ALTAI
Il nuovo romanzo di Wu Ming

Alberto Prunetti nella Istanbul di Hikmet, Pamuk… e Altai + suoni e musiche

Written on 26/06/2010 – 6:37 pm by Wu Ming

Anche se – ormai da qualche mese – è Giap lo spazio web su cui lavoriamo, ogni tanto torniamo a pubblicare materiali anche su questo blog tematico. Altai continua – e speriamo continui ancora a lungo – a “impollinare” e stimolare l’immaginazione di chi lo incontra lungo il suo viaggio o ne attraversa la scia. Ne derivano annunci, notizie e resoconti, materiale forse troppo specifico per Giap ma perfetto per queste pagine. Oggi vi proponiamo un “reportage” da Istanbul,  impressionistico e poetico, del collega Alberto Prunetti, redattore della rivista on line Carmilla e autore di diversi libri, l’ultimo dei quali è Il fioraio di Perón (Nuovi Equilibri, 2010).
Già che ci siamo, linkiamo l’audio della presentazione di Altai allo Zetalab di Palermo, con WM2 e WM4. L’evento ha avuto luogo nel febbraio scorso ma solo da poco sono a disposizione i file mp3/ogg.
Prossimamente, un po’ di materiali su Altai Lyric Version 1.0, lo spettacolo ideato e prodotto dalla Compagnia lirica di Milano, andato in scena ai festival Collisioni di Novello (CN) e Masca in Langa di Monastero Bormida (AT). Orchestra da camera, soprano, baritono e voci recitanti (Fabrizio Pagella e Wu Ming 1).
A proposito: un album interamente ispirato ad Altai è appena stato inciso dal duo Skinshout! (Gaia Mattiuzzi alla voce, anzi, alle voci; Francesco Cusa alla batteria). In attesa che esca, potete ascoltare le sfrenate performances di Mattiuzzi e Cusa alla pagina MySpace del progetto).
E ora, la parola al viaggiatore Prunetti.

***

ISTANBUL, APPUNTI DI VIAGGIO
di Alberto Prunetti

Oriente, Occidente e altre invenzioni
Tra i tanti miti che vanno di moda nel giornalismo spicciolo dei nostri tempi c’è quello della grande opposizione “Occidente vs Oriente”. Con l’Occidente rappresentato dalle marche semantiche della modernità, dell’apertura, del cambiamento, del dinamismo, della laicità, e l’Oriente visto come arretrato, aggressivo, minaccioso, irrazionale. Venendo dall’Italia bigotta e clericale, attraversando la metropolitana romana sporca, dopo aver pagato un biglietto ferroviario carissimo per raggiungere Fiumicino, mi ritrovo a Istanbul: servizi di trasporto efficientissimi d’ultima generazione, una scena notturna simile a quella di Madrid e di Amsterdam, un fiume vorticoso di ragazzi e ragazze intenti a fumare chiacchierare bere birra ascoltare musica ballare e corteggiarsi… in un paese bigotto e cattolico, notti come quelle di Istanbul sarebbero impensabili. Seppelliti gli stereotipi su Oriente e Occidente sotto una risata, realizzo che Istanbul è il luogo ideale per assistere al naufragio di queste etichette essenzialiste: Oriente e Occidente, scrive a ragione Edward Said, “non corrispondono a nessuna realtà stabile esistenziale come un fatto naturale”, sono insomma nient’altro che “una strana combinazione di aspetti empirici e immaginari”.

Altai, altyn
Altai, i monti d’oro tra i deserti dell’Asia centrale. Altyn: “oro” nelle lingue di ceppo turco, parlate in un areale che va dalla Turchia alle terre d’oltre Caspio, lungo la rotta delle migrazioni che portarono un popolo di nomadi dalla montagne degli Altai, lungo i deserti della via della seta, fino alle rive del Mar di Marmara.

Orientalismi libertari
Zo D’Axa, anarchico individualista in fuga dai cani da caccia della giustizia francese, nella sua autobiografia (“Da Mazas a Gerusalemme”) racconta un’Istanbul ancora impregnata dell’orientalismo d’oltralpe (Flaubert, Gérard de Nerval); un’Istanbul segnata dall’“effemminatezza”, “dalle misteriose sensualità”, in cui si immaginano “le gioie gelose dell’Harem”. La pagina letteraria diventa una lanterna luminosa che proietta stererotipi sugli occhi del viaggiatore, aperti alla realtà solo quando incontra i “cani randagi di Galata” (questi sì presenti anche oggi, anche se ben tenuti, grassottelli e privi di malattie apparenti) o le strade infangate della città vecchia (oggi perlopiù scomparse, ma presenti ancora nelle memorie di Orhan Pamuk, che tratteggiano a colpi di chiaro e scuro l’Istanbul degli anni Cinquanta).

