La riconquista di Mokha + Una lettera da Costantinopoli
[E' merito - o colpa? - di Luca Crovi, conduttore del programma radio Tutti i colori del giallo, se abbiamo deciso di aprire il cassetto e tirare fuori questo lungo antefatto mokhese. Ci lavorammo intensamente nell'autunno 2008, ma a un certo punto decidemmo di non inserirlo nel libro, e di cogliere Ismail più in medias res.
Sabato scorso, poco prima di andare in onda su Radio 2, Luca ci ha chiesto un inedito per il blog della trasmissione. Detto fatto, e ieri lo ha pubblicato in anteprima assoluta. Oggi lo si pubblica anche noi.
Qui raccontiamo la riconquista incruenta di Mokha da parte della flotta ottomana, dopo la rivolta zaydita, e il ruolo che Ismail gioca nell'evento. In pratica, è grazie a lui se non viene sparso sangue. Poi c'è uno stacco, doveva esserci una scena in cui qualcuno giunto da Costantinopoli consegna a Ismail la lettera di Gracia. Nell'ultimo paragrafo mostriamo il vecchio mentre, in casa sua, legge la lettera per la prima volta. Intanto, giù in strada, un cantastorie racconta la favola sufi del fiume che voleva attraversare il deserto, favola che viene raccontata (in altri modi) anche in altri punti del romanzo. Buona lettura.]
PRELUDIO
Al Mukha, 27 Dhu al-Hijjah 976
Le galee del sultano giunsero in vista di Mokha sul far della sera. L’alito del monsone gonfiava le vele di un’aria viscosa, pesante come una tunica intrisa d’acqua bollente.
Sulla riva, una striscia di muri bianchi affiorava appena dalla sabbia, tra il mare accaldato e lo sfondo di montagne da cui erano scesi i ribelli.
Le notizie in possesso dell’ammiraglio dicevano che la città si era arresa senza colpo ferire. Gli abitanti avevano rifiutato di combattere, la guarnigione ottomana era fuggita e i mercanti indiani avevano spinto le loro feluche in Abissinia, sull’altra sponda del Mar Rosso.
- Siamo a mezzo miglio, pasha – avvisò il bombardiere – Dove volete colpire?
L’ammiraglio srotolò una mappa e scrutò ancora la costa. Mokha non aveva né porte né bastioni. Le bande zaydite se l’erano presa passeggiando, con la complicità di una popolazione imbelle. Entrambe avrebbero conosciuto presto il prezzo del tradimento.
Nello schizzo, gli edifici armati di artiglieria erano soltanto tre.
- Il palazzo del bey è troppo vicino alla moschea. – disse indicando la verticale del grande minareto – Puntate a babordo, il torrione isolato.
Dal castello di prua, l’ordine rimbalzò fino ai banchi dei rematori e la galea virò in posizione di tiro.
Il servente ripulì con lo scovolo la colubrina centrale. Le infilò in bocca l’involto della carica, una palata di segatura e sei colpi di calcatoio per pressarla a dovere. Poi sollevò una palla da settanta libbre e la fece rotolare nella canna di bronzo. Versò nel focone il polverino di innesco, accese la miccia in fondo all’asta buttafuoco e attese.
- Alzo quattro – ordinò il bombardiere mentre si faceva consegnare lo scettro incandescente. Nel frattempo, altri cinque serventi ripetevano le stesse operazioni con i pezzi di calibro inferiore.
- Fuoco! – gridò l’ammiraglio.
L’esplosione disperse un branco di delfini ed eccitò i gabbiani. La colubrina rinculò sul ponte e arrestò la sua corsa contro l’albero maestro. Quando il fumo si dileguò, il torrione bersagliato apparve saldo al suo posto. Gli altri cannoni erano già pronti a tirare, ma dalla città non venivano risposte: né sparate, né gridate, né altro.
L’ammiraglio intimò al bombardiere di tenersi pronto, poi ordinò di spingersi sotto costa e puntare il molo.
A un tratto, oltre la cappa di afa, polvere e sale, gli apparve il miraggio di un vessillo, schiaffi rossi contro il vento, sopra il tetto più alto del palazzo governativo. Poiché non era più tanto giovane e la vista gli faceva difetto, chiese aiuto al secondo.
- Capitano, la vedete anche voi quella bandiera?
L’altro annuì.
- E sapreste riconoscerla?
Il capitano si sporse dalla murata e affilò gli occhi. Tre mezzelune dentro un’ovale verde in campo rosso.
- Si direbbe, non so, però, beh, è impossibile, non…
- Dunque?
- Si direbbe la bandiera del sultano, pasha. La nostra bandiera.
Il vecchio è seduto al tavolo e scrive. Dalla finestra entra ancora abbastanza luce, le lampade sono spente. Terminato il foglio, lo impila sul mucchio alla sua sinistra: è alto almeno un palmo, dieci anni di memorie per ogni dito della mano. Carte consunte, cicatrici di inchiostro, scritte in un latino ormai logoro che il vecchio rattoppa con termini turchi, arabi, tedeschi, veneti. San Girolamo e Sant’Agostino non riconoscerebbero la loro lingua d’elezione.
