Considerazioni politiche su Altai, nel decennale della nascita di Wu Ming
Esattamente dieci anni fa, il primo giorno di gennaio dell’anno 2000, nasceva il collettivo Wu Ming. Eravamo all’indomani del “Seppuku”, il suicidio simbolico del Luther Blissett Project. Q era uscito da dieci mesi. La “battaglia di Seattle”, primo rintocco di un’intensa stagione di conflitto, era freschissima nei ricordi di tutti (da quel 30 novembre era trascorso appena un mese).
Poco tempo dopo, mettemmo on line il nostro sito ufficiale, lo stesso sul quale – in questo preciso momento – leggete queste frasi. Dieci anni di ininterrotta presenza sul web, di discussione e confronto, di comunità aperta, di repubblica democratica dei lettori. Grazie a tutt* voi per averlo reso possibile.
Continuità e discontinuità tra allora e adesso. Modi diversi in cui Q (opera di ieri) e Altai (opera di oggi) elaborano lo spirito dei tempi. Modi diversi di essere romanzi politici.
Bella questione. E’ la vibrazione di fondo di due recensioni di Altai uscite nei giorni scorsi.
La prima è apparsa sul quotidiano Liberazione il 23 dicembre. Fin dal titolo (“Storie di utopia a Istanbul. Riecco i Wu Ming delle origini”) ci si inarca all’indietro, a catturare echi, riverberi da una stagione all’altra. L’articolo, a firma di Tonino Bucci, è diviso in due parti, di cui soltanto la seconda è una recensione del libro. Nella prima si esamina un possibile rapporto tra la nostra prassi letteraria e il concetto di “morte dell’autore” (a un certo livello del discorso, ci tocchiamo le balle).
Il testo integrale è leggibile nel pdf qui. Di seguito, proponiamo soltanto la parte relativa ad Altai.
[...] A dieci anni esatti di distanza da Q, il romanzo d’esordio, i Wu Ming tornano ora con Altai (Einaudi, pp. 424, euro 19,50). Non un sequel – precisano – ma quasi. Non è Q numero 2, però c’è qualcosa dello spirito delle origini. C’è innanzitutto lo stesso sforzo di narrare personaggi e vicende di utopia negli interstizi della Storia ufficiale.
C’è persino qualche personaggio recuperato dal lontano romanzo degli esordi e buttato nella mischia della trama di Altai. Ma le analogie si fermano qui. Anzi, a voler spingere sul pedale delle somiglianze tra Q e il nuovo lavoro si rischia la delusione. Già, perché Q era un affresco corale, un intreccio perfetto di grande Storia e piccole storie, un team di personaggi che muoveva in sintonia in un labirinto di movimenti religiosi, conflitti sociali, utopie, rivolte contadine ed eresie alla ricerca del Regno di Dio in terra. In Altai, invece, si ha l’impressione che i personaggi non respirino più in simbiosi con lo spirito inquieto del Cinquecento e che la Storia, quella con la S maiuscola, finisca semplicemente per essere lo sfondo d’ambientazione e poco più.
Insomma, bisogna liberarsi di Q per godere della lettura di Altai. Che è interessante e piacevole per altri motivi. Innanzitutto perché i Wu Ming si confermano ancora una volta abili affabulatori in pieno possesso delle tecniche narrative. Il romanzo si beve tutto d’un fiato. E poi perché di nuovo il collettivo si misura col tema dell’utopia.
Di nuovo troviamo in Altai personaggi inquieti, alla ricerca di una vita diversa e di un mondo migliore. A differenza di Q in cui si raccontava di soggetti collettivi in rivolta contro il potere, di insurrezioni urbane, di contadini che nelle eresie religiose cercano uno strumento di ribellione contro sovrani e nobili, in Altai ci troviamo in pieno “riflusso” (sarà mica un messaggio a noi lettori?). E’ finita l’epoca degli eretici che volevano costruire società comunistiche. Nessuno sogna più di poter realizzare
in terra il regno dei cieli. Di quei sogni è rimasto solo il ricordo della sconfitta e del fallimento. I personaggi di Altai convivono spesso col tormento, il dubbio e la delusione anche se non smettono per questo di pensare a come cambiare il mondo. Solo che qui il rapporto con l’utopia è più pragmatico, più realista.
Due sono i principali protagonisti del romanzo. Uno è Emanuele de Zante, un fuggiasco, un ex agente della Repubblica veneziana, ingiustamente accusato di tradimento nei confronti della Serenissima e costretto perciò a riparare all’estero.
Il suo vero nome, in realtà è Manuel Cardoso ed è figlio di un veneziano e di madre ebrea, per la precisione appartenente a una comunità di ebrei sefarditi scappati dalle persecuzioni in Spagna. De Zante si riapproprierà poco a poco della sua identità ebraica per lungo tempo rinnegata in cambio della carriera a Venezia. L’altro protagonista è Giuseppe Nasi, alias Yossef Nasi, ebreo anche lui, nemico numero uno della Serenissima e, soprattutto, personaggio influente alla corte del Sultano. L’anno è il 1569. L’epicentro la capitale dell’impero ottomano: Istanbul. E’ lui, Yossef, «il porco giudeo», odiato e potente, il «prendinculo del sultano», la «mente malvagia» che ha in testa l’idea di costruire uno Stato per tutti gli ebrei, la nuova Sion, il riscatto a una storia secolare di persecuzione e oppressione.
Solo che stavolta – a differenza di Q – non ci sono rivolte, insurrezioni e rivoluzioni. Yossef Nasi gioca d’astuzia, sfrutta la sua influenza alla corte del sultano, costruisce relazioni, intreccia rapporti diplomatici, cerca nemici da coalizzare contro Venezia e i sovrani cristiani.
Il vero tema affascinante di Altai è: si può cambiare il mondo sfruttando gli intrighi di potere? Yossef Nasi vuol convincere il sultano a dichiarare guerra a Venezia e a conquistare l’isola di Cipro, nella speranza poi che gli venga concessa. L’utopia è fare di Cipro la terra promessa di tutti gli ebrei, un porto sicuro da ogni persecuzione.
Guerra sarà, tra veneziani e ottomani. C’è un dubbio, però: affidarsi agli eserciti e alle congiure di potere non finirà per contaminare la purezza dell’ideale? Bisogna rinunciare a intervenire nel corso degli eventi per timore di diventare uguali agli altri, di farsi corresponsabili delle atrocità della guerra e del potere? Oppure è inevitabile che ci si sporchi le mani per poter cambiare il mondo? Le vittorie, certo, possono arrivare, ma a quale prezzo? Campagne depredate, devastazione, «sangue sparso a fiumi». Yossef Nasi non tentenna. «Tra cent’anni nessuno dei giovani di Cipro darà importanza a quel che è successo. Da oggi, questa guerra è il passato. Il nostro regno è il futuro. Il futuro di tutta la nostra gente». A volte capita di dover scegliere. Mettersi tra «quelli che si affidano al volere di Dio», tanto ci penserà il Clemente e il Misericordioso a sostentarli. Oppure pensare che «chi ha davvero la fede in Dio, prima pianta semi nella terra, e solamente dopo si affida al suo volere». La Storia è fatta di questi momenti.
Può risultare interessante comparare questa recensione con una di Q che apparve quasi undici anni fa su Alias, il noto supplemento del Manifesto.
Nei giorni scorsi, una recensione di Altai è comparsa anche su Militant-Blog. Eccone uno stralcio:
Anche se per motivazioni, calcoli e vicissitudini diverse, i due personaggi centrali di questo e del primo libro sono lo stesso unico attore che si muove tra le maglie del potere, nella duplice figura di servo e manipolatore del potere. Due figure in fondo uguali, protagonisti sostanzialmente di due destini simili. Scaricati dallo stesso potere che difendevano a spada tratta, si ritrovano a chiedersi qual è la ragione di tanto male e tanta fatica. Due attori spaesati, che alla fine si ritrovano a non sapere più per cosa hanno combattuto, per cosa hanno rischiato, se ne valeva davvero la pena. Senza ricordi e con innumerevoli vite alle spalle, il discorso di fondo, la morale delle due storie sembra esattamente la stessa. Però non è definita, e in fin dei conti spetta al lettore, ad ogni lettore trovarla, e capire qual è il senso delle battaglie combattute e degli ideali portati avanti.
In calce a questa recensione, si è sviluppato un dibattito, che consigliamo di seguire.