Hamam
Vado anch’io in un bagno vicino al serraglio, uno di quelli storici, disegnati dall’ingegno dall’architetto Sinan. Non si recitano poesie, per buona sorte, lì dentro.

D’aria e d’acqua
Città d’aria e d’acqua, come la ricorda in esilio il poeta Nazim Hikmet, Istanbul è una città che ha accolto fuggitivi ed erranti. Città di frontiera e di ponti, sulla soglia di un’Asia europea e di un’Europa asiatica. “La città, dal punto di vista della sua popolazione, si mostra talvolta troppo orientale e talvolta troppo occidentale, creando così nei suoi abitanti una leggera inquietudine e la preoccupazione di non appartenere completamente al luogo” (Pamuk). Ma è un’inquietudine leggera, necessaria al dinamismo intellettuale, e il senso di non completa appartenenza a un luogo sviluppa anticorpi critici al senso identitario di appartenenza, questo ben più pericoloso, vedi i nostri talebani padani, sempre pronti nel nome di sangue e suolo a trasformarsi in lupi mannari leghisti.

Il Divano
Visito la sala del divano e come Manuel Cardoso mi soffermo sulla finestra dorata per vedere se posso scorgere il sultano in ascolto.

Infinita e senza centro
La città di Pamuk è “infinita e senza centro”, un città che ha “assimilato la tristezza con orgoglio”. Una città decadente, puntellata di palazzi storici che testimoniano nel rimpianto una passata grandezza affogata in un mare di cemento armato, questo sì, moderno e occidentale.
La racconta con la nebbia e il bianco e nero delle foto d’epoca sgranate Orhan Pamuk, con ruderi, crepe, detriti, sporcizia, fumo e caos magmatico ed è un racconto di passeggiate notturne su vicoli stretti, tra case diroccate in legno segnate da incendi occasionali, dall’una all’altra sponda del Bosforo, su traghetti che offrono l’occasione di spiare le sontuose ville, le case nei “villaggi” (ormai inglobati nella metropoli) in cui la classe egemone ottomana (i figli dei visir, i ricchi, i pascià) andava a curarsi il senso di decadenza per la fine dell’impero e la sconfitta contro le potenze occidentali (mi immagino le cannoniere francesi e inglesi ancorate di fronte all’ultima residenza del sultano, il palazzo Dolmabahçe, e la promessa di riscatto di Atatürk).

Harem
“…più simile a un monastero che a un postribolo privato”, scrive a ragione Wu Ming, senza cedere agli esotismi orientaleggianti (si veda la critica dell’immagine occidentale dello harem di Fatema Mernissi)

Lo sguardo su Istanbul
E come doveva apparire un tempo questa città al visitatore cosiddetto “occidentale”? Appariva coi suoi mercati, coi facchini caricati a dismisura, coi conventi di dervisci, con le donne velate e le fantasie sullo harem. Città carica d’esotismi orientaleggianti nelle elucubrazioni degli occidentali, Istanbul è oggi una città lontana dall’esotico o dal pittoresco. In parte perché il movimento di riforma occidentalista ha eliminato tutte quelle caratteristiche che attraevano i viaggiatori occidentali, proprio perché troppo orientaleggianti. Sono stati chiusi e vietati durante i primi anni della Repubblica il mercato degli schiavi, gli ordini dei dervisci, l’abbigliamento ottomano, l’alfabeto arabo, lo harem e i facchini. Ma sono stati anche recentemente riesumati alcuni di questi cadaveri in senso turistico: i gelatai si vestono con abiti ottomani per la gioia degli esposimetri delle macchine fotografiche compatte, e i dervisci danzanti compiono le loro mistiche rotazioni la domenica pomeriggio per 15 euro a spettatore.

Chai
Il chai (tè) sul Bosforo è stato per me un momento fondamentale delle mattine a Istanbul: “chai” è un nome ripetuto spesso sulla via della seta dalla Turchia (tè forte e rossastro, zuccherabile a piacere) alle Repubbliche dell’Asia centrale (tè verde rigorosamente senza zucchero), fino all’India (tè nero bollito nel latte zuccherato, denso e molto dolce), per arrivare, mi dicono, alla Cina, del cui chai non ho ancora fatto esperienza.