Stende davanti a sé una nuova pagina, raddrizza la schiena e intinge la penna.
- Arrivano – dice una voce alle sue spalle – Cosa dobbiamo fare?
E’ Ali. Il vecchio non lo ha nemmeno sentito salire. Gli anni e la salsedine gli stanno rovinando l’udito. Si gira, le dita a carezzare la barba bianca.
- Quanti sono?- domanda in arabo.
- Otto galee.
- Bene. Fai chiamare la gente. Andiamo ad accoglierli alla dogana.
Ali sta per rispondere, ma un boato distante spezza la conversazione. I due restano in attesa, immobili, come statue di carne. Rumori di crollo erompono dalla finestra.
Il vecchio si alza, vincendo una fitta alle reni. Si affaccia di sotto e vede a trenta passi il tetto sfondato di una casa, sotto la torre di guardia.
- E’ il tiro d’ingaggio – sentenzia. – Se non rispondiamo, non sparano più. E’ la regola.
Torna allo scrittoio e ripone il manoscritto in una grande sacca di pelle. Afferra il bastone d’ebano appoggiato alla sedia e, aiutandosi con quello, cammina dietro ad Ali che già lo precede sulle scale.
C’erano almeno duemila persone, schierate di fronte all’arco che dal molo introduceva in città. Donne velate con lattanti in braccio, vecchi raggrinziti nelle vesti bianche, bambini nudi dalla testa ai piedi. Uomini e ragazzi avevano tutti una guancia sporgente, gonfia di foglie eccitanti, e portavano in cintura un pugnale ricurvo, più simile a un ornamento che a un’arma pericolosa. Gli unici giovani dall’aspetto marziale stavano allineati in prima fila, una trentina di arabi, indiani e africani, con solo una futa allacciata ai fianchi.
Davanti a loro, un vecchio dall’aria solenne, la testa avvolta nel turbante.
L’ammiraglio si avvicinò, seguito dai capitani delle galee. Giunto di fronte al vecchio, lo scrutò da capo a piedi come un cammello da acquistare.
- Dunque è vero – disse alla fine – Voi siete…
- Ismail al-Mukhawi – lo anticipò l’altro – Benvenuto a Mokha, pasha.
- Una spia ci aveva avvertiti che eravate rimasto in città con i vostri uomini e che gli zayditi non osavano toccarvi. Avete dunque liberato Mokha da solo?
- Se ne sono andati di notte, appena hanno saputo del vostro arrivo. Non c’è stato bisogno di combattere.
- E mesi fa, quando arrivarono? – ora la voce dell’ammiraglio tremava di indignazione – Nemmeno allora ce ne fu bisogno?
Il vecchio allargò le braccia, come per cingere la città e la sua gente
- Mokha non ha difese, i ribelli erano migliaia. Nessuna resistenza li avrebbe trattenuti.
- Resta il fatto che il capitano dei giannizzeri ordinò agli abitanti di rispondere all’attacco e non venne ascoltato.
Ismail si appoggiò una mano sul petto.
- La responsabilità è mia. Promisi a questa gente che gli zayditi non avrebbero fatto loro alcun male. Il corso degli eventi mi diede ragione.
- Niente affatto! – ruggì l’ammiraglio – Voi siete un mercante, pensate agli affari, e i ribelli delle montagne non vi sembrano veri nemici, perché producono il caffè che vi sta tanto a cuore. Io invece sono un uomo d’armi, ragiono in un’altra maniera. Chi non combatte i nemici del sultano è un traditore e come tale va trattato.
- Se fossimo nemici non saremmo qui ad accogliervi, pasha.
- Accogliermi? Per quel che mi riguarda, voi siete qui in segno di resa!
- Anche un vecchio come me può vedere che sul palazzo del bey non sventola bandiera bianca, ma il vessillo del sultano. E se è tornato al suo posto, non è certo grazie al governatore.
L’ammiraglio ebbe uno scatto di rabbia, si voltò e diede ordine ai suoi di caricare gli archibugi e tenersi pronti con gli archi.
I giovani alle spalle del vecchio portarono le mani in cintura, come per slacciarsi la futa. Un attimo dopo ciascuno teneva in pugno una pistola e nell’altra mano un flagello di grosse strisce metalliche, lunghe quanto un uomo. Dietro di loro, nello stesso istante, un centinaio di lame uscirono dai foderi.
L’ammiraglio sguainò la spada e avanzò, fino a trovarsi faccia a faccia col vecchio.
- Ringraziate Yossef Nasi – gli disse tra i denti – Se non fosse che lo rappresentate, vi farei pentire di non aver combattuto quand’era tempo.
Fece due passi indietro e alzò il braccio armato: – Fate largo, adesso! – ordinò con un grido. A un cenno del vecchio, la folla si divise in due ali e lasciò che le truppe giunte da Costantinopoli entrassero in città.
Le uniformi sfilarono, accompagnate solo dalla sabbia e dal rumore dei sandali sulla terra battuta.
[...]
Calò la notte e gli uomini di Mokha si radunarono per cantare, fumare e raccontare storie, sullo spiazzo polveroso davanti ai magazzini di Yossef Nasi, Signore di Tiberiade, Duca di Nasso e delle Sette Isole. Le tazze passavano di mano in mano, colme di qishir, l’infuso bollente preparato con i gusci secchi delle bacche di caffè e i semi del cardamomo. Nella città famosa in tutto l’Impero per il kahve, il liquido nero era riservato al risveglio, per pulire la testa dai sogni o per farli emergere più nitidi dal torpore. Soltanto i mistici sufi lo bevevano in qualunque momento della giornata e Ismail, frequentando il loro monastero, aveva preso la stessa abitudine, ogni volta che doveva riflettere.
I festeggiamenti si tenevano proprio sotto la sua finestra, ma il vecchio aveva preferito la compagnia della lettera appena arrivata. Era scritta in fiammingo, il che lo costringeva a rileggere interi passaggi, per essere certo di averne afferrato il senso. La voce profonda del cantastorie si insinuava tra una frase e l’altra.
Nato in remote montagne, un fiume solcò molte regioni e giunse infine alle sabbie del deserto. Provò a superarle, ma più cercava di avanzare, più le sue acque si perdevano.
Il vecchio si alzò con il foglio tra le mani, nella speranza che camminare lo aiutasse a concentrarsi, ma il ginocchio, gonfio d’artrosi, lo costrinse a zoppicare su altri pensieri.
Arriva l’Estate, si disse, stringendo la rotula tra le dita, l’Estate umida di Mokha. Accusò il luogo e la stagione, ma sapeva fin troppo bene che la mano della vecchiaia avrebbe finito per schiacciarlo, Estate o Inverno che fosse, anche nei rifugi più salubri dell’Impero. Prima di quell’istante, però, c’erano ancora la vita, i ricordi ossessivi e progetti sempre più sfumati.
Fu allora che una voce nascosta mormorò:
“Se ti lanci nel solito modo, il deserto non ti permetterà di attraversarlo. Potrai solo sparire o diventare uno stagno.”
La lettera di Gracia non era la solita, quella che arrivava puntuale ogni anno, insieme alle navi di Yossef cariche di stoffa e legname. Non conteneva lunghe riflessioni sul senso delle cose, resoconti di mille attività, domande rituali ed altre più sincere. Gli unici elementi comuni erano la firma e la lingua di Anversa. Per il resto, le molte domande si riducevano a una sola: torna, il prima possibile. Le notizie si raggrinzivano anch’esse in poche parole: sono malata, sto morendo.
“II vento attraversa il deserto; il fiume può fare altrettanto, se permette al vento di trasportarlo”
Anche Yossef gli spediva lettere ogni anno. La superficie delle frasi diceva: mi manchi, bramo la tua saggezza, saresti più utile al mio fianco, come ai vecchi tempi. Ma l’appello era sempre meno sincero e la retorica, sempre meno curata. Ismail scorreva i fogli con gli occhi, non leggeva davvero. Accettava i doni che li accompagnavano, i distribuiva. Il vero messaggio che gli arrivava da Istanbul era molto chiaro. La Città del Caffè era il luogo giusto per lui.
L’invito di Gracia invece era sincero, appassionato, come lo era il suo desiderio di riabbracciarla e di assecondarne le ultime volontà.
Allora il fiume innalzò i suoi vapori verso le braccia accoglienti del vento, che li sollevò e li portò a Oriente, lasciandoli ricadere come neve sulla cima…
Il vociare che faceva da bordone al racconto crebbe fino a sovrastarlo, poi si spense improvviso. Un grido in turco interruppe il cantastorie.
- Tornate alle vostre case, ordine dell’ammiraglio. Niente raduni dopo il calar del sole.
Si udirono proteste in arabo, maledizioni, goffi tentativi di parlamentare nella lingua dei soldati. Dal tono delle voci, Ismail comprese che non ci sarebbero stati incidenti. Non quella sera.
Ripensò alle parole della storia. Era un parabola sufi, l’aveva udita molte volte, in molte diverse varianti e conosceva il finale: al tempo del disgelo la neve si scioglieva e il fiume tornava ad essere sé stesso.
Quella era stata la sua vita, per molti anni. Lasciarsi portare dal vento oltre le sabbie e ricominciare a ogni pioggia. Ora non temeva più di trasformarsi in palude, e dare acqua al deserto gli sembrava altrettanto nobile che correre tra gli argini e irrigare la pianura. O forse era così che gli piaceva credere, ma in realtà erano le sue orecchie ad essersi assordate, e la voce del vento non erano più in grado di avvertirla.
Sia come sia, non poteva tornare subito a Istanbul, e non era soltanto il monsone a impedirglielo.
Ripiegò la lettera e incominciò a spogliarsi per andare a dormire.
Le sabbie di Mokha avevano ancora bisogno di acqua.