I GIORNI PERDUTI DI DAMASCO – da GQ Italia, # marzo 2009

di Wu Ming 4

Sai che arrivò da sud. Da Dera’a e da Tafas, luoghi topici della sua epopea, noti a chiunque abbia letto I Sette Pilastri della Saggezza. Oggi sono rispettivamente una cittadina di confine, dove passa ancora il vecchio tracciato della ferrovia, e un anonimo villaggio di case e tende, circondato da vigne e uliveti. Proprio a Tafas fece risuonare il famoso ordine “No prisoners”, scatenando la rappresaglia araba sui turchi che avevano massacrato gli abitanti del villaggio. E’ una delle scene madri del kolossal di David Lean e lui è Lawrence d’Arabia, ovviamente. Il tizio che sei venuto a cercare, novant’anni dopo il suo passaggio da queste parti.

La statale 5 corre attraverso una piana di terra rossa, schiacciata dal cielo blu cobalto e interrotta solo da sparute colline e muretti di sassi.
Mano a mano che ti avvicini alla capitale il traffico aumenta, finché ti ritrovi in un marasma di macchine che marciano cofano contro bagagliaio. Soprattutto una miriade di taxi gialli e pulmini collettivi, visto che a Damasco non c’è la metropolitana. La grandeur di regime vorrebbe che i lavori per la metro fossero già in fase di studio, ma qui tutti sanno che la geologia non è un’opinione e che questa città poggia sulla sabbia. Il suo destino è quello di Venezia, ogni anno sprofonda un po’ di più. Troppi palazzi, automezzi, gente: troppo peso. Il paradigma di tutto questo è l’edificio che svetta in pieno centro, un mostro di dodici piani in cemento armato, ineludibile alla vista, completamente vuoto. Tirato su negli anni Settanta, avrebbe dovuto diventare il più grande centro di studi arabi dopo quello di Parigi. Ma i progettisti non avevano fatto i conti con la subsidenza. Finita la struttura portante si accorsero che il palazzo sarebbe stato troppo pesante, il terreno avrebbe ceduto, con conseguenze imprevedibili. Risultato: è lì da trent’anni, monolito che proietta la sua ombra sulla città come una gigantesca meridiana. Una città che formalmente ha un milione e settecentomila abitanti, ma l’intera area urbana raggiungeva già i quattro milioni qualche anno fa e ha toccato i sette dopo l’arrivo degli iracheni in fuga dalla guerra. Se poi si considera che metà degli abitanti sono pendolari giornalieri… questo spiega il traffico.

Lawrence non deve avere avuto certi problemi entrando in città su una Rolls Royce decapottabile dell’esercito britannico, il primo giorno d’ottobre del 1918. Meglio per lui, perché quella mattina aveva fretta: dopo due anni di guerra voleva consegnare agli arabi la loro antica capitale. Per questo doveva battere sul tempo le avanguardie britanniche che erano già ai margini della città. La Rolls puntò dritta sul palazzo dell’amministrazione turca, dove nei tre giorni successivi Lawrence e i capi arabi avrebbero instaurato il primo governo indipendente della Siria dopo quattrocento anni di occupazione ottomana.

A dimostrazione che i luoghi hanno una certa continuità tematica, oggi l’edificio ospita il Ministero degli Interni. Si trova nel vecchio quartiere amministrativo, a poche centinaia di metri dalla stazione dei treni dell’Hejaz, dove il 3 ottobre 1918 Lawrence e lo stato maggiore britannico ricevettero il principe Feisal, discendente del Profeta e guida della rivolta araba.

All’esterno la stazione è tale e quale, anche se dentro è diventata una libreria (con i testi di Marx e di Che Guevara in arabo) e i binari non ci sono più. Quest’anno la ferrovia che Lawrence martoriò con la dinamite per tutto il corso della guerra ha visto celebrare il suo centenario. Fuori dell’edificio si può ammirare una delle prime locomotive che percorsero la tratta Damasco-Medina. E’ una Arnold Jung Lokomotivfabrik, classe 1908, rigorosamente tedesca, visto che fu il Kaiser Guglielmo a fornire gli ingegneri e la tecnologia per collegare i quattro angoli dell’impero ottomano.
Provi a immaginare la gente festante in quel giorno d’ottobre, la fanfara che accoglie Feisal… ma sai che fu un sogno di breve durata. Nel 1920 la Francia rivendicò il dominio sulla regione in base agli accordi di spartizione pre-bellici, e gli inglesi abbandonarono gli alleati arabi al loro destino. A luglio le truppe d’occupazione francesi sconfissero il ridicolo esercito siriano ed esiliarono Feisal. Pare che il generale Gouraud marciasse dentro la città fino al mausoleo di Saladino e desse un calcio al sarcofago del grande condottiero, dicendo: “Sveglia, Saladino! Siamo tornati. La mia presenza qui sancisce la vittoria della Croce sulla Mezzaluna”.
Tanto per rendere chiaro fin da subito che aria sarebbe tirata da quel momento.

