Alessandro Barbero recensisce Altai su Tuttolibri
[Dopo Adriano Prosperi e Mario Galzigna, un altro storico si occupa di Altai, stavolta sul supplemento "Tuttolibri" del quotidiano La Stampa (edizione del 19 dicembre 2009). Barbero è docente di Storia medievale all'Università del Piemonte Orientale, oltre a essere un collega romanziere. Si è occupato anche di impero ottomano e di Solimano il Magnifico. Più volte, nello scrivere Altai, ad alcuni di noi sono venute in mente certe sue riflessioni su Carlo Magno, su Europa e Mediterraneo, sull’inizio della separazione tra oriente e occidente. Una sua splendida lezione sull'incoronazione di Carlo Magno, tenuta qualche anno fa all'Auditorium di Roma, è disponibile in mp3 sul sito delle Edizioni Laterza. Il riassuntino del dibattito sul New Italian Epic si poteva escindere dalla recensione senza che questa ne serbasse memoria, ma la recensione stessa è empatica, calorosa e non ha per niente il "braccino corto". Barbero è entrato in sintonia con il libro e con chi l'ha scritto, è bello che riconosca la nostra pietas nei confronti dei personaggi, ed è come minimo un atto di coraggio intellettuale (forse addirittura una provocazione punk) definire “meritatissimo” lo scuoiamento di Bragadin.]
Due gondole volano in cielo: è l’apocalisse di Venezia
Dieci anni dopo Q, i Wu Ming tornano ad affrontare in un romanzo, Altai, il calderone ribollente delle guerre e delle utopie cinquecentesche, in cui è sempre più facile riconoscere uno specchio dei nostri tormenti.
In questo decennio zeppo di eventi sinistri alcune cose sono cambiate, ed altre no. Il gruppo si è ritrovato al centro del dibattito su un «New Italian Epic» che riunirebbe molti diversi romanzi degli ultimi anni, fra cui opere degli stessi Wu Ming. Ad accomunarli, il rifiuto della frigidità postmodernista, l’accettazione senza complessi d’inferiorità dell’appartenenza ad un genere, come il giallo o il romanzo storico, e la capacità di parlare anche dell’Italia di oggi, direttamente o per la via obliqua del passato. Fra dibattiti, convegni, seminari e tavole rotonde, il nuovo romanzo esce portandosi addosso un bagaglio teorico e una visibilità virtuale che il primo non aveva, e non è facile leggerlo con la stessa freschezza e la stessa sorpresa.
I personaggi di Q, da parte loro, sono invecchiati ormai di quattordici anni: le copie del Beneficio di Cristo che appaiono qua e là sono ingiallite, papa Carafa è morto, Beatriz è moribonda, suo nipote don Yossef Nasi è uno degli uomini più potenti dell’impero ottomano, e il protagonista dai molti nomi è ora il vecchio Ismail al-Mokhawi, che crede di aver smesso di amare e di viaggiare, e ha trovato la quiete in un porto dello Yemen.
Ma quel che non è cambiato in Altai è la voglia di perseguire l’utopia e di provare a realizzarla in terra, e non è cambiata la pietas degli autori che palesemente amano i loro eroi e tuttavia non possono impedirsi di sapere com’è andata a finire: anche il sogno d’una patria per tutti i perseguitati, ebrei o no, in cui «coltivare la vite, l’ulivo e la tolleranza», finirà nell’odore del sangue e nel lezzo dei cadaveri.
Ma il romanzo storico, per essere popolare ed epico, deve calarsi in un passato capace di far sognare ad occhi aperti, e i luoghi e gli anni raccontati in Altai rispondono allo scopo. La vicenda si muove tra una Venezia lugubre e poliziesca e una Costantinopoli raggelata dalla neve come dal pennello d’un calligrafo, prosegue nella polvere e nel frastuono dell’assedio di Famagosta e si conclude nelle acque insanguinate di Lepanto.
Tutti gli ingredienti che le cronache degli anni 1569-1571 mettono a disposizione della band sono sfruttati a dovere, senza dover inventare quasi nulla: spioni e attentati, repressioni e torture, schiavi e rinnegati, sultane intriganti e medici traditori.
Sapere già come andrà a finire non vanifica la suspense, e questo è un segno che la confezione è abile: quando Lala Mustafà, alla vigilia della capitolazione di Famagosta, promette al narratore «vi farò vedere tutto da molto vicino», è difficile reprimere un piccolo brivido, indovinando che lo spettacolo che si prepara è il supplizio (peraltro meritatissimo) di Marcantonio Bragadin.
Lo scontro tra il sogno generoso e il gelo del potere, tra l’utopia e la Storia, si colora necessariamente di allusioni all’oggi, e non soltanto italiano. Il romanzo si apre con l’esplosione all’Arsenale di Venezia del 13 settembre 1569, qui trasfigurata rispetto alle sue effettive dimensioni storiche per conferire all’apertura adeguata drammaticità. Nella realtà i danni furono scarsi, i pochi sospetti vennero scagionati, e l’unica conseguenza concreta fu che le autorità veneziane decisero di approfittare delle lesioni all’attiguo monastero della Celestia per allargare gli impianti, con grande fastidio del nunzio pontificio. Qui l’esplosione è duplice e apocalittica, strade e canali sono pieni di cadaveri e soprattutto di cenere, e il recensore sarà perdonato se la descrizione di quel che vede nel cielo il narratore («Due gondole volavano nel cielo di Venezia. Avevano ali di fiamma e parabole incerte, come di uccelli feriti.Una andò a schiantarsi… L’altra scomparve alla vista») gli fa pensare ad un’esplicita evocazione di quell’altro duplice attentato da cui tutto ha avuto inizio, in un settembre più vicino a noi.