che rinuncia al riscaldamento e all'acqua potabile, ma non può separarsi dal suo lettore CD e da centinaia di batterie di ricambio.
Volevo uno che giudicasse più incombente il crollo di sé stesso e delle proprie certezze, piuttosto che quello, ineluttabile ma distante, della civiltà occidentale.
Niente new age. Niente Robinson Crusoe. Niente telecamere.
Solo un povero cristo, magari un po' anarchico, stanco di lavori precari, automobili e calci in culo.
Trovato il mio uomo, ho cominciato a ragionare sull'ambientazione.
Un tizio così non va molto lontano. A parte che non ha i soldi per andarci, ma poi anche Thoreau costruì la sua baracca di tronchi a pochi chilometri da casa, sul lago di Walden.
Ai suoi tempi, nel 1850, bastava poco per togliersi di torno la maggior parte dei rompicoglioni.
Ma oggi? Supponiamo che il nostro cerchi rifugio in una grotta sull'Appennino, un luogo sperduto, ma certo non abbastanza.
Per i deambulatori della domenica, certi boschi fuori città sono già un ambiente selvaggio, quanto basta per restare sul sentiero, portarsi il siero antivipera e le pastiglie per depurare l'acqua. O viceversa: per perdersi a duecento metri dal parcheggio, sprofondare nel fango fino alla caviglia con le Nike nuove di trinca, farsi venire una congestione per aver fatto il bagno nel laghetto pochi giorni dopo il disgelo, sparire sotto una valanga per non aver tenuto conto del fattore neve.
Partendo da questi presupposti, ho afferrato la lente di ingrandimento fornita da Google e dalla Rete, e mi sono messo a cercare quello che i villeggianti scoprono di rado, troppo intenti a riconoscere un'amanita falloide o a fotografare il panorama dalla terrazza sopra il residence.
Oltre le prime colline, uno sterminato cantiere per il passaggio della ferrovia veloce buca montagne, inghiotte sorgenti, satura l'aria di polveri e frastuono.
Dietro l'ultima casa del paese, cacciatori senza scrupoli fomentano strani commerci di cinghiali, bracconieri intraprendenti costruiscono trappole e tagliole, migranti clandestini vengono schiavizzati come boscaioli per il taglio dei cedui.
In fondo alla sterrata, quella che sale fino al ripetitore, sull'aia di un vecchio rudere, qualcuno organizza combattimenti tra cani, finge di gestire un canile per conto del comune, quando in realtà deve coprire solo altri traffici.
Di là dal fiume, mezzo prosciugato per via del cantiere…
Terminate le ricerche, - che in realtà non finiscono mai - la sfida che avevo di fronte mi è apparsa chiara e avvincente. Si trattava di incrociare Voltaire ed Elmore Leonard. Scrivere Candide come se fosse una crime novel. Fare un romanzo filosofico settecentesco che si potesse leggere come Get Shorty o Tishomingo Blues. Parlare delle miserie della civiltà occidentale e dei proiettili Sauvestre calibro dodici. Parlare di rifiuto del lavoro e di pitbull addestrati a uccidere. Parlare di nomadismo, radicamento, traffico illegale di animali e negrofilia.
Il tutto, senza mai perdere la leggerezza.
Senza essere Voltaire, e nemmeno Leonard.
Ma lo stesso, con la voglia di provarci e una vaga sensazione di poterci riuscire.
Giudicate voi e fatemi sapere.
Wu Ming 2, febbraio 2004
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