Il fatto è che Saladino qui è un eroe nazionale, quello che le suonò di santa ragione ai crociati, molti dei quali francesi, tra l’altro. Non a caso il suo modernissimo monumento equestre, proprio davanti alla cittadella, li vede rappresentati sul retro, sotto il culo del cavallo, cornuti e mazziati, come si suol dire. E probabilmente non è una coincidenza che pochi passi più in là, all’ingresso del souq, svetti una gigantografia del presidentissimo Bashar al-Assad che porge la mano sorridente a chi entra nella città vecchia e dichiara: “I believe in Syria”.
Del resto la sua faccia è dappertutto: sulle auto, esposta nelle botteghe, spruzzata sui muri. Però non ha proprio l’aria del Grande Fratello. Piuttosto l’espressione un po’ incredula di uno che un giorno è stato strappato al proprio destino di oculista londinese per diventare leader di una nazione. In effetti, nonostante la statura da giocatore di basket, si tratta del fratello piccolo, che a causa della morte prematura del maggiore, a soli 35 anni ha dovuto fare i bagagli e succedere al padre nel ruolo di rais. Se non fosse storia contemporanea sarebbe una sceneggiatura hollywoodiana. Chapeau.

Ogni retorica patriottica si fonda sui conflitti armati. La versione locale predilige ovviamente quello con Israele, in particolare la guerra lampo del 1973, celebrata come vittoria tanto a Tel Aviv quanto a Damasco. Qui ha meritato un intero padiglione tematico alla periferia cittadina, l’October War Panorama, con esposizione di cimeli bellici, ricostruzioni tridimensionali, raffigurazioni di Assad Sr. in veste di condottiero invitto. L’estetica prometeica del luogo raggiunge davvero il sublime.
Ma è soprattutto nella resistenza contro i francesi che l’identità nazionale affonda le sue radici: la lunga sanguinosa lotta che ha portato all’indipendenza del paese dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Se ci si inoltra nella città vecchia lungo Souq al-Hamidyya e invece di lasciarsi attirare dagli ori e dai vestiti esposti nelle botteghe si alzano gli occhi, ci si accorge che la copertura in lamiera della strada è completamente bucherellata. Sembra un cielo stellato e invece sono i fori delle raffiche degli aerei francesi, che nel 1925 bombardarono la città. Si è pensato bene di lasciarli lì, per non dimenticare.
Feisal invece, e Lawrence, i primi a opporsi all’occupazione francese della Siria, si è preferito dimenticarli, cancellarli dalla memoria condivisa e dalla rappresentazione pubblica. Uno veniva dall’Arabia, l’altro era un agente occidentale: un’accoppiata di stranieri scomoda per qualunque nazionalista. Fa impressione pensare che in Giordania i pacchetti turistici includono il tour nel deserto sui luoghi di Lawrence, con tanto di pernottamento sotto la tenda e sosta nell’oasi. Qui no, niente vacanze a buon mercato nell’esotismo altrui. Qui l’autoindulgenza orientalista non serve. Ti addentri nel dedalo della città vecchia e anche se non sei travestito da arabo, ma da turista occidentale, nessuno ti interpella, nessuno ti si appiccica addosso per venderti qualcosa. I siriani sembrano così “britannici”. Lo confermano anche gli italiani che vivono qui: le ragazze mi dicono che circolano di notte per questi carrugi senza problemi. “Questo è un paese islamico: molestare una donna per strada è un fatto grave, che comporta una sanzione sociale immediata”, dice Manuela, che studia l’arabo qui da due anni.
Non sono affatto pochi gli italiani in Siria. A parte gli studenti di arabo, c’è una fitta schiera di archeologi, come Gabriella, che da nove anni fa avanti e indietro tra Roma e Aleppo seguendo i turni di scavo. La Siria è un gigantesco giacimento di rovine antiche. Sono quarant’anni che le spedizioni archeologiche italiane lavorano a Ebla e non solo. La città vecchia di Damasco è un condensato di storia in pochi chilometri quadrati: sventri una strada per riparare una tubatura dell’acqua e saltano fuori colonne e capitelli. Proprio in fondo al souq devi passare sotto un arco romano per raggiungere la grande moschea Ommayade, il terzo luogo santo dell’Islam, dopo quelle della Mecca e di Medina. Un posto incredibile.

Oltre il grande cortile interno tirato a lucido come un salotto, si entra nella sala di preghiera. C’è chi prega davanti alla tomba di San Giovanni Battista, chi recita orazioni in gruppo e chi legge il Corano per i fatti suoi. Capannelli di donne sciite velate di nero si assiepano intorno al mausoleo di Hussein, il nipote di Maometto, e lo toccano finché non vengono allontanate dai custodi. Ma se alzi gli occhi vedi il soffitto a cassettoni e le navate, e capisci che questa era una basilica cristiana.
Del resto Damasco è la città dell’illuminazione di San Paolo, dove è nato il cristianesimo e dove vive la comunità cristiana più antica del mondo. Ti sposti di poche centinaia di metri e sei nel quartiere cristiano, con le madonnine agli angoli di strada, i campanili al posto dei minareti, e i negozi che vendono alcolici. I cristiani sono il 10% della popolazione, suddivisi in una vasta gamma di confessioni: armeni, copti, cattolici romani, greco-ortodossi, siriaci, maroniti. A loro volta vivono insieme a islamici sunniti, sciiti, ismailiti, alawiti e drusi. E’ rimasta perfino qualche famiglia ebrea, anche se dopo le guerre con Israele la maggior parte degli abitanti del quartiere ebraico ha preferito comprensibilmente cambiare aria. Nonostante tutto, questo “stato canaglia” è l’esempio vivente che le religioni e le confessioni monoteiste possono convivere. Qui la storia antica e moderna, con le sue contraddizioni vive, la respiri nell’aria.
Eccetto quei tre giorni perduti di ottobre del 1918 e i due anni seguenti, che sembrano svaniti nel nulla.

Ci ha pensato l’industria televisiva, specializzata in soap opera a sfondo storico, a far tornare a galla il rimosso nella veste più pop. Lo sceneggiato più famoso in Siria, giunto alla terza serie, è Bab el-Hãra, ambientato durante l’occupazione francese. Proprio quest’anno, nel mese di Ramadan, quando vengono lanciate le nuove serie, è stato trasmesso quello che potrebbe essere considerato un prequel, cioè la prima produzione siriana su Lawrence d’Arabia. Per la gente di qui è stata una vera scoperta.
Non è un segnale isolato. Nell’ambito delle iniziative per “Damasco capitale della cultura araba 2008″ il Museo Nazionale ha allestito un’esposizione sui “Pionieri dell’archeologia siriana”, con fotografie e materiali d’archivio che raccontano gli ultimi cento anni di scavi archeologici. Lo spazio dato a Lawrence come archeologo all’interno della mostra è decisamente sproporzionato rispetto al suo reale contributo alle scoperte (in fondo prima della guerra era solo l’aiutante dell’assai più famoso Leonard Woolley). Difficile non pensare a un’allusione indiretta alla sua seconda venuta da queste parti, in veste di leader guerrigliero.
Vuoi vedere che Lawrence rientra nella storia siriana dalla porta di servizio? Sarebbe tipico della sua figura. Non è mai troppo tardi per una rivincita.

La pulce nell’orecchio te la mettono le parole di Omar, chimico poliglotta che appartiene alla borghesia laica damascena: “Io sono islamico, prego cinque volte al giorno. Ma il mio rapporto con Dio sono affari miei. Odio i fondamentalisti, sono feccia, sono un regalo degli Stati Uniti, io non li voglio, non voglio la loro demagogia, la rivoluzione islamica spacciata agli ignoranti.”
Lawrence se ne andò da qui il 4 ottobre 1918, esasperato e roso dal senso di colpa. Sapeva di avere fatto il possibile per i suoi amici arabi, ma li aveva anche consegnati nelle mani degli imperialisti che lo avevano spedito in mezzo a loro. Aveva giocato il nazionalismo panarabo contro il panislamismo dell’impero turco e – almeno in questo – aveva avuto successo. Ci sono voluti novant’anni e l’appoggio occidentale a gente come Bin Laden e i Mujaiddin, per vanificare quell’idea e rendere possibile il ritorno in auge degli islamisti. Quelli che oggi mordono la mano che li ha nutriti. E’ questa la storia che traghetta il secolo trascorso nel presente, spuria e poco edificante, ma che da qui, dalla città più antica del mondo, prende una nuova prospettiva. I giorni perduti di Damasco recuperano il loro significato e ti riconciliano con lo spettro che eri venuto a cercare. C’era del buono “in Danimarca”, anche se l’amletico principe del deserto alla fine è stato sconfitto.
Ecco perché, prima di ripartire, ti piace scrutare il bordo delle colline al margine della città, dove finiscono le case, e pensare che da qualche parte, là fuori, lui cavalchi ancora.
[per Omar Berakdar]

2 Responses to “I GIORNI PERDUTI DI DAMASCO – da GQ Italia, # marzo 2009”

  1. Paola Di Giulio Says:

    @WM4: ciao, questo pezzo lo stavo aspettando da ottobre…grazie. :-)
    Tempo fa ho trovato sul web un sito con vecchie foto di Damasco:
    http://news.webshots.com/photo/1031160798027618820ZwhDZDSDlc
    interessante come un vecchio album!

  2. manubigio Says:

    ciao, spero che tutto ti vada bene, Lawrence… lo vedo camminare ogni tanto tra le rovine damascene, in incognito… sembra chiedere di te, gli sarebbe piaciuto incontrarti.
    un abbraccio,
    manuela

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