Città cosmopolita
Ma dov’è finito il cosmopolitismo di Istanbul, così vivo nelle pagine di Altai? Ancora 150 anni fa a Istanbul si parlava contemporaneamente turco, greco, armeno, italiano, francese e inglese (senza dimenticare il curdo). La repubblica di Atatürk ha normalizzato il turco (nell’adozione dell’alfabeto latino e nella limatura di quelle influenze troppo arabe o persiane del turco ottomano) e ha segnato la scomparsa delle altre lingue: “cittadino, parla turco!”
E gli stranieri di oggi? Protettrice di genovesi, ebrei, arabi e francesi, oggi Istanbul ospita molti turisti europei (quelli del turismo mordi e fuggi) assieme a greci e balcanici (a volte migranti), arabi, indiani e pakistani (alcuni si fermano, altri seguono il loro cammino verso altre mete europee), rifugiati politici palestinesi, e “compratori” delle repubbliche dell’Asia centrale che vengono solo per 3 giorni, fanno incetta di ogni tipo di merce introvabile nei loro paesi, imballano il tutto con dosi abbondanti di nastro da pacchi e se ne ritornano nei deserti asiatici sui loro aerei traballanti.

Polline di pioppo
La stagione è la stessa in cui Manuel segue la sua pista per le strade di Pera. Istanbul è ancora piena di pioppi, e anche a me rimane del polline addosso.

A chi appartiene una città
Ancora Pamuk: “Quando leggo i viaggiatori occidentali del XIX secolo, che più di altri raccontarono, registrarono, confrontarono e fantasticarono sulla mia città, capisco che questa, la città che io chiamo “mia”, non è poi completamente mia”. Vale a dire: non mi sento né completamente appartenere a questa città, né completamente straniero.
E’
un senso di appartenenza parziale e straniata che comprendo appieno. Ho vissuto in tante città e le ho sentite mie senza che la gente del posto forse condividesse la mia pretesa di appartenenza, e mi sento straniero nei luoghi in cui sono nato e ho vissuto più a lungo, che mitizzo nell’assenza e vitupero nei miei soggiorni forzati. Un piede da cittadino del mondo, come Diogene il Cinico, l’altro che mi ricorda d’essere “straniero in ogni luogo”, nelle parole di Ugo da San Vittore. Mentre ovunque, da Cinisello Balsamo fino a Mumbai, gli imprenditori politici della paura e del localismo strepitano: “Padroni in casa nostra”.

Demolizione di una leggenda
E la leggendaria Rossellana? Dalle parti in cui sono cresciuto io, si racconta sempre la storia della Bella Marsilia, detta anche Rossellana per il colore dei suoi capelli, una nobile che viveva in una torre sui monti dell’Uccellina, poco sotto la bocca dell’Ombrone, rapita dal pirata Barbarossa e condotta fino a Costantinopoli. Entrata nello Harem, divenne la favorita del sultano. Sono dovuto arrivare fino a Istanbul anch’io per rendermi conto che in realtà Rossellana era Ucraina e non sapeva probabilmente neanche dove fosse la Maremma. E questa storia me l’avevano insegnata a scuola alle elementari!

Sui passi di Altai:
Non sono giunto a Istanbul in nave, come Manuel Cardoso, ma con un più prosaico volo charter. Mi rimarrà il dubbio se ci siano ancora i conciatori a Yedi Kule, col puzzo delle pelli al macero. Uscendo dal non-luogo dell’aeroporto, ho dovuto aspettare di vedere il Bosforo per capire d’essere veramente a Istanbul. Da lì, il panorama di minareti, con le cupole dorate che si riflettono sui miei occhi, come su quelli del fu Emanuele De Zante: “Trama e ordito di un grande merletto di seta bianca”. E Galata, costruita in parte dai genovesi, città dei forestieri, a cui Costantinopoli riconosceva diritti di cittadinanza, con la sua torre che ricorda un pezzo d’Italia…(e quegli erranti che scelsero la protezione della Sublime Porta, per vivere in luoghi più tolleranti del pezzo d’Europa cristiana, ce li ricorda anche Massimo Carlotto in Cristiani di Allah). Ma è il mercatino del pesce sul lato della città nuova del Corno d’oro quello che evoca “l’andirivieni, l’odore di bettola, i gesti degli scaricatori, le strade febbrili” di Altai, qui, dove si può mangiare per 5 lire turche un piatto di sardine fritte, prima di risalire sul colle di Pera, con “le ville sontuose dei notabili stranieri”, che anche adesso ha una magnificenza parigina, o forse più mitteleuropea.

Tornare
C’è ancora tanto da fare per imparare a conoscere questa città sbattuta da venti crudeli, città dalle cinquemila moschee. Tornerò da te, Byzantium, Nova Roma, Qostantiniyye, Istanbul, città di terra bagnata e fatica e sogno